Shalom, chaverim, lehitraot

Il 17 novembre del 1938, quando in Italia sono stati emanati i Provvedimenti per la Difesa della Razza Ariana, mia nonna era una dattilografa diciassettenne, recentemente assunta da una piccola azienda torinese ed entusiasta del suo posto di lavoro.
Passeggiando per le vie del centro – lei, che arrivava dalla provincia – adocchiava le vetrine delle boutique più in vista, assaporava il gelato nel Caffè Florio, acquistava riviste di moda e le sfogliava timidamente, fantasticando sull’abito da sposa col quale, presto, avrebbe detto “sì” al suo Giuseppe.
Il 17 novembre del 1938, mia nonna, probabilmente, non aveva nemmeno prestato chissà quale attenzione al regio decreto che avrebbe dovuto Difenderla. Come tutti i giorni, si era alzata nella sua casa in campagna, era corsa in stazione, aveva preso il treno, era scesa nell’affollata Porta Nuova di Torino, e da lì si era affrettata verso suo posto di lavoro, sfidando il freddo e la nebbia e sfrecciando veloce lungo le rive del Po. Come tutti i giorni, era entrata in ufficio, si era tolta il cappotto, si era seduta alla scrivania, e aveva salutato la sua amica Sara.

Come tutti i giorni, Sara, la sua amica e collega, le aveva sorriso, con un velo di tristezza nello sguardo. Mia nonna aveva fatto finta di niente, continuando a chiacchierare come se nulla fosse: la povera Sara stava vivendo un momento difficile, lo sapevano tutti, ed era meglio lasciarla stare quando era giù di morale.
Sara avrebbe voluto studiare, ma due mesi prima aveva dovuto lasciare la sua scuola, perché “non di razza ariana”. Sara avrebbe voluto sposarsi – conosceva un ragazzo, gli voleva bene, e lui la ricambiava – ma anche quello le era stato negato: un paio di settimane addietro, un decreto aveva reso illegali i matrimoni misti. Sara avrebbe voluto fare di tutto, nella vita, ma non la dattilografa: i suoi datori di lavoro la trattavano bene, certo, ma lei detestava quella occupazione, e in fondo l’avevano assunta solo perché faceva oggettivamente pena. Erano ebrei a loro volta, i proprietari dell’azienda, e in quei mesi si erano dati da fare per assumere il maggior numero di non-ariani, cacciati con le scuse più improbabili dagli altri posti di lavoro.
Da quella mattina passarono i giorni, i mesi, e gli anni: Sara si faceva sempre più triste e magra, e mia nonna iniziava a sentirsi vagamente inquieta a passare tutto il giorno chiusa in una stanza con ‘sta figuretta smunta. Sara era una buona amica, certo, ma stava sfiorando l’orlo della depressione: suo padre era morto, la sua sorellina non trovava un lavoro, la madre aveva perso tutti i clienti, e lei, con il suo misero stipendio, doveva pensare a sfamare l’intera famiglia. Forse una passeggiata le avrebbe fatto bene, aveva pensato mia nonna in una calda mattinata di giugno. Avrebbe chiesto al nuovo padrone di poter uscire un po’ prima, per portare la sua amica a svagarsi al Valentino: il nuovo padrone, sì, perché quello di un tempo era misteriosamente scomparso con tutta la sua famiglia – correva voce che fosse scappato, correva voce che si fosse nascosto in un luogo sicuro.

Ad ogni modo, in quella calda giornata di giugno, mia nonna aveva acceso la radio, in ufficio. Chissà, magari Sara si sarebbe distratta, con qualche canzonetta allegra.
Combattenti di terra, di mare e dell’aria!, aveva gracchiato dalla radio l’inconfondibile voce di Benito Mussolini. Camicie nere della rivoluzione e delle legioni! Un’ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra patria!
Sara non si era rallegrata particolarmente, e nemmeno mia nonna.
Popolo italiano!, aveva concluso il Duce qualche minuto più tardi. Corri alle armi, e dimostra la tua tenacia, il tuo coraggio, il tuo valore!
Sara aveva scrollato le spalle, lanciando un’occhiata silenziosa alla radio. “Oh beh”, aveva constatato pacatamente: “in ogni caso, non sta parlando con me”.

