Un matrimonio “come da tradizione”

E così, mi sono sposata.

Il fatto di aver organizzato il matrimonio in non più di due settimane, mi ha impedito (o messa in salvo?) dallo svolgere tutte quelle normali attività pre-matrimoniali che, in dose omeopatiche, immagino possano anche essere divertenti: scelta delle partecipazioni, confezionamento della bomboniera, ricerca dell’abito da sposa… eccetera eccetera eccetera.
Esistono addirittura dei libri e delle riviste (!), per accompagnare le mogliettine durante questi preparativi. I wedding planner più rinomati prendono da parte la futura sposa e le spiegano cos’è in e cos’è out, e quali sono le tradizioni che vanno assolutamente rispettate nel’organizzazione di un buon matrimonio.
Io, con molta evidenza, i libri dei wedding planner non li ho letti; però, un giro su qualche sito a tema me lo son fatta. E, arrivata all’immancabile punto “tradizioni da rispettare”, sono stata presa dall’immancabile attacco di ridarola.
Sì, perché… avete presente, le Tradizioni Nuziali?
Quegli Elementi-Immancabili-In-Un-Matrimonio, che ci sono sempre stati e di cui assolutamente non si può fare a meno?

Niente di male se una coppia vuole inserirli nel suo matrimonio, per carità, ma accettiamolo come un dato di fatto: la maggior parte di queste tradizioni non sono tradizionali proprio per niente.
Se potessimo saltare su una macchina del tempo e andare a imbucarci a qualche matrimonio di inizio ‘900 (e non mi spingo in epoche più antiche, solo perché diventerebbe difficile far paragoni…) potremmo essere molto, molto stupiti nel vedere il modo in cui era organizzata la giornata.

Curiosi di saperne di più?
Ecco a voi le dieci più pervicaci “leggende metropolitane” a tema matrimoniale… con tanto di debunking da parte della sottoscritta!

1. Maggio è il mese delle spose

Che, oggigiorno, la gente tenda a sposarsi durante la bella stagione, è cosa ovvia e ragionevole: le foto vengono meglio, i vestiti si alleggeriscono, gli alberi sono fioriti… che vuoi di più dalla vita?
Quello che però va bene per noi, che lavoriamo attaccati a un computer, decisamente non poteva andar bene per i nostri trisnonni, che lavoravano attaccati all’aratro.
Maggio (e, in generale, primavera, estate e inizio autunno… cioè i mesi più gettonati per i matrimoni d’oggi) erano, in passato, i periodi di massimo lavoro. Questo valeva – ovviamente – per i campagnoli, ma valeva, in una certa misura, anche per chi abitava in città: basti pensare che, a Torino, le scuole elementari andavano avanti a tener lezioni fino a inizio agosto. Era proprio il calendario lavorativo (e… mentale, se capite cosa intendo) ad essere diverso.

In condizioni normali (senza che ci fosse una grave urgenza), nessuna persona sana di mente avrebbe pensato di sposarsi a maggio (o in estate, o in primavera). Nella stragrande maggioranza dei casi, le coppie si sposavano in pieno inverno: dopo le feste di Natale, e prima che iniziasse la Quaresima. Questo permetteva agli sposi di prendersi un po’ di tempo per se stessi, ma soprattutto permetteva loro di preparare la casa e il trasloco senza l’assillo del lavoro pressante.
I matrimoni primaverili erano – davvero –  una rarità.

2. Il fidanzato (che poteva permetterselo) suggellava la sua promessa con un anello di diamanti

Intanto, sfatiamo un mito: la consuetudine di regalare l’anello di diamanti in occasione dei fidanzamenti, nasce verso la fine degli anni ‘30 (del ‘900) grazie a un’aggressiva campagna marketing condotta negli Stati Uniti dalla compagna De Beers.
Prima di quella data, era certamente comune che il fidanzato facesse regali alla futura sposa… ma non necessariamente le regalava gioielli; né men che meno anelli, né men che meno solitari con diamante. Lasciando la parola alla Marchesa Colombi, autrice, nel 1887, di un godibilissimo galateo (che, peraltro, trovate anche online), il regalo che il fidanzato faceva alla sposa consisteva in

una  schiera  di  buste  di  velluto,  colle  iniziali  del  nuovo  nome  che  la  sposa  sta  per assumere, cioè del suo nome e del cognome dello sposo. Sono: i brillanti, ereditari o nuovi, che lo sposo può offrirle; un finimento completo d’oro e pietre; parecchi anelli; insomma i gioielli più o  meno  sfarzosi,  a  seconda  della  ricchezza  e  generosità  dello  sposo,  fra  i  quali  primeggerà  la famosa catena coll’orologio.

Evidentemente le spose borghesi dovevano accontentarsi di molto meno, ma persino nel caso dei ricchi era questo il dato di fatto: il fidanzato regalava numerosi gioielli, fra cui anche qualche anello (perché no?)… ma non era di certo l’Anello di Fidanzamento a farla da padrone in questa sfilata di doni.
Anzi: come si legge con molta chiarezza, il regalo più pregiato e più “in vista” era un orologio a catena, che la sposa avrebbe appuntato sul suo abito da sposa.

