[22] Storia di una statuetta

Àyish era china sul tavolo in legno, imbiancato di farina: mescolava la pasta per il pane con movimenti profondi e regolari, fissando distrattamente quella massa bianca che si faceva sempre più compatta. Suo marito si alzò dallo sgabello dove stava intagliando un cucchiaione in legno, e occhieggiò curioso l’impasto che prendeva forma sopra al tavolo. “Cos’è?”, le chiese allegramente.
La ragazza continuò a mescolare. “Fave, lenticchie, miglio, e spelta”.
Buono!”, esclamò lui, in un tono fin troppo entusiasta. Si avvicinò alla sposa e le lasciò un bacio fra i capelli (lei non diede segno di aver sentito); allora provò a abbracciarla, stringendo le braccia attorno alla sua vita. Àyish si irrigidì e smise di impastare: “per favore”, disse a voce bassa, “adesso no. Devo finire il pane”.
Lui sciolse lentamente l’abbraccio, e si allontanò di un passo. Guardò la ragazza, da testa a piedi, e si sentì stringere lo stomaco nel notare che, alla luce del fuoco nel camino, gli occhi di lei sembravano stranamente lucidi. “Àyish, ma perché fai così?”, le chiese in un sospiro. “Perché piangi? Perché sei così triste?”. Lei si morse il labbro inferiore, senza rispondere, e lui insistette con dolcezza: “non ti basto, io? Non siamo felici anche solo io e te, più di tanti sposi che hanno dieci figli?”.
“No”, disse lei pianissimo, in mezzo ai denti, in modo che neanche lui potesse sentir la sua risposta. Smise un attimo di impastare, ma ricominciò subito dopo e con ancor più vigore, concentrandosi sul pane e cercando di pensare solo alle fave, alle fave e non ad altro…

Erano tanti anni, ch’era sposata. Ormai era già quasi vecchia. Ventidue anni, ormai quasi ventitré: tutte le sue amichette dell’infanzia si erano già sposate, avevano già una marea di marmocchi; e lei…
Beh, lei si era sposata. Quello sì. E aveva anche un buon marito, per la carità del cielo. Non essere particolarmente ricchi permetteva di fare tantissime cose belle, come sposarsi con un ragazzo scelto all’incirca da te, invece che dai tuoi parenti: e lei aveva scelto bene, a quanto pare. Non avrebbe potuto scegliere meglio. Probabilmente ne esisteva uno solo, sulla faccia del pianeta, di uomo disposto a tenersi in casa un tronco secco, un pezzo di carne morta, un corpo vuoto e inaridito, una creatura inutile e penosa e maledetta da Dio e da tutti gli angeli, che nemmeno…
“… e se questa è la sua volontà, evidentemente ha altri progetti per noi, non trovi? Non è così… Voglio dire, non puoi soffrirci così tanto…”.
Non si preoccupò neanche di rispondergli.
Erano tanti anni, ch’era sposata; e ormai era evidente a tutti, che Dio l’aveva maledetta. Una cosa sola, avrebbe voluto fare, nella vita: dare un figlio a suo marito. Ma il suo ventre restava vuoto, il suo seno non si gonfiava; e mentre tutte le donne di Bethlemme fiorivano, davano la vita, allattavano i loro figli, lei restava lì, corpo inutile e già morto, guscio vuoto senza scopo e senza vita. Solo un paio di volte… forse… una flebile speranza, che s’era sciolta di lì a poco con una macchia di sangue sui vestiti: e lei avrebbe preferito morire, piuttosto che vivere in quel modo; lei aveva addirittura smesso di pregare, di fronte a un Dio così lontano che ignorava deliberatamente tutte le sue lacrime.
“… e non serve a niente, Àyish, comportarsi in questo modo. Se non mangi, se mi allontani, se passi tutto il giorno a avvelenarti con questi pensieri, ti rendi conto che fai solo pegg…”.
“ÀYISH! Sei in casa?”.
La ragazza sobbalzò, colta di sorpresa; e anche il marito si interruppe, lanciando uno sguardo alla porta chiusa. “E chi diamine…?”, brontolò fra sé la donna. Si strofinò le mani, in fretta, per pulirle dalla pasta: andò ad aprire e si trovò davanti Sarai, la fabbricatrice di tende, che le lanciò un sorriso veloce a mo’ di saluto. “Scusa per l’interruzione, mi manda Rebecca: per favore, non avresti qualche straccio vecchio da dar via? Non ho capito bene, ma credo che ci sia una donna che sta male”, aggiunse in fretta, di fronte allo sguardo sconcertato dell’amica. “Ho incontrato Rebecca per strada e mi ha detto che sta cercando pezzi di stoffa vecchia, di quelli che non useresti più. C’è questa povera disgraziata che si è sentita male e non ha niente: sai, è qui per il censimento”.
“Cosa…?”, mormorò Àyish, sbattendo le palpebre due o tre volte. “Io… sì, forse ho qualcosa… una vecchia sc…”.
Grazie!”. Sarai le sorrise a trentadue denti e non la lasciò nemmeno finire di parlare: “allora io provo a andare a chiedere anche a qualcun altro, non so di quanto ne hanno bisogno… glielo porti tu? Rebecca dice che si trova nella vecchia stalla di Tobia, hai presente? Quella in fondo al sentiero, lontana dalle case. Vai tu?”.
“S…”, esitò la ragazza, ma Sarai era già scappata. Àyish si voltò verso il marito e gli lanciò uno sguardo perplesso; lui si strinse nelle spalle, osservando distrattamente: “nella vecchia stalla di Tobia? Ma che schifo! Poveretta”.
“C’è gente che si sta sistemando ovunque, per questo cavolo di censimento”, mormorò lei a bassa voce richiudendosi la porta alle spalle. “Magari ne ha bisogno per… coprire la paglia sporca?”. E aggrottò le sopracciglia, con aria pensierosa, prima di aggiungere “beh, in effetti c’è quello straccio tutto bucato che non riesco più a rattoppare. Posso dargli quello?”.
Lui annuì e lei si coprì i capelli con il primo velo che le venne in mano: prese lo straccio vecchio da un cassone, lo contemplò per assicurarsi che fosse effettivamente abbastanza malconcio per essere ceduto a una sconosciuta in difficoltà, e assicurò che “vado e torno, allora. Se nel frattempo vuoi ungere la padella per il pane…”.

