Peccatori o eletti? Gli ammalati nel Medio Evo

Presumibilmente, mentre leggete questo post, la sottoscritta si trova nel letto di casa sua e affronta rassegnata la sua convalescenza dopo un piccolo intervento.

Ma “rassegnata” non è un aggettivo che si confaccia a una Brava Ragazza Cattolica alle prese con la malattia, mi direbbero fior fiore di agiografi medievali. La malattia si accetta con disperazione e pentimento, se credi che Nostro Signore te l’abbia mandata come punizione per la tua condotta; oppure si accetta con gioia e gratitudine, se credi che te l’abbia mandata Nostro Signore come premio. Tertium non datur.

Direbbero così, i miei agiografi medievali – e forse non è nemmeno il caso di prenderli a insulti, poveretti: vengono da un mondo molto diverso dal nostro e hanno, per certe cose, una sensibilità tutta particolare. Carole Cusack prova a spiegarcela un po’ meglio nel suo Graciosi: medieval Christian attitudes to disability. L’articolo apparso nel 1997 sulla rivista medica Disability and Rehabilitation, cerca di fare luce su un aspetto molto discusso: nel Medio Evo, cosa pensava l’uomo-medio di fronte a un malato grave? E, peggio ancora, di fronte a un malato grave senza speranza di guarigione?

E badate che è un argomento controverso, eh. Da un lato, abbiamo il noto slancio religioso sulle linee di “uuuuhh, un lebbroso! Abbracciamo il lebbroso! Baciamo il lebbroso! Gesù sarebbe contento!”.
Da un altro lato, però, abbiamo una certa difficoltà di comprensione: “sì, okay, prendiamoci cura di ‘sto poveraccio – ma ‘sto lebbroso, perché è lebbroso?”.

Avrà commesso orrendi peccati, e adesso è marchiato per sempre dalla sua condotta dissoluta?
Eh però neanche le stigmate mi sembrano una passeggiata di salute, eppure puoi mica dire che Dio le ha mandate a San Francesco perché non gli stava sulle scatole.
E allora, vuoi mica dire che Dio manda la malattia alle persone che più ama? (Ma che è, allora? Nostro Signore è un sadico? E OMMIODDIO, io per adesso sono in buona salute: vuol dire che Dio non mi ama? Brucerò all’inferno? Suor Cornelia, che ha settant’anni ed è fresca come una rosa, è forse destinata alla più atroce dannazione eterna? E comunque, siamo di fronte a un Dio schizofrenico, ché prima premia i suoi amici con le più tremende malattie e poi ci ripensa e li risana con una guarigione miracolosa?).

Mica facile, prendere posizione di fronte al tema della malattia – ché poi, gira e rigira, la domanda è sempre quella: “si Deus est, unde malus?”.
Un’impresa da niente, trovar risposta…

***

Una risposta piuttosto umana – e anche rassicurante, se vogliamo – era sulle linee di: “stai male? Embeh: sicuramente, te la sei andata a cercare”. Il sottinteso era ovvio: “fintantoché non me la vado a cercare, io godrò di una salute di ferro”.
Del resto, i Vangeli son pieni di guarigioni miracolose, le agiografie pullulano di Santi che risanano i malati: è evidente che Dio non brama la sofferenza umana; anzi, molto spesso interviene per alleviarla. Perdipiù, a sostegno di questa tesi, ci sono alcuni passi evangelici (la Cusack cita in particolare Mc 2, 1-12) in cui la capacità di Gesù di guarire gli ammalati sembra in qualche modo collegata alla sua capacità di rimettere i peccati.
Dunque, la malattia è diretta conseguenza del peccato?
Si ammala chi pecca? Chi ha una vita dissoluta? Forse sì – ma come spiegare, allora, la malattia della pia donnetta, che sembrerebbe una persona tanto per bene e invece langue nel dolore?
Peggio ancora: come spiegare la malattia dei bambini, per dirne una? Un neonato malato che colpe ha – ha compiuto dissolutezze nell’utero di mamma?
Beh… sarà politicamente scorretto, ma il neonatino sofferente è peccatore pure lui: le Immacolate Concezioni sono abbastanza rare, per così dire.