E l’avrebbe appuntato “di lì a poco”, per la precisione: sì, perché questi regali di fidanzamento non venivano consegnati in occasione del “vuoi sposarmi?”. No: venivano consegnati molto tempo più tardi, nell’imminenza del matrimonio vero e proprio.

3. Le partecipazioni vengono inviate prima del matrimonio

No no no: proprio no!
Oggigiorno, noi moderni facciamo una gran confusione, ma le partecipazioni non erano l’invito al matrimonio, e non venivano spedite prima delle nozze.
Distinguiamo.
L’invito al matrimonio era – appunto – il biglietto con cui si invitava Tizio a prendere parte alla cerimonia nuziale. Veniva inviato a un numero di persone abbastanza ridotto (sicuramente più ridotto rispetto alla media d’oggi, per capirci), e le persone munite di invito facevano esattamente ciò che era chiesto loro: si presentavano al momento stabilito, e prendevano parte alla festa di nozze.
Le partecipazioni erano una cosa completamente diversa: venivano inviate, una decina di giorni dopo il matrimonio, alla quantità di persone più vasta possibile. Non servivano a invitare la gente al matrimonio, ma servivano a parteciparla (cioè, a metterla a parte) del fatto che che il matrimonio era stato celebrato. E basta.

Per dirla di nuovo con la Marchesa Colombi, erano né più né meno

circolari  coll’annuncio  che  il matrimonio ha avuto luogo.
Le partecipazioni dopo le nozze sono di primissima necessità, e si deve essere larghi nel distribuirle anche alle lontane conoscenze. È un riguardo che lo sposo deve a sua moglie, per non esporla  ad  incontrarsi,  essendo  al  suo  braccio,  con  qualche  compagno  di  gioventù  di  lui,  che  la prenda in fallo, o con qualche signora che esiti a salutarla. Tutte le  conoscenze  dello  sposo debbono essere informate.

Casomai qualcuno dovesse imbattersi nella sposa che, sola con un uomo, si abbandona ad atteggiamenti di confidenza intima, tutto il mondo deve sapere che la sposa non è una donnaccia. Quell’uomo è suo marito: la signora agisce così nel suo pieno e totale diritto!

In secondo luogo: le partecipazioni venivano inviate dopo il matrimonio, e non prima, anche per evitare che le nozze diventassero “un caso”… o, peggio ancora, un caso capace di suscitare curiosità morbosa.
Nessuna donna, credo, vorrebbe andare incontro alla sua prima volta sapendo che c’è mezzo mondo che sogghigna pensando “ah! Questa è la prima notte di nozze della signorina! Chissà cosa prova!”.
Per cui: inviti, a pochi intimi, prima del matrimonio; partecipazioni, all’intero globo terracqueo, qualche tempo dopo la celebrazione.

4. Perché il matrimonio venga celebrato, è indispensabile il consenso dei genitori

Questo valeva per i protestanti: Lutero era stato molto chiaro, su questo punto.
La Chiesa Cattolica, invece, era molto più permissiva: già nel 1563, con l’emanazione del Decreto Tametsi, i vescovi riuniti in concilio a Trento sdoganavano i matrimoni “clandestini”, contratti cioè senza l’approvazione delle famiglie.

Tutta quella ritualità che è presente nei matrimoni d’oggi (con la sposa accompagnata all’altare da suo padre e il padre che “consegna” la figlia nelle mani del futuro genero) si sviluppa in realtà in area anglosassone, dove questi gesti avevano effettivamente lo scopo di sottolineare “visivamente”, simbolicamente, il consenso dei genitori.
In ambito cattolico, invece, il consenso dei genitori contava poco o niente, e, di conseguenza, anche la ritualità ne risentiva: gli sposi, ad esempio, entravano in chiesa per i fatti loro.
Nei casi in cui la sposa voleva che fosse il padre ad accompagnarla all’altare (in genere, per sottolineare la continuità dinastica o cose del genere), lo sposo le veniva dietro percorrendo la navata… al braccio di sua suocera.
Che giustamente era rimasta senza accompagnatore (visto che il marito scortava la figlia) e quindi uno chaperon doveva pur rimediarlo da qualche parte!
Ma la cosa moriva lì, per l’appunto: tutti quei gesti tipo “madre dello sposo che accompagna lo sposo all’altare; padre dello sposo che accompagna la sposa all’altare” non hanno mai fatto parte della nostra tradizione.

5. “La sposa era raggiante”

Se oggigiorno la sposa si sente in dovere di sorridere a trentadue denti per tutto il giorno, sennò sembra brutto, una volta sembrava brutto che la sposa non si mostrasse in balia della più nera e agghiacciante disperazione.