Aprì la porta e s’incamminò lungo il sentiero, con un sospiro rassegnato. In un altro momento, non si sarebbe certo presa tutto quel disturbo, ma conosceva bene – per sentito dire – i disagi che dovevano sopportare quei poveri disgraziati costretti a muoversi per il censimento, in quel delirio disorganizzato e caotico che portava solo affanni. Giusto due giorni prima era finalmente rincasata la sua amica che lavorava al mulino, e che aveva raccontato di fastidi orribili durante quel viaggio allucinante: gente ammucchiata sulle carovane, predoni lungo la strada, locande strapiene e con prezzi da usura, vecchi e bambini costretti a dormire in mezzo alla strada in piena notte…
Lei avrebbe voluto un po’ di aiuto, se fosse stata costretta a barcamenarsi in quella bolgia.
E in effetti – pensò con un moto di sconcerto – se c’era addirittura gente disposta a pernottare in una stalla

Si avvicinò alla stalla, che per l’appunto era il posto più schifoso e sudicio che avesse mai visto in vita sua.
Era una piccola caverna, scavata sul fianco della collina: un buco angusto e umido, che scompariva nelle tenebre e puzzava di letame. Àyish pregò il cielo di non doversi mai trovare in una situazione simile, e si avventurò incerta verso l’ingresso della grotta. Scorse un bue, qualche pecora, e poco più in là scorse Zelomi, la levatrice, che stava ammucchiando della paglia pulita in un angolo della caverna.
Zelomi alzò lo sguardo, vide Àyish, notò il suo straccio, e le fece un sorrisone. “Grazie mille!”, esclamò raggiante, affrettandosi a andarlo a prendere. “Questa poveretta non ha niente, è qui per il censimento: guarda solo in che razza di tugurio…”. E poi alzò leggermente il tono della voce, rendendolo al tempo stesso più pacato e rassicurante: “hai visto, Miriam? Te l’ho detto, le mie amiche ci stanno portando i panni puliti: andrà tutto bene, veramente, non c’è problema”.
Àyish seguì lo sguardo di Zelomi, e scorse, in fondo alla grotta, una ragazzina pallida che stava semisdraiata sulla paglia, con i capelli ricci e neri che le cadevan sulle spalle. Avrà avuto quindici o sedic’anni, e aveva il ventre gonfio di chi sta per generare un figlio… Àyish avvertì fra sé l’impulso di strozzarla con lo straccio.
La ragazza, invece, incrociò il suo sguardo; e le sorrise, di un sorriso un po’ tirato. “Grazie”, mormorò, col fiato leggermente corto. “Non so come ringraziarvi, davvero… che Dio vi benedica! Il Signore ve ne renderà merit…”.
“Sì, come no”, sbottò Àyish in malo modo, guardandola malissimo. “In bocca al lupo”; e poi cercò Zelomi: “scappo a casa, stavo preparando il pane… buon lavoro”, aggiunse con una stretta al cuore, girandosi sui tacchi e andando via.