Quindi, accettiamo la tesi secondo cui la malattia è diretta conseguenza del peccato?
Il progetto di Dio era quello di creare un’umanità tutta santa e tutta quanta in sfolgorante salute, ma poi c’è stato quel fattaccio della mela e gli uomini, ahinoi, hanno cominciato ad ammalarsi?
Seems legit, direbbero alcuni teologi medievali.

Epperò c’è qualcosa che non torna, obietterebbero i loro colleghi: con che criterio, c’è chi si ammala gravemente e chi gode complessivamente di un’ottima salute? Dio distribuisce le malattie a random, con peccatori jellati che si beccano il cancro e peccatori fortunati che invece riescono a sfangarla?
Mh. Poco credibile.
E poi, com’è che ci son fior fiore di santi che passano la vita in mezzo a sofferenze atroci, ma, presumibilmente, senza esser peccatori incalliti?
Mhm.

Si inserisce a questo punto la seconda scuola di pensiero, quella per cui “sta per investirti un treno? INNALZA LODI A DIO, che ti ha fatto oggetto di una particolare grazia!!”.
Perché in effetti, se ci pensate, non è che Dio disdegni le sofferenze.

Voglio dire: se proprio gli avesse fatto schifo la sola idea di ammalarsi, avrebbe potuto evitare di incarnarsi in un vero uomo. I Vangeli non riportano se anche Gesù, di tanto in tanto, avesse il raffreddore, ma io immagino di sì – e comunque, quando se ne stava appeso a una croce con la schiena flagellata, presumibilmente non si sentiva tanto-tanto bene.
E se la malattia fosse quindi una speciale condizione che l’uomo sperimenta di tanto in tanto (alcuni più e alcuni meno; alcuni guarendo, alcuni no), e che gli permette, in un certo senso, di “farsi più vicino a Dio”?
In quest’ottica, la sofferenza diventa addirittura qualcosa di desiderabile – non tanto perché i medievali avessero tendenze masochistiche, ma perché ritenevano di poter trarre beneficio spirituale da una condizione che permetteva loro di “condividere” i patimenti sopportati da Cristo.

Si spiega così una vasta casistica di agiografie medievali in cui la vita di ‘sta povera gente ci viene dipinta come un coacervo di disgrazie. A leggere le biografie di certe Sante del pieno Medio Evo (perché… : sono soprattutto le donne, in quel periodo, a vivere drammi medici piuttosto catastrofici), un uomo moderno, probabilmente, si sentirebbe spinto a toccar ferro, più che a raccogliersi in preghiera.
La Cusack porta ad esempio alcuni casi: Liduina di Schiedam, che a quindici anni si fa male scivolando mentre pattina sul ghiaccio, e da quel momento entra in un calvario di sofferenze sempre più atroci che si concludono solo ventotto anni dopo, quando la poveretta finalmente muore (!!); oppure Beatrice di Nazareth, mistica cistercense che ci andava giù pesante con le penitenze corporali, e che, in maniera ancor più notevole, si ritrovava a rantolar dal male ogni qualvolta faceva la Comunione (!!!).
La nostra storica ci ha fornito questi esempi, ma se ne potrebbero fare numerosissimi altri. Dando un’occhiata alle fonti, sembra che questo tipo di “Santità femminile atrocemente sofferente” abbia avuto una particolare fioritura nelle Fiandre del pieno Medio Evo, per poi espandersi anche in altre zone d’Europa. E a leggere attentamente queste agiografie, sembra di cogliere alcuni tratti comuni: innanzi tutto, un ruolo di prim’ordine riservato a Gesù Sacramentato, che in qualche modo c’entrava sempre (molto spesso, diventando ad esempio l’unico alimento assunto dalla malata durante la lunga malattia). In secondo luogo, rileviamo un rapporto quasi personale che si instaura fra queste Sante sofferenti e la persona di Gesù Cristo. Se la Santa non è una mistica, è comunque una donna – rigorosamente single – che si abbandona completamente a Cristo, donandogli il suo cuore, il suo corpo e i suoi sensi. E beneficiando, in questo modo, di una condizioni fisica sicuramente anormale… ma che favorisce la crescita spirituale.
In che modo? Beh, in questo: quando giaci in un letto di dolore, con la pelle che ti si desquama, le gambe paralizzate e fitte atroci in ogni punto del corpo… che fai? Poraccia: anche volendo peccare, non è che puoi sbizzarrirti più di tanto – e non corri neanche il rischio di distrarti troppo; di perderti in pensieri che hanno poco a che vedere con la salvezza della tua anima.

