Il gangster con la talare

Il 16 gennaio 1920, con l’entrata in vigore del Volstead Act, gli Stati Uniti d’America impediscono la produzione, la vendita e l’importazione di bevande alcoliche all’interno dei territori nazionali. Segue a strettissimo giro una reazione di terror panico da parte dei nunzi apostolici, che perdono dieci anni di vita nell’arco di pochi secondi e corrono disperatamente ai ripari. Perché… forse non è la prima cosa che viene in mente pensando al Proibizionismo, ma… ahò: a cattolici, il vino serve.

Serve durante la Messa, naturalmente, per consacrarlo e farlo diventare sangue di Cristo. Non è che il sacerdote possa consacrare qualsiasi liquido abbia a portata di mano: acqua corrente, succo d’arancia, caffè macchiato, “basta il pensiero”. No, affatto: per i cattolici, è di fondamentale importanza che il pane sia davvero pane e il vino sia davvero vino (fra l’altro, con certe specifiche caratteristiche). E in uno Stato in cui sono severamente vietati la produzione e il consumo di alcoolici… il prete cattolico come fa a dir messa?

Inizialmente, i legislatori avevano suggerito alle Chiese la possibilità di utilizzare, in vece del vino, liquidi a base di succo d’uva non fermentato, tecnicamente ammessi al commercio. “In fin dei conti è vino in potenza”, sostenevano.
Le Chiese protestanti se l’erano fatta andar bene, ma i cattolici e gli ebrei erano stati irremovibili: sia i vescovi che i rabbini rivendicavano con forza il diritto di utilizzare, nei loro riti, il comune vino vero – e se voi ce lo impedite, state limitando la nostra libertà di culto!

Pagine e pagine potrebbero essere scritte sulla vera e propria propaganda anticattolica (!) portata avanti, a quell’epoca, da alcuni esponenti della lega proibizionista (primo fra tutti, il celebre William Anderson), che non riuscivano a capire come mai i sacerdoti “papisti” si fossero fissati con ‘sta storia del vino a tutti i costi. Ma verrebbe da dire che il Non praevalebunt vale, evidentemente, anche per questo tipo di situazioni: dagli e dagli, cattolici ed ebrei riuscirono a portare dalla loro l’opinione pubblica e ottennero un permesso speciale che consentiva loro di detenere e consumare, a scopi rituali, un massimo di 10 galloni di vino all’anno. All’incirca, 38 litri.

Vino kosker proibizionismo

E fu a quel punto che negli Stati Uniti accadde una cosa assai bizzarra: cominciarono a spuntare come funghi rabbini e preti dall’aria assai malavitosa che vagano per i negozi di articoli liturgici pretendendo di comprare vino sacramentale e… “oh, poffarre! Devo aver dimenticato in canonica i miei documenti di identità! Vabbeh, ma tanto lei si fida, no?”.

E riceveva le sue bottiglie di vino per davvero.

Del resto, i negozi che vendevano vino sacramentale erano retti da commercianti, non da poliziotti: non si poteva realisticamente pretendere che i commessi sottoponessero a un interrogatorio tutti i loro clienti potenziali. E quand’anche un negoziante particolarmente scrupoloso si fosse sentito in dovere di fare adeguati controlli, non ci voleva una gran fatica a sventolargli in faccia un qualche documento falso o una qualsiasi certificazione che attestasse “questo è padre Piripicchio Rossi, parroco della parrocchia di S. Maria della Botticella, e dunque è autorizzato a detenere vino entro le quantità previste ai termini di legge”.
Sono persino attestati casi di preti aggrediti per strada da gangsteristi che volevano derubarli dei loro documenti d’identità. Sono attestati casi di preti che si vedevano una delegazione di poliziotti davanti alla porta della canonica e cascavano dalle nuvole: “ma come sarebbe a dire, che a voi risulta che io nell’arco di una settimana abbia comprato quintali di vino sacramentale in giro per i negozi della città? Io ho solo una bottiglia che custodisco sotto chiave in sacrestia, giuro che non sono stato io a effettuare gli ordini che dite!”.