Cito ancora una volta la Marchesa Colombi, perché in questo passaggio è davvero esilarante:

Una volta era, se non un obbligo, un’abitudine per la sposa, di sciogliersi in lacrime nell’andare all’altare.
Gli occhi umidi ed accesi, le labbra tumide, il naso rosso come una ciriegia, facevano parte della tenuta di rigore per una sposina ammodo. Lo sposo, se non altro per amore di simmetria, non doveva mostrarsi lieto, in faccia a tanto dolore; si atteggiava al più profondo compianto, dinanzi alla lacrimevole situazione della fanciulla. Il sacerdote, compreso della necessità di mettersi all’unisono, recitava un predicozzo straziante ai due sventurati giovani, e tutte le signore lacrimavano nelle pezzuole ricamate. Se un indiano fosse entrato in una chiesa durante la cerimonia nuziale, al vedere il pubblico, e specialmente la sposa in quello stato di desolazione, l’avrebbe creduta una suttie, da ardere sul rogo del marito estinto.
La prima sposa giovane che fu veduta maritarsi senza piangere, fu la principessa Margherita. […] Ed infatti la cronaca assi cura che quando si sposarono non si presentarono cogli occhi gonfi e col naso rosso. Fin d’allora dunque le lacrime furono messe da banda, a grande soddisfazione degli sposi, che s’accomodavano male di quelle scene in cui facevano la parte di necrofori.

La causa di tutta questa lacrimevole disperazione?
Beh, una forma di riguardo degli sposi verso i genitori: anche nei matrimoni d’amore più felici, era considerata buona norma che i colombelli andassero all’altare con pose da melodramma, come a dire a mamma e papà “oh, quanto mi spiace abbandonarvi e andar via di casa! Vi voglio bene!”.

6. La sposa vestiva di bianco per simboleggiare che era vergine

…ma veramente no, non foss’altro che per una banalissima ragione: anticamente, la purezza sessuale era simboleggiata dal colore azzurro, non dal colore bianco.
Il bianco, semmai, simboleggiava l’assenza di peccato: i neonati – loro sì – venivano condotti al fonte battesimale indossando un vestitino candido. Ma la purezza sessuale non era, e non è mai stata, simboleggiata dal colore bianco: semmai, nei quadri, veniva indicata col colore azzurro.
Il vecchio adagio inglese che invita le spose a indossare, nel giorno del loro matrimonio, something blue (assieme a something old, borrowed e new) trae le sue origini proprio da qui: se una sposa voleva andare all’altare sottolineando la sua verginità, si vestiva di blu. O di azzurro.
Certamente non di bianco.

7. L’abito da sposa è di colore bianco

Mi par di sentirvi: “ma se l’abito bianco non simboleggia la verginità, allora perché la sposa dovrebbe vestirsi di bianco?”.
Eh. Infatti.
In assenza di una valida motivazione, le spose del passato se ne son sempre infischiate del bianco, indossando abiti di tutti i colori dell’arcobaleno.
Le donne che volevano puntare su un’eleganza semplice sceglievano, in genere, un abito nero (il little black dress, evidentemente, andava già di moda). Le donne che volevano dare nell’occhio inserivano qualche accessorio rosso fiammante; le donne ricche, che potevano permettersi un guardaroba più fornito, prediligevano i colori chiari e le tinte pastello. Ma l’abito da sposa candido NON era una tradizione, fino al momento in cui la regina Vittoria non lanciò una nuova moda decidendo di andare all’altare in un inconsueto abito bianco.

Consentitemi un omaggio a Downton Abbey - uno dei miei telefilm preferiti - nel sottolineare il lavoro egregio svolto dai costumisti: ecco qui due spose, di diversa estrazione sociale, indossare abiti decisamente colorati nel giorno del loro matrimonio

Consentitemi un omaggio a Downton Abbey – uno dei miei telefilm preferiti – nel sottolineare il lavoro egregio svolto dai costumisti: ecco qui due spose, di diversa estrazione sociale, indossare abiti decisamente colorati nel giorno del loro matrimonio

Peraltro: le nuove mode – si sa – possono riscuotere consensi, ma anche critiche.
Mentre la consuetudine dell’abito bianco si imponeva rapidamente in certa aristocrazia, molti “conservatori” storcevano il naso, di fronte a quella che consideravano una moda sciocca e pacchiana. Investire in un abito di colore bianco equivaleva a buttare i soldi dalla finestra: una gonna bianca ti si rovina con un niente, è difficile da riparare, e comunque è roba da ragazzina, poco adatta ad essere riutilizzata nella vita quotidiana di una donna adulta.
Per dire: ricordo un passo di L’età dell’innocenza di Edith Warthon in cui si lancia una stoccatina alle spose di bianco vestite, accusate di aver scelto il colore chiaro solo e unicamente per far sfoggio della loro ricchezza (“toh! Io ho tanti soldi, e quindi posso permettermi di sprecarli in un vestito che non userò mai più!”).

(Piccola curiosità: in questo, la mia famiglia è evidentemente vittima di uno strano loop spazio-temporale. Ad eccezione di mia cugina, che, pochi anni fa, ha scelto di indossare il classico abito bianco, tutte le donne della mia famiglia, sia da parte di madre che di padre, sono andate all’altare con abiti colorati. Persino mia madre e le mie zie, in tempi “non sospetti”, hanno bypassato gli abiti bianchi e si sono sposate indossando abiti di altri colori, che hanno poi riutilizzato in diverse altre occasioni. I soloni di metà ‘800 sarebbero fieri di noi).

8. Durante la Messa,gli sposi si scambiavano gli anelli nuziali

Vale lo stesso discorso che valeva per il consenso genitoriale: questo era vero in altre zone del mondo ma non nei paesi a tradizione cattolica, dove l’anello nuziale non veniva scambiato per il semplice fatto che era solamente uno.