Fece il sentiero ritroso, a passo cinque volte più veloce dell’andata: cercò di rallentare solo quando si trovò nei pressi di casa sua, per darsi un minimo di contegno prima di rientrare.
Suo marito le lanciò un’occhiata. “Tutto bene, per quella poveretta? Niente di grave, spero”.
“Macché”, sbottò Àyish, in un tono che uscì fuori involontariamente stridulo. “Sta benissimo, era solo una ragazza che doveva partorire”.
Si tolse il velo e lo posò sul cassone (in realtà, era così nervosa che praticamente lo scagliò lì sopra); tirò sul col  naso, nel disperato tentativo di mascherare l’ennesima crisi di pianto, ma le bastò uno sguardo a suo marito per capire che era perfettamente inutile…
Àyish”, le ripeté pianissimo; e lei fu quasi incredula, di sentirlo parlare in tono così sinceramente addolorato. “Àyish, per favore smettila, non fare… non è”. Esitò. “Non te ne faccio una colpa, va bene così, ma tu non puoi passare così tutto il resto della tua vita… basta…”. Aprì le braccia per abbracciarla, e questa volta lei si lasciò abbracciare: affondò la testa nella spalla di suo marito, e strinse fra le dita la stoffa della sua tunica mormorando un “grazie”.

Guardando i bambini che giocavano per strada, Àyish ripensò più volte, negli anni successivi, a quella giovane ragazza incinta che aveva incontrato nella stalla, e a quello che avevano raccontato sul suo conto i pastori di Bethlemme, l’indomani. Ogni tanto ci ripensò, si pose qualche domanda, si domandò persino se non ci fosse un collegamento, e poi raccomandò a se stessa di non esser così idiota.
Però ci ripensò, qualche volta. Di tanto in tanto. Così. Oziosamente.
Coincidenza o no, era un dato di fatto: dentro di lei, in quella notte di Natale, aveva incominciato a vivere la vita.


Beh, ovviamente non mi identifico in una moglie sterile… ma a Bethlemme, duemila anni fa, mica potevo far la studentessa!
Però mi identifico nell’atteggiamento di fondo: ‘ché Àyish è una ottima ebrea, timorata e devotissima (a proposito: chi coglie le citazioni bibliche?); anche attiva nelle cose pratiche, se vogliamo, tipo andare a portare il suo aiuto al prossimo…ma quando si trova seriamente a faccia a faccia col Signore…? Alla fin fine, sarà riuscita a accoglierlo?

E poi, beh, mi piace anche il “miracolo” finale: ‘ché va sempre bene, una esortazione a mettersi nelle mani della Provvidenza e a non perder le speranze!

10 risposte a "[22] Storia di una statuetta"

  1. Lucyette

    Come scrivevo su FB, quando passi la serata a scartabellare cataloghi di codici vaticani senza accorgerti che nel frattempo si è fatta l'una e un quarto, in effetti è grave. Quando guardi l'orologio, vedi l'ora, inorridisci, e poi passi altri quindici minuti della tua vita a impazzire con l'editor di Splinder per pubblicare il post del giorno… in effetti, è da ricovero immediato 😀
    Tutto ciò per dire che non ho riletto il post, quindi se la forma fa schifo o ci sono errori di battitura, siate comprensivi… in fin dei conti è Natale: non siamo tutti più buoni? 😉

    Ah, dimenticavo: a suo tempo ho passato un pomeriggio della mia vita a cercare su Google una traduzione in ebraico e/o aramaico di "Lucia" (luce). Non l'ho trovata. Alla fine ho scoperto che àyish è un termine ebraico con cui ogni tanto vengono indicate, nella Bibbia, le stelle e il sole. Mi sono accontentata.

    E comunque, ogni personaggio del mio presepe ha la sua storia ben precisa (da piccola ci facevo delle soap-opera infinite, con i personaggi del presepe). Tutto ciò per dire che la statuetta in questione è di acquisto più recente… ma ce l'ha avuta anche lei fin dal primo momento, la sua storiella! Qui mi sono limitata a riadattarla 😛
    A scrivervi le storie di tutti i personaggi del mio presepio, potrei farci un romanzone… 😉

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  2. Cappellai0Matto

    Ghghghg
    Per tutti i Leprecauni!
    Stavo giusto per scrivere, testuali parole, "ed ora come dovremmo interpretare questo racconto? u.u".
    Poi, fortunatamente, ho letto quel continua a leggere.

    Bellissimo racconto

    P.S –  Riguardo alle citazioni, non saprei che l'è tardino, eh u.u
    Così, ad una prima lettura dire il pane di Ezechiele. Più in generale, dire la vicenda di Abramo e Sara (o, comunque, tematicamente ho subito pensato a loro).