Non è facile calcolare quanta percentuale delle vendite di vino sacramentale sia effettivamente finita nelle mani dei gangster, negli anni del Proibizionismo. Quel che è certo, è che i cittadini americani dei Roaring Twenties sembravano aver sviluppato uninconsueta assiduità ai sacramenti: nel primo anno di Proibizionismo, furono messi in circolazione negli Stati Uniti ottocentomila galloni di vino sacramentale in più, rispetto a quello venduto in media negli anni passati.
Ottocentomila galloni fanno tre milioni e mezzo di litri, arrotondando per difetto.

Impossibile effettuare controlli più severi. Lo ammetteva tristemente la stessa polizia: i commercianti di articoli liturgici erano commercianti, non ispettori. Sicuramente si poteva chieder loro di verificare l’identità dei loro acquirenti – ma se l’acquirente tirava fuori un documento d’identità, come si poteva pretendere che la suora ottuagenaria dall’altra parte del bancone fosse in grado di identificarlo come falso? E quand’anche fosse stato: si poteva ragionevolmente pretendere che la suora ottuagenaria cacciasse via Al Capone dal suo negozio?
Per non parlare poi del fatto che i negozianti erano desiderosi di vendere e non volevano avere grane: un agente di polizia di New York, durante un controllo sotto copertura, riferì sconsolato di essere entrato in dieci negozi diversi di articoli liturgici, semplicemente indossando un abito talare, e di aver potuto comprare per dieci volte di fila le bottiglie di vino che richiedeva, senza nemmeno aver dovuto mostrare la sua carta d’identità fasulla.

Le diocesi, a onor del vero, avevano tentato di collaborare. La Chiesa Cattolica, caratterizzata da una struttura rigidamente gerarchizzata, rendeva relativamente “facile” organizzare controlli in tal senso; molto più difficile, per esempio, era controllare l’acquisto di vino sacramentale da parte dei rabbini, che facevano capo solo a se stessi.
In linea teorica, i sacerdoti cattolici che avevano bisogno di vino sacramentale dovevano chiedere un permesso scritto al loro vescovo, che diventava responsabile – agli occhi delle autorità – per la quantità di vin santo che circolava nelle parrocchie della diocesi. Ma si ritorna a discorso di sopra: il vescovo è un vescovo, non il capo di un centro di spionaggio – se i gangster fabbricavano falsi permessi vescovili e con quelli andavano a rifornirsi al negozietto sotto casa, non è che il vescovo potesse farci un granché.

A nulla valsero i tentativi di arginare il problema diminuendo la quantità di vino legalmente detenibile in canonica: da dieci galloni all’anno a due. Nel 1926, presa da disperazione, la polizia di New York emanava un delirante provvedimento a tutela del vin santo su cui, amico prete che mi stai leggendo, ti prego vivamente di soffermarti (acciocché stasera tu possa ringraziare Dio per averti fatto vivere nell’Italia del 2000, e non nella Manhattan degli anni ’20): chiuse tutte le rivendite al dettaglio, la polizia di New York identificava alcuni produttori autorizzati che avevano il permesso di vendere vino sacramentale ai sacerdoti. La vendita doveva avvenire rigorosamente in loco (cioè: direttamente nella cantina del produttore) e previo accordo scritto fra il produttore, la diocesi, e la polizia di New York. Il sacerdote che desiderava comprare una bottiglia di vino per dir Messa doveva compilare moduli in quintuplice copia, ricevere permesso scritto per effettuare l’acquisto, saltare in macchina e recarsi fino alla cantina più vicina (che spesso e volentieri non era affatto vicina!), ed effettuare il suo acquisto.

Il sacerdote aveva forse facoltà di mettersi d’accordo coi suoi confratelli e organizzare un’unica spedizione alla cantina, per comprare il vino da Messa per se stesso, per don Mario che non ha la patente, e per don Giacomo che poveretto ha ottant’anni ed è piegato in due dall’artrosi?
No; o meglio, sì, ma con altro notevole dispendio di carta bollata e burocrazia: ogni sacerdote interessato ad acquistare una porzione del vin santo caricato in macchina dal confratello-fattorino doveva compilare a sua volta i moduli in quintuplice copia e poi accompagnarli ad una lettera scritta che dettagliasse con minuzia le ragioni per cui il prete non si era recato personalmente alla cantina ma aveva delegato questo compito a un confratello.

Non era una soluzione praticabile nel lungo periodo, ma era pur sempre un disperato tentativo di contrastare la criminalità dei gangster. Fortunatamente, non mancavano più tanti anni alla fine del Proibizionismo.