Sorpresi?E invece è proprio così: fino alla riforma liturgica del post-concilio, durante i matrimoni cattolici veniva benedetto un anello: uno solo. Citando il Rituale Romanum de Sacramento Matrimonii,

l’anello prescritto per il Rito è unico. È quello che lo sposo mette all’anulare sinistro della sposa.

Ergo, la sposa usciva dalla chiesa indossando un anello nuovo di pacca, mentre lo sposo continuava allegramente ad andare a spasso a mani nude. Un’eco di questa usanza risuona ancora nella ritualità della Chiesa Anglicana (il cui Messale, con buona pace dello scisma, deriva ovviamente da quello cattolico): ancor oggi, i maschi che vanno all’altare hanno la possibilità di scegliere se indossare o no la fede nuziale. Il principe William, ad esempio, aveva creato un po’ di maretta nei media, decidendo di rinunciare alla sua fede nuziale (che, infatti, indossa solo Kate).

Come mai questa distinzione fra sessi?
Citando ancora il rituale romano,

L’anello nuziale è, secondo Tertulliano, l’immagine della fedeltà; ma è anche il Sigillo, dice Clemente di Alessandria, che significa la dignità della sposa cristiana, regina e padrona del focolare. Ella ha il diritto di sigillare cioè di disporre di tutte le proprietà quanto suo marito. Per questa dignità la Chiesa benedice solo l’anello della sposa: annulum hunc, dice il Rituale.

Man mano che passa il tempo, diventano sempre più pressanti le richieste dei fidanzati cattolici: i mariti vorrebbero indossare anche loro un anello nuziale; perché non permetterglielo?
Su esplicita richiesta dei sacerdoti, la Chiesa Cattolica alla fine lo permette, ma a una condizione: l’anello del marito non dev’essere benedetto. La vera fede nuziale benedetta dalla Chiesa, è solo una, ed è quella della sposa; quanto allo sposo, se proprio vuole un anello en pandant,

si metta da sé l’anello non benedetto. Se questi lo dovesse porre sul piatto [predisposto per la benedizione] con quello della sposa, non per questo bisogna mettere al plurale le parole annulun hunc. Lo sposo dovrà riprendersi il suo anello solo dopo di aver messo l’altro al dito della sposa.

9. Dopo la Messa, c’è una grande festa con parenti e amici

A parte il fatto che dovremmo intenderci sul significato di “grande festa”: il pranzone di nozze nel ristorantone cool è un’invenzione dei tempi moderni.
Ma a parte quello, qui entra in gioco un discorso di tempistiche: una volta, il matrimonio non si festeggiava dopo la Messa!

Una volta, a ben vedere, non esisteva il un matrimonio solo.
Nel periodo di tempo che stiamo prendendo in esame, non esistendo (almeno in Italia) il matrimonio concordatario, ci si sposava due volte: una volta in comune, per il matrimonio civile, e una seconda volta in chiesa, per il matrimonio sacramentale.

Essendo – ovviamente – reputata più importante la celebrazione del matrimonio in chiesa, gli sposi tendevano a “liberarsi” il prima possibile dalle impellenze burocratiche. Ovverosia: andavano in municipio di prima mattina (vestiti normalmente: la sposa in abito da viaggio, lo sposo in completo da lavoro). Mettevano le firme, venivano dichiarati marito e moglie, e tornavano alla casa di lui, ove trovavano ad aspettarli tutti gli invitati al matrimonio. Seguiva ricca “colazione di nozze” (ai nostri giorni, sarebbe una specie di brunch); dopodiché la sposa si cambiava d’abito, e tutti quanti, dopo aver festeggiato assieme, andavano in chiesa per la cerimonia religiosa. (Che non necessariamente veniva inserita all’interno di una Messa – dunque, non vi stupisca l’idea di gente che va a sposarsi, a inizio secolo, senza essere a digiuno: molto banalmente, non faceva la comunione).

Qualora i due matrimonii non si svolgessero lo stesso giorno (es. matrimonio civile nel pomeriggio del giorno X; matrimonio religioso alla mattina del giorno dopo), la grande festa continuava comunque ad essere legata alla celebrazione del matrimonio civile. Dopo il matrimonio in chiesa si festeggiava, sì, ma in maniera molto discreta, e con un numero di invitati molto ridotto rispetto a quelli invitati alla festa del giorno prima.
Talmente tanta era l’importanza attribuita al matrimonio religioso che si tentava di non aggiungere ulteriori distrazioni alla sacralità di quel momento…  tantopiù che c’era sempre la possibilità di festeggiare in pompa magna in occasione dell’altro matrimonio!

10 Il viaggio di nozze è una consuetudine bella e desiderabile

Io vi dico solo questo: il viaggio di nozze, di solito, si faceva con la suocera.
Anzi, peggio ancora, con le suocere al plurale: il viaggio di nozze nasce tra le famiglie aristocratiche dell’800, a mo’ di tour post-matrimoniale volto a presentare i parenti acquisiti a tutti i membri della famiglia.
In particolar modo, a tutti quei parenti che abitavano lontano, e che (ovviamente, non essendoci ancora i Frecciarossa e Ryanair) non avevano viaggiato per chilometri e chilometri al solo scopo di assistere a una Messa nuziale.
No, era molto più comoda per tutti la soluzione inversa: dopo il matrimonio, i due colombelli sarebbero saliti sul primo treno a disposizione, per cominciare un lungo tour che li avrebbe portati in visita nelle case di tutti i loro parenti più lontani.
‘no spasso, insomma; uno spasso che diventa ancor più spassoso se calcolate che, in molti casi, gli sposi non viaggiavano da soli, ma erano accompagnati – per l’appunto – dalle loro famiglie d’origine.