Due giorni dopo, mia nonna era tornata a lavorare, e, all’uscita della stazione di Torino, aveva trovato uno spettacolo orribile ad aspettarla. Agli angoli della strada, gli strilloni sventolavano i giornali locali facendo il bilancio del bombardamento che aveva colpito la città: quaranta feriti, diciassette morti… camminando veloce lungo le vie del centro, mia nonna si domandava chi fossero, quelli che approvavano tanto entusiasticamente l’annuncio dell’entrata in guerra.
E poi le bombe di Ferragosto, le incursioni di settembre, l’aggressione di novembre e la retata poco prima di Natale. Ormai mia nonna e Sara avevano imparato a memoria la dislocazione di tutti i rifugi antiaerei, e passavano ore e ore lì sotto – soprattutto da quando il ponte della ferrovia era crollato, e mia nonna era impossibilitata a tornare al paese tutti i giorni.
E poi il tesseramento del pane, i giardini pubblici trasformati in campi di granoturco, l’oscuramento della città, i parafango delle macchine obbligatoriamente dipinti di bianco. E la capitolazione della Grecia, la resa disastrosa in Africa… e l’Armata Italiana in Russia: Giuseppe ne faceva parte. Giuseppe, il fidanzato di mia nonna: Giuseppe, che sarebbe già stato suo marito, se quella maledetta guerra non l’avesse spedito in Germania proprio a pochi giorni da quello per cui era stato fissato, un secolo o forse un millennio prima, il suo matrimonio.
Sara non l’aveva detto – Sara era una buona amica, che diamine – ma mia nonna era convinta che, un po’, lei ci avesse goduto: almeno non era più lei, l’unica ad aver detto addio all’amore. Almeno, qualcuno l’avrebbe capita, avrebbe condiviso la sua sofferenza.
La trebbiatura del grano degli orti di guerra, le comunicazioni telefoniche interurbane sospese: mia nonna e Sara non avevano più niente da fare, in quell’ufficio, se non potevano più telefonare ai fornitori, e chi di dovere deve essersene reso conto. Come tutti gli ebrei, Sara fu stata costretta a denunciare le sue generalità per essere precettata al lavoro, ed finì a controllare il rifacimento del manto stradale. In fin dei conti, il lavoro in azienda non era poi così male.
Il 16 dicembre di quell’anno, era arrivata in Italia la notizia della disfatta dell’Armir in Russia. Sara aveva pensato alla sua amica Rita, per un attimo, e al fidanzato di lei, probabilmente morto fra il gelo e la neve: ma era stato solo un istante. Non vedeva mia nonna da quando aveva smesso di lavorare in ufficio, e in fin dei conti non avrebbe voluto rivederla: Sara non era più la ragazza spensierata di un tempo, e aveva quasi vergogna del suo volto scavato, dei suoi vestiti laceri, del suo sguardo vuoto e spento. Lei, sua sorella, sua madre, stavano davvero facendo la fame. “Gli ebrei sono coloro che tolgono la ricchezza al nostro Paese”… sì, come no. Ad averne un minimo sindacale, di ricchezza. Ad avere la ricchezza sufficiente per procurarsi un pasto al giorno…

Ingenuamente, l’8 settembre, Sara si era rallegrata alla notizia dell’armistizio con gli Alleati. Pensava che fosse la fine tanto attesa: non sapeva che, da lì a due giorni, i Tedeschi avrebbero occupato la città, e che il 16 ottobre duemila ebrei romani sarebbero stati i primi deportati d’Italia.

8 novembre: bombardamento aereo diurno. Duecento morti.
13 gennaio: partono da Torino i primi convogli diretti a Mauthausen.
4 giugno: gli Alleati liberano Roma.