Vino sacramentale Proibizionismo


Per approfondimenti:
Dry Manhattan: Prohibition in New York City, di Michael Lerner
The Prohibition Hangover: Alcohol in America from Demon Rum to Cult Cabernet, di Garrett Peck

22 risposte a "Il gangster con la talare"

  1. ago86

    Ci credi che questa domanda me la ponevo da quando ho saputo dell’esistenza del proibizionismo? Ed effettivamente immaginavo che per usi liturgici doveva esserci un’eccezione. Al resto, però, non ci pensavo minimamente, anche se è del tutto logico che i gangster ne approfittassero.

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    1. Lucia

      Sì, c’erano eccezioni per il vino sacramentale, e, peraltro, anche per gli alcolici usati a scopo medico, tipo le tinture alcoliche. All’epoca fra l’altro era una categoria di farmaci molto più diffusa di quanto non sia oggi.
      E infatti… non ho approfondito più di tanto l’argomento “farmaci”, ma so che c’è stata tutta una storia a parte, fatta di medici compiacenti e false prescrizioni mediche… 😉

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    2. Lucia

      …anche se, a onor del vero, leggevo che il vino “da Messa” era di gran lunga quello più richiesto (dai malavitosi) per il semplice fatto che era vino già “pronto”, si poteva rivendere così com’era. Gli altri alcoolici (tipo appunto le medicine) contenevano sì alcool, ma prima di essere messi in commercio sul mercato nero dovevano prima passare da una distilleria clandestina che li trasformasse in qualcosa di più bevibile.
      Il vino da Messa è buono da bere già così com’è; le tinture alcoliche no: d’accordo che contengono alcool, ma non te le scoli a bicchierini nel dopocena…

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  2. vogliadichiacchiere

    Lo sai che in un romanzo (tra l’altro letto in “Selezione”) c’è la storia di una famiglia ebrea, in California, che acquista un vigneto e cantina annessa, proprio poco prima che entri in vigore questa legge e, riescono a tirare avanti (e pagare i debiti) proprio grazie al rabbino che gli propone di preparare del vino “kosher” . 🙂
    Quando lo trovo ti faccio sapere il titolo, mi pare che ci abbiano fatto pure uno sceneggiato . . . (a quell’epoca si chiamavano ancora così) 🙂

    Ciao, Fior

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    1. Lucia

      Maddai? Che bello!
      Se riesci a trovare il titolo, passamelo: in effetti mi incuriosisce!

      Ora che ci penso, io sono una patita di romanzi storici ma non mi è mai capitato di leggere niente ambientato negli anni del Proibizionismo, toh!

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  3. Emilia

    Io invece fino a dieci anni fa ignoravo perfino che il vino da Messa fosse speciale, o meglio, credevo che fosse come una marca o simili, ma che la composizione fosse simile a quello da tavola. Tant’è che, andando in vacanza con l’oratorio, mi sono chiesta perché il don avesse con sé una strana bottiglia in alluminio che gli serviva per la celebrazione.

    L’anno dopo, nel viaggio per la GMG di Colonia, lo stesso sacerdote mi aveva incaricata di preparare il necessario per la Messa nella camera che dividevo con alcune mie compagne. Prendendo il bottiglione di cui sopra, mi sono accorta che c’era pochissimo vino e mancavano due giorni alla fine del viaggio. Credendo che non sarebbe bastato, ne ho messo solo un goccio, pensando: “Tanto, il resto è acqua!”. Peccato che il don, alla presentazione dei doni, si è interrotto e mi ha detto: “Sai che per poco non invalidavi la Messa?”. Finito il tutto, gli ho detto: “Be’, allora vado al supermercato qua sotto e prendo un cartone di vino?”. Allora ho scoperto la verità…

    Ancora oggi, quello del “Tavernello da Messa” è uno dei miei aneddoti preferiti!

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    1. Lucia

      Mi torna tutto, tranne un dettaglio: come mai rischiavi di invalidare la Messa avendo messo solo un goccio di vino nel calice? :-O
      Troppo poco? Bisogna metterne almeno un tot.? Non lo sapevo!
      In fin dei conti, in teoria, se il vino c’è, viene consacrato, tanto o poco che sia. O no?