Verso la fine del secolo, questa mesta usanza aveva già cambiato forma: gli sposi, talvolta, decidevano di partire per una “luna di miele”… che includeva però destinazioni turistiche, e non la casa della vecchia prozia Abelarda.
Insomma, nasceva il viaggio di nozze così come lo intendiamo oggi… sennonché questa pratica era invisa alla maggior parte della popolazione.
Gli esperti di etichetta rabbrividivano scandalizzati: come osservava nel 1907 la marchesa Plattis – Maiocchi,

Il viaggio di nozze è assurdo, inopportuno, barbaro. I più cari e tumultuosi ricordi vengono dispersi nelle volgarità degli hotels e delle pensioni!

I moralisti erano ancora più espliciti: ma è mai possibile che l’iniziazione sessuale di una povera donna debba avvenire in una stanza d’hotel, praticamente sotto gli occhi di tutti? I novelli sposi hanno bisogno di intimità, di privacy: che è, questa nuova moda di farli partire per un viaggio di nozze, in cui sarà palese a tutti – ivi compresi valletti d’albergo e incolpevoli viaggiatori – che quei due lì sono due piccioncini nei loro primi giorni d’amore? Ma che imbarazzo, ma che mancanza di contegno!
I medici, dal canto loro, si univano al coro con argomentazioni ancor più inquietanti: per una giovane sposa, che in teoria potrebbe rimanere incinta da un momento all’altro, è di fondamentale importanza poter godere di riposo e quiete. Altro che traversate oceaniche e viaggi da turista! Queste pratiche deplorevoli potrebbero nuocere gravemente alla salute della donna, e – Dio non voglia – anche a quella del bambino, che, per quanto ne sappiamo, potrebbe già essere nel suo grembo.

 ***

‘nsomma, noi ci diamo tanto da fare per organizzare un matrimonio comme il faut, da tradizione… ma i nostri trisnonni probabilmente inorridirebbero, di fronte al più classico dei matrimoni d’oggi.
Probabilmente applaudirebbero invece, e con entusiasmo, di fronte a quello che noi moderni consideriamo un matrimonio non convenzionale.
Ah: i corsi e i ricorsi (e gli scherzi adorabili) della Storia!

30 risposte a "Un matrimonio “come da tradizione”"

  1. ago86

    Carissima, io sospettavo che ci fossero delle differenze tra le celebrazioni matrimoniali “contemporanee” e quelle meno recenti, non fosse altro che a furia di leggere dei post di debunking storico in questo blog qualche dubbio mi è venuto.

    Immagino che questo post sia anche un modo per sorridere dopo la tempesta: oggi organizzare qualsiasi cosa in due settimane è una fatica immane.

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    1. Lucia

      Mah, in realtà per noi non è stata la fatica immane che dici tu, per il semplice fatto che, in buona sostanza, non abbiamo organizzato alcunché.
      Avevo tre possibili opzioni per vestirmi per quel giorno (tutte cose che avevo già nel guardaroba) e ho scelto il mio “vestito da sposa” la sera prima del matrimonio in base alle previsioni del tempo; il marito idem, si è messo lo stesso identico completo che usa spesso e volentieri per andare in ufficio.
      Niente bomboniere, niente inviti, niente fiori, niente fotografo… insomma, lo zero assoluto 😛
      L’unica cosa a cui abbiamo rivolto le nostre attenzioni è stata la liturgia, nel senso che le letture (e le parti della Messa in generale) sono state selezionate con precisione certosina, discutendoci sopra e tutto quanto. Poi ho stampato io il “libretto” della Messa, e anche quello mi ha portato via un po’ di tempo…
      …ma, ehm, direi che la nostra organizzazione pre-matrimoniale si è fermata lì. A parte quello (e a parte, ovviamente, la burocrazia), davvero, nient’altro.

      E’ stato indubbiamente un matrimonio strano, e non dico che tutti quanti debbano imitarci (!)… però è anche stato così rilassante. Niente distrazioni, niente orpelli…

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      1. ago86

        Guarda, io sono proprio a disagio durante le celebrazioni, durante le feste (qualsiasi festa). Un matrimonio come il tuo mi rilasserebbe molto, e farei volentieri come te e tuo marito. Ma ovviamente, non dipende solo da me tale scelta.

        Ciò detto, adesso è molto prematuro che io pensi al matrimonio 🙂

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      2. Lucia

        Beh, l’importante è che la scelta sia condivisa anche dalla sposa, poi tutto il resto è chiacchiere 😉

        Ma guarda: noi abbiamo avuto un matrimonio veramente pauperista hardcore, e in condizioni normali nemmeno noi avremmo osato tanto. Poi le cose sono andate così, e tant’è (e meno male, siamo contentissimi così!).
        Però, se parliamo di matrimoni “semplici”, con celebrazioni intime, pochissimi amici e parenti stretti, festicciola sobria a mo’ di merenda in oratorio, io ne ho presenti tanti, sai? Conosco tante persone che si sono sposate così: e non solo per ragioni economiche, ma proprio per scelta loro.
        E personalmente penso che sia la cosa migliore (almeno, per chi ha un carattere come il mio, quantomeno): poco stress, tanto tempo per concentrarsi solo su se stessi… 🙂

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    1. Lucia

      Beh… in generale, o stavi pensando a specifici tipi di veli, cappellini etc.?