Perché sai: di pensieri ce ne sono tanti, per una donna in buona salute.
I nostri agiografi medievali ce ne elencherebbero alcuni: la bellezza, il corteggiamento, il marito, la cura dei figli, la casa coniugale da mandare avanti… o il convento da gestire, se sei suora.
Non necessariamente sono fonte di peccato, ma necessariamente sono cose che ti portano via un sacco di tempo. Ma se tu sei bloccata a letto, con dolori così forti che ti impediscono anche solo di fare “bah”, senz’altro potrai passare in contemplazione mistica tutte quante le tue giornate!! 24h/24, sette giorni alla settimana, per tutto il resto della vita, finché il Signore non ti chiamerà a Sé!! E quando arriverai al Suo cospetto, e Lui ti chiederà “come hai messo a frutti i tuoi talenti”, tu potrai guardarlo male e dirgli “eh, vedi un po’ Tu…”.
E forse che questa non è una prospettiva estremamente allettante?!?

Ehm.
Mi sa che noi moderni risponderemmo “beh, andiamoci piano…”, ma questa è la logica sottesa a numerose agiografie. Letta sotto questo punto di vista, la malattia non appare come un flagello biblico da fuggire – anzi, paradossalmente è persino uno status positivo.
Certo: il godere di buona salute è la condizione auspicabile per ogni uomo, anche perché Dio non ha creato il mondo con l’idea di trasformarlo in un enorme lazzaretto cosmico; tuttavia – per dirla con le parole della Cusak – la gente in buona salute tende a peccare molto più di un poveraccio che giace a letto esanime; quindi,

un corpo deformato dalla sofferenza – causata da digiuni volontari, malattie o incidenti: è indifferente – è davvero un corpo bello, perché consente all’anima di dedicarsi completamente a Cristo. Deriva proprio da qui la convinzione che i disabili, gli ammalati, i deboli e i poveri godano in realtà di vantaggi spirituali: sono graciosi, cioè destinatari di una speciale grazia divina.

…che, se vogliamo, è anche un ragionamento con una sua logica.
“In condizioni normali l’uomo dovrebbe essere in buona salute, ma la malattia non è una jattura: la sofferenza, se vissuta nel modo giusto, può migliorare grandemente la salute della nostra anima”.

Una visione un po’ estrema?
Una visione consolatoria, in un’epoca in cui il dolore fisico era all’ordine del giorno?
Una visione mica scema, che potremmo prendere in considerazione anche noi uomini del 2000?

Mah, vedete voi.
Io, comunque, resto della mia idea: per esser strani, erano strani; però non eran mica scemi, questi ometti medievali…

6 risposte a "Peccatori o eletti? Gli ammalati nel Medio Evo"

    1. Lucia

      Col passare del tempo e con l’acutizzarsi della malattia, il suo corpo si impiagò a tal punto che si attaccò al legno della tavola e la sua putrida carne divenne cibo per vermi e topi

      O___o

      Okay, questa è decisamente una di quelle storie che ti danno conforto durante la convalescenza, per la serie “questa stava decisamente messa peggio di me”. LOL! 😀

      Grazie per questa perla: Santa Fina, poraccia, mi mancava proprio!

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      1. Emilia

        Uh, anch’io ho pensato a santa Fina! Sono stata a san Gimignano alcuni anni fa e ne ho rimediato pacchi di santini. Possibile che non te ne ho mai spedito nemmeno uno?

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  1. ago86

    E’ l’eterno problema del “giusto sofferente”, che è l’argomento centrale del libro di Giobbe. D’accordo, era un libro veterotestamentario e risentiva della visione teologica del periodo (secondo la quale era impossibile che il dolore potesse avere una parte positiva), e d’accordo, la venuta di Cristo, con la Sua passione, morte e resurrezione hanno dato una nuova luce alla sofferenza, che può diventare anche fonte di santità, ma resta comunque il fatto che, in sostanza, Dio non vuole la sofferenza dell’uomo, e dipende dalla persona che soffre accogliere la sofferenza come un “dono” (tra virgolette, ovviamente) o come una maledizione.

    Devo dire che i medievali problematizzavano gli aspetti dell’esistenza in una maniera che i filosofi moderni nemmeno si sognano. Non erano per nulla stupidi, anzi!, e secondo me non erano nemmeno strani.

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