      In compenso… sì, che il vino da Messa fosse vino “specifico”, lo sapevo. Però adesso m’è venuta la curiosità: e il pane?
      Adesso si usano le ostie ed evidentemente non è che sia pieno di posti dove puoi trovare ostie non a scopo liturgico, ma in teoria, se un sacerdote volesse consacrare del pane… immagino che si possa fare ugualmente, ma serve un pane specifico?

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      1. Emilia

        Mi spiego meglio: nel kit per la Messa da viaggio del mio don c’erano anche le ampolline. Ho riempito quella dell’acqua, mentre in quella del vino ho inserito una quantità di prodotto molto inferiore. Ne deduco, quindi, che debba essere messo più vino che acqua nel calice.

        Quanto al pane, su due piedi non saprei rispondere.

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  4. Lidia

    Ma sapete che nemmeno io mi ero mi posta il problema! E manco sapevo che il vino da messa dovesse essere speciale!
    http://www.casabrina.com/modulo_eventi_ita/25878_A_Biella_si_parla_di_vini_da_messa.htm?id_sezione=13346
    Il vino Alleluja è fenomenale 🙂

    Per il pane, so che deve essere azzimo (almeno così dice il codice di diritto canonico). Però mi pare che nei tempi andati fossero le massaie a preparare il pane della Messa, e il cardinal Van Thuan, in prigione in Vietnam, celebrava la Messa con una GOCCIA di vino e una MOLLICA di pane – magari a mali estremi estremi rimedi…

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    1. Lucia

      Il pane dev’essere azzimo?? Oh cielo!
      In una chiesa che frequentavo tempo fa, mi è capitato più volte di ricevere la comunione sotto le due specie (alla festa del Corpus Domini), e il pane era… un pezzo di pane, una specie di crostino 😛 , morbido. Anche perché sacerdote ce lo dava e ce lo faceva intingere nel calice di vino, quindi se fosse stato pane azzimo non avrebbe assorbito niente: lì era tutta mollica.
      O forse stavamo facendo la comunione solo col vino, e il pane inzuppato era un modo come un altro per farci assumere il vino evitando che tutti bevessimo dallo stesso calice?

      Aehm: questo succedeva quando io ero piccola, e non avevo più ripensato all’episodio fino ad adesso.
      …ma in effetti, può un fedele prendersi la comunione “da solo”? Cioè, il pezzo di pane nel vino lo intingevo io, non lo intingeva il prete. Non ci avevo mai pensato, ma…

      Comunque in effetti a un certo punto hanno smesso di farlo. Non so se fosse un abuso; però, comunque…

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      1. Lidia

        No no era proprio l’ostia consacrata quella che intingevi. Guarda, magari non è il massimo, ma è il modo migliore per fare la comunione sotto le due specie (cosa consigliatissima) senza bere tutti dallo stesso calice e morire di SARS (che non gira a Torino, probabilmente, ma hai visto mai).
        Solo che nella chiesa dove lo facevo io era il prete a intingere l’ostia, e mi pare meglio. Altrimenti anche io a volte ho dovuto intingere l’ostia; solo che nelle chiese in cui lo fanno lo evito di solito, prendo solo la comunione nella specie del pane e non vado dal vino – lo faccio spiritualmente. In effetti la cosa del vino è spinosa. A me fa un po’ schifo, ti dirò, bere dal calice – lo faccio, a volte, ma se penso alle malattie…la cosa migliore sarebbe che il sacerdote intingesse lui stesso l’ostia forse.
        Boh io ‘sta cosa dell’azzimo l’ho letta da qualche parte nel codice, ma magari mi sbaglio.
        L’importante è che non si sbagli chi fa le ostie 😉

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  5. don Fabio Bartoli

    Visto che La Croce mi ha affidato (per motivi a me ignoti, probabilmente non c’era altro posto libero) il ruolo di alter ego chestertoniano questo articolo mi ha irresistibilmente fatto pensare a Patrick Dalroy, il protagonista de l’Osteria Volante, che combatte il conformismo e il perbenismo a colpi di barilotti di Rum….

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  8. Elisabetta

    Non vorrei sembrare irriverente, ma io una volta anzichè sentire il classico sapore di vino liquoroso annacquato, durante l’eucarestia credo di aver sentito del lambrusco….possibile? Chiedoba chi ne sa di vino da messa.

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