25 giugno: con i pochi spiccioli ricavati dalla vendita delle gioie di famiglia, Sara esce per le vie di Torino, camminando raso ai muri per non restare folgorata con i fili della luce caduti a terra. Si dirige con decisione verso il mercato nero, il mercato degli strozzini.
25 giugno, ore 16 circa: Sara torna a casa, ma non trova ad attenderla né la madre né la sorella. In terra, da una cornice scheggiata, oltre un vetro rotto, la fissa impotente la fotografia di suo padre. Nella saletta, il tavolo è capovolto, il vaso di fiori è caduto a terra e si è infranto.
Sul mobile dell’ingresso, un messaggio per la signorina Sara. La madre e la sorella sono state prese in custodia dalle autorità tedesche a Torino: alla signorina è ingiunto di presentarsi al più presto nel tal ufficio, per ricongiungersi al resto della sua famiglia e, con esso, venire trasferita nel campo di lavoro di Ravensbrück, a nord di Berlino.

Sara non dormì, quella notte.
Sara, quella notte, prese una decisione.
Di prima mattina si alzò, si pulì, si mise il suo vestito buono, attraversò il centro della città, ed entrò nel suo vecchio ufficio, chiedendo della sua amica: di mia nonna.
Mia nonna non era ancora arrivata, le risposero: voleva lasciare un messaggio?
Sì, ringraziò Sara, e si chinò sul tavolo della ragazza che aveva preso il suo posto, per scrivere su un foglietto il suo ultimo messaggio per Rita.
E poi, con un profondo respiro, tornò in strada e scelse di non abbandonare la sua famiglia.

Vado in Germania con mia madre e mia sorella, lesse mia nonna mezz’ora più tardi. Spero di poterti riabbracciare, un giorno. Ti ringrazio per tutto, e prego per te e per il tuo futuro, con infinito affetto.

Mia nonna la attese a lungo, ma Sara non tornò mai ad abbracciarla.

Vorrei andare sola
dove c’è gente migliore,
in quel posto sconosciuto
dove più nessuno muore.
Forse ci andremo in molti
– un migliaio, o forse più –
forse ci andremo in molti:
e, sai, perché aspettare?
Alena Synkova

7 risposte a "Shalom, chaverim, lehitraot"

  1. Lazy88

    Anche io sono di Torino.. e questo racconto mi fa ancora + effetto.. sapere che quelle strade un tempo sono state attraversate da persone che hanno fatto la storia.. Anche da un racconto come questo ci si puo’ rendere conto dell’orrore di quegli anni e del disagio che la guerra e le deportazioni han portato.. D’altronde credo che l’unico modo per rendere onore a chi ha sofferto è non dimenticare ciò che è successo e soprattutto far si che nessuno soffra ancora così tanto…

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  2. PiccolaKorny

    Complimenti Lucy…
    Mi hai fatto emozionare.

    Non avevo mai sentito racconti così dal vivo, sul serio… da persone che c’erano, che hanno vissuto davvero quei giorni, che hanno sofferto per gli amici e i parenti mai più abbracciati.
    Insomma… ho letto solamente da qualche parte di scrittori tedeschi grazie alla mia prof, l’anno scorso… ma sarà che sono Italiana e di gran lunga preferisco leggere questo.

    Grazie –‘–,-{@

    Speriamo non accada mai più… anche se ogni giorno da qualche parte nel mondo qualcuno muore ucciso dalla guerra.

    Un baciotto…

    PS= Per Harry Potter: non avrei scommesso un centesimo sull’animo buono di Piton… invece, mi sbagliavo 🙂 Ho pianto anch’io come una matta, leggendo gli ultimi due capitoli del libro.

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  3. ironkraken

    Una sola tragedia che ne racconta tante, troppe.

    L’argomento dell’accanimento contro altri popoli merita però molto più spazio. Prossimamente vorrei scriverne un po’ sul mio blog.

    Ciao,

    D.F.

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