      In generale, fino alla riforma post-conciliare del Messale, era proprio obbligatorio che tutte le donne (cattoliche) entrassero in chiesa a capo coperto. “Coperto” di che cosa, non importava (velo di pizzo, cappello, berretto di lana, fazzoletto annodato sulla fronte); però, sicuramente coperto.
      Non so di preciso come funzionasse la cosa per i protestanti (alcune Chiese protestanti richiedono ancor oggi il capo coperto, sol per quello)… comunque, l’abitudine di indossare un velo da sposa immagino derivi – molto banalmente – da lì.
      Il velo da sposa altro non è che la versione più pregiata del classico “velo da Messa” che magari si trova ancora nelle cassettiere delle nostre nonne (e che, in genere, le donne usano ancor oggi se vanno alla Messa in forma straordinaria).

      Per dire: questo era il mio velo

      ed è il tipico velo da Messa che mettevano in testa le nostre nonne quando andavano in chiesa, fino agli anni ’60 o giù di lì.

      Il velo da sposa è sostanzialmente l’evoluzione chic delle normali velette: le spose che volevano vestirsi particolarmente bene, invece di indossare il normale velo da Messa se ne facevano confezionare uno più lungo, più ricamato, coordinato al loro abito… ma sostanzialmente, sempre di velo da Messa stiamo parlando.

      E l’opzione B, “sposa col cappello”, è sostanzialmente la stessa cosa, cioè si evita (e evitava) il velo (perché magari non piaceva) ma ci si sposava con il capo coperto… da un cappellino elegante.

      Significati particolari legati ai colori del velo (o del cappello), non ne conosco. Sostanzialmente, si andava un po’ a caso. O si coordinava il velo al vestito da sposa: noi ad esempio abbiamo ancora il velo da sposa della mia bisnonna materna, che era coordinato al colore della sua borsetta. Nero.
      Di solito, scegliendo un velo (da Messa, in generale), le ragazzine e le donne giovani preferivano veli di colore chiaro, mentre nel corredo delle donne sposate entravano sempre alcuni veli di colore scuro, più adatti a una donna adulta.
      Ma a parte quello, non mi risulta ci fossero simbologie particolari.

      Curiosità: io ho una malsana passione per i veli da Messa, che ritengo un accessorio (bellissimo, ma soprattutto) carico di significati che adesso si sono persi, ma che, a mio modo di vedere, avevano un loro perché. Sapendo di questa mia passione, alcune conoscenti e amiche di famiglia mi hanno via via regalato i vecchi veli da Messa delle loro nonne e mamme, che magari erano stati conservati fino ad oggi a mo’ di cimelio, ma a un certo punto li guardi e dici “sì ok, ma cosa me ne faccio?”.
      Ecco: nel dubbio, molte hanno ritenuto che regalarli a me fosse una buona idea (…e in effetti lo è, nel senso che li uso, quando mi capita di andare a Messa in forma straordinaria), quindi ormai ne ho una discreta collezione, con veli di tutti i colori e di tutte le fogge 😀

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      1. Monica

        Risposta esaustiva 🙂 Ma quante ne sai? Sei incomparabile; davvero! Trovo godibilissimi i tuoi post attinenti l’abbigliamento. Il tuo velo, poi, è
        graziosissimo… Sarei più che curiosa di veder l’intera collezione… Un caro saluto

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      2. vogliadichiacchiere

        Se penso ai matrimoni in Tv (es William & Kate), mi pare che sia stato detto un qualcosa sul fatto che la sposa entra in chiesa col velo sul viso e poi lo sposo glielo alza . . . Ma dev’essere una simbologia che viene dalla notte dei tempi! 🙂
        Ho in una scatola sia il mio “velo da Messa”, triangolare e bianco, con dei nodini sugli angoli inferiori (si sfilacciavano in fretta e quello era un modo per non farli rompere oltre) e quello di mia madre, nero e rettangolare . . . se mi capitano sotto mano ci faccio la foto e te la mando (ma, potrei fare come dici tu, usare quello nero per certe cerimonie. Si vedono in chiesa, a volte, alcune signore col velo . . . che stia tornando di moda??? 🙂

        Ciao, Fior

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      3. Lucia

        Io tra pochi giorni dovrò andare a Roma per lavoro, e sono tentatissima di regalarmi un velo di colore scuro “da donna sposata” in uno dei tanti negozi che ci sono in zona Vaticano, io ve lo dico…
        Anche se per l’appunto son piena di veli da Messa e (ovviamente) non è che li usi (qualche volta sì, quando vado alla Messa in forma straordinaria, ma non è che ci vada sempre).

        Fior: dalle tue parti, si vedono in chiesa signore col velo?! Qui a Torino (ma anche a Pavia) assolutamente no, se una donna si mettesse il velo per andare a Messa verrebbe presa per pazza furiosa. Un mio amico mi diceva che talvolta vede anziane signore col velo da Messa andando in piccole chiesette della provincia abruzzese.
        Invece, un posto dove il velo sta assolutamente tornando di moda sono gli Stati Uniti. Ma per davvero! Leggendo tanti blog di cattoliche americane, mi rendo conto che lì la moda sta di nuovo prendendo piede. Ma anche tra gente “normale”, dico; non solo per chi va alla Messa in forma straordinaria. Così, normalmente: madri di famiglia e giovani ragazze che di punto in bianco decidono di indossare un velo da Messa (e siccome c’è già un tot. di gente che lo fa, la cosa è percepita come abbastanza normale).

        Non vorrei passare per una reazionaria, ma io capisco molto bene il senso di coprirsi il capo a Messa (…e, a dirla tutta, quando posso “mimetizzarmi” bene senza esser presa per idiota, cerco sempre di andare a Messa indossando un berretto o un cappello, d’inverno – quando appunto non rischio di esser presa per idiota). Devo dire che a me serve, e se la Moda del velo (o comunque del capo coperto!) dovesse tornare anche in Italia, io aderirei entusiasticamente.

        Nei mesi in cui ho lavorato a Roma questo inverno, ogni tanto mi capitava di vedere delle turiste straniere che prima di entrare a visitare una chiesa tiravano fuori dalla borsetta un velo/foulard/fazzoletto/pashmina/qualsiasi cosa, e se lo mettevano sul capo a coprirsi i capelli… è proprio vero che in altri Stati questa consuetudine deve ancora essere forte!

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      4. Lucia

        …e infine, per soddisfare la curiosità di Monica, ecco un collage di alcuni dei miei veli da Messa. Dico “alcuni” perché sono quelli che sono a buon diritto miei; altri sono ancora a casa di mia nonna e di mia zia (appartenuti alle mie bisnonne paterne e materne), e li lascio lì… anche perché oggettivamente non è che possa riempirmi la cassettiera!

        Scusandomi per la qualità di alcune foto che sono davvero pessime, ecco qui una piccola selezione:

        1. Velo che avevo già pubblicato qui, lungo e rettangolare, scende sulle spalle fin quasi all’altezza della vita;

        2. Velo triangolare molto simile a quello che ho usato al matrimonio (e infatti se l’è giocata fino all’ultimo con quello che ho poi ho scelto): triangolare, ha due piccole cocche che cadono “sul seno”, per capirci; più scuro, nei toni del bianco e grigio (doveva essere un velo per donne ancora giovani ma non più giovanissime… gente della mia età attorno ai 30 anni);

        3. Due foto una più brutta dell’altra per far vedere la consistenza e la trama di un velo azzurro leggerissimo, quasi impalpabile, che di per sè ha anche un bel ricamo che però non si nota nemmeno se non aumenti a 1000 il contrasto nella foto. Anche quello è rettangolare e lungo come il primo; essendo così leggero, si indossava molto bene anche arrotolandone un lembo attorno al collo e lasciando cadere morbida sul seno l’altra parte, come provo a far vedere nella prima foto.

        4. Ultimo velo da Messa utilizzato da mia mamma a fine anni ’50, inizio anni ’60, prima che la moda sparisse definitivamente. L’emoticon maschera la mia faccia perché non mi piace far vedere le mie foto a mezzo mondo 😛 , la foto invece l’ho scattata a Roma poco prima di uscire per andare a Messa in forma straordinaria, per far vedere a mia mamma che veramente stavo usando il suo velo da ragazzina!
        Per ovvie ragioni affettive è quello che preferisco, infatti l’ho usato molto e molto volentieri in occasione delle Messe in forma straordinaria a cui ho partecipato. Non sono riuscita a usarlo il giorno del matrimonio perché era di un bianco troppo diverso dal colore del vestito che alla fine ho scelto 😦

        5. Velo (spiegazzato, per adesso mai usato) che mi piace tantissimo, perché… guardate un po’ come andava indossato! Poteva anche essere portato come il velo numero 4, ma aveva due cocche assurdamente lunghe che oggettivamente stanno pure male, se lasciate ricadere morbide sul davanti. No: questo velo andava palesemente indossato così, stringendo le due cocche sotto al collo e facendole cadere lungo la schiena. E’ palese: ha addirittura un pezzo di stoffa sporgente sul davanti col chiaro intento di coprire la fronte.
        A me piace tantissimo come testimonianza storica, perché adesso tutti quanti parlano di velo islamico come se fosse una tradizione solo orientale, dimenticando però che anche qui in Occidente, fino a pochi decenni fa, nessuna donna rispettabile sarebbe mai uscita di casa a capo scoperto. Se non usavi un foulard usavi un cappello o un fazzoletto annodato sul collo, ma fuori di casa, a testa nuda, non ci uscivi. Io ho foto delle mie nonne e bisnonne che usavano il velo anche solo per farsi fotografare sulla soglia di casa!
        Certamente il capo coperto delle donne europee era una cosa diversa dal capo coperto delle donne musulmane (e non aveva fondamenti religiosi – a parte l’usanza di coprirsi il capo per entrare in chiesa), ma… guardando il mio velo numero 5, non vi sembra straordinariamente simile a un hijab? 😉

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      5. Monica

        Molto belli! (n.1 e n.3) Se nn temessi di passare x un’originale probabilmente li utilizzerei. Nella mia comunità parrocchiale e in quelle limitrofe nn ho mai veduto
        alcuna abbigliarsene. Salvo qualche badante moldava; rarissimamente, peraltro.
        Comunque, nn erano certo graziosi quanto i tuoi! Temo che il vento conciliare abbia spazzato via anche questi tradizionali copricapi. Mi piacciono mooolto i vestiti delle donne amish. Molto istruttiva la risposta a Raffaele.

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  2. alegenoa

    La 5 mi lascia parecchio perplesso, anche se nel mio caso al pianto ci ha pensato mio suocero…
    Me ne sa di una di quelle cose che un po’ si dicevano per affettazione, per affermare una convenzione sempre stata dubbia… ma poi di fatto l’idea di fare la faccia afflitta e piangente si esplicava magari semplicemente nella commozione del momento… che lasciasse poi il posto a sorrisi… dai…
    La 9: ora, capisco benissimo le minori possibilità di festeggiare. Ma sposarsi senza celebrare una messa, se non costretti, mi sembra una cosa eccessiva.

    Per il resto mi ha colto un po’ di sorpresa il discorso dell’anello dello sposo, anche se dovevo immaginarlo, pur non avendoci mai soffermato il pensiero.

    E’ poi vero che nel viaggio di nozze incontri molti estranei che ti guardano come “nuova coppietta”, ma a me sembrerebbe peggio “esordire” (wink wink) con parenti e amici tutt’attorno… specialmente in passato, quando si viveva molto più a stretto contatto, e spesso sotto lo stesso tetto vivevano molte più persone.
    Lo so che ci godi a prendertela coi viaggi 😛 ma io ti dico: siamo andati dall’altra parte del mondo e non solo se tornassi indietro lo rifarei, ma se potessi farei un viaggio anche più lungo e complicato!
    In fondo un po’ in tutti i campi viviamo di “tradizioni seminuove”, non per questo meno meritevoli di essere difese come tradizioni: la pasta, per dire, non era certo il piatto tipico della cucina italiana; e quante altre differenze nel mangiare! Pure il pesto come lo conosciamo è di fine 800; del resto la pizza margherita?

    Invece ti faccio notare un aspetto “tecnico” sul passaggio dove parli di indossare something blue: “si vestiva di blu. O di azzurro.”… In realtà azzurro in inglese si traduce blue: non c’è bisogno di adattamenti, il colore è quello. Per il blu in inglese si direbbe normalmente dark blue.

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    1. Lucia

      No, beh, ma lo scopo di questo post non era mica quello di dire “queste cose non vanno fatte perché non sono realmente tradizione”… ci mancherebbe, eh 😀
      Era proprio solo un post a livello di pura curiosità, come dire “lo sapete che la pasta in realtà non è tradizionale?”
      Ma nelle mie intenzioni la cosa finiva lì, eh! 😉

      Questione spose in lacrime durante il matrimonio: è un’usanza che (ovviamente) stupisce anche me… ma solo fino a un certo punto. C’è anche da valutare che, nell’epoca di cui sto parlando, molti matrimoni erano d’interesse, e non di amore (sopratutto fra le classi elevate, che dettavano moda e/o a cui comunque erano destinati i galatei). Io posso sicuramente immaginare che ci fossero ragazzine che arrivavano all’altare con le lacrime agli occhi, spaventate al pensiero di dover abbandonare la loro famiglia per seguire (magari anche a molti chilometri di distanza) uno sposo che, nella migliore delle ipotesi, conoscevano molto poco e per cui non provavano un vero affetto.
      Una scena del genere, applicata ai nosti matrimoni d’oggi, sarebbe assurda, ma posso sicuramente immaginare che molte ragazze andassero all’altare con le lacrime agli occhi per davvero.
      E posso anche immaginare che, a partire da qualche caso celebre di posa lacrimosa, la moda si fosse diffusa, a mo’ di affettata sottolineatura dell’affetto filiale della sposina.
      Poi, sai… se comincia a diventare di moda il fatto di andare all’altare con aria da funerale, ti adegui pure tu anche se invece sei contenta. Si usa così e lo fan tutti, è di moda…

      Questione matrimonio religioso senza Messa: a me sembra una cosa che non sta in cielo né in terra, ma ti posso assicurare che una volta era la norma.
      E ti dirò di più: pure i miei genitori, nel 1972, in diocesi di Torino, si sono sposati con il solo rito del matrimonio (!). E si sono sposati con il solo rito del matrimonio, non perché fossero cattolici tiepidi o chissà cosa, ma perché era stato il prete stesso a incoraggiarli in tal senso (!!): “vi sposate solo con il rito del matrimonio, non volete anche la Messa, veeeeero?“. E siccome, all’epoca, moltissimi loro amici si erano sposati nella stessa maniera, i miei genitori hanno felicemente acconsentito senza manco trovarlo strano.
      A me sembra allucinante ma tant’è: e sto parlando dei miei genitori (non di gente che non entrava in chiesa dai tempi della Cresima) nel 1972 a Torino (non in terre di missione in epoca lontana)!