    Magari domani mi rimetto a leggere u.u

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  3. utente anonimo

    Penso di aver individuato due citazioni, ma non chiedermi i versetti…
    qando parli del tronco secco che si sente Ayish, viene in mente il tronco di Jesse da dove spunta il germoglio di Davide
    la seconda è quando il marito dice se non sono più felici di tanti che hanno figli; credo che qualcosa del genere l'abbia detto il padre del profeta Samuele alla moglie inizialmente sterile…
    Se ce ne sono altre, non le ho colte

    Diego

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  4. Lucyette

    Cappellaio, vabbeh, ma adesso ti banno dal mio blog e ti denuncio per stalking (hai installato un microchip nel mio computer, non c'è altra spiegazione): come fai a indovinare pure il pane di Ezechiele??? 😀
    Sì, esatto, è proprio il pane di Ezechiele (cap. 4, versetto 9). Non sapevo cosa far cucinare alla statuetta, e quindi ho preso una ricetta biblica 😉

    Diego, ussignur, non avevo minimamente pensato all'albero di Jesse! No, il tronco secco era solo una immagine che mi era venuta in mente per descrivere lo stato d'animo della ragazza… però è un bellissimissimo collegamento, il tuo (soprattutto visto il tema natalizio)! 😀
    In compenso, per l'altra frase avevo pensato proprio ai genitori di Samuele, Elkana e Anna. La domanda del marito (della storia) riprende quasi testualmente la domanda di Elkana a sua moglie Anna, che sta piangendo perché non riesce ad avere un figlio: "Anna, perché piangi? Preché non mangi? Perché è triste il tuo cuore? Non sono forse io per te meglio di dieci figli?" (1Sam 1,8).  Tutto ciò per far vedere che i protagonisti della mia storiella erano una famiglia molto religiosa… chissà se poi alla fine hanno saputo onorarlo per davvero, Gesù Bambino?

    Bravissimi, avete indovinato subito! 😀
    Resta solo un'ultima citazione, che però in realtà non è propriamente biblica (più che altro, fa parte della tradizione popolare)… vediamo se il Cappellaio indovina anche questa: è il tipo di cose che dovrebbe sapere 😉

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  5. marinz

    Io ho un dubbio: perchè hai chiamato la stalla/grotta "stalla di Tobia"?

    Pensavo che ci fosse qualche riferimento da qualche parte ma non ho trovato nulla con una ricerca veloce… inoltre Tobia mi riporta alla mente la sua storia ma centra poco con il Natale… fu accompagnato da Raffaele e scacciò il demonio di sua moglie, la quale aveva fatto fuori 7 mariti prima di lui 😛

    Per il resto anche io ho pensato al tronco di Jesse come Diego… mi sembra naturale a Natale pensarci!!!

    Mentre per Ezechiele non ci sarei mai arrivato :o)

    Un sorriso 🙂

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  6. utente anonimo

    Uhm… Bella sfida u.u
    La Zelomi del Vangelo apocrifo?
    Oppure… Oppure…. La sto leggendo fino allo sfinimento! Ghgh.

    Ecco!
    Questi ti dimostra, per una buona volta, che io di cimici non ne ho!!!

    Cappellaio

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  7. Lucyette

    Claudio, ma povera donna! :-S Aveva paura, per l'ennesima volta, di essere delusa e di deludere; e rispetto al provare e poi fallire, trovava più dignitoso rinunciarci di partenza…
    Ehm.
    Sì, okay, sto difendendo una mia orribile tendenza (è o non è, la mia statuetta?). Però, a onor del vero, quando faccio così mi detesto da sola… e infatti lei riceve la grazia solo quando cambia atteggiamento 😀

    Marinz, LOL… sai cosa? Ogni tanto, al liceo, quando facevo le analisi del testo e mi dilungavo per dieci o venti righe cercando di spiegare perché Dante avesse usato quella parola lì e non un sinonimo, mi domandavo "boh? Ma Dante l'avrà fatto apposta per davvero? Chissà come si sente, ad essere vivisezionato così…".
    Ecco, credo di cominciare a intuire la sensazione :-DD
    La stalla è di Tobia per il semplice fatto che le due ragazze abitavano a Bethlemme e conoscevano bene villaggio ed abitanti: avrebbe avuto poco senso dire "quella vecchia stalla in fondo al sentiero e bla bla bla", considerato che, presumibilmente, conoscevano benissimo il proprietario. E Tobia, molto molto banalmente, era il primo nome maschile che mi è venuto in mente :-DD

    Cappellaio, esatto, è Zelomi: la tua cimice nascosta funziona benissimo, non ti preoccupare 😉
    Zelomi, in molti Vangeli apocrifi, è una delle due levatrici che aiutano Maria a partorire (in altri Vangeli apocrifi, Maria partorisce da sola in mezzo a luci sbrilluccicanti e canti angelici, e le levatrici, incredule, si limitano a constatare la sua verginità e a spargere la voce). Ho ripreso il nome 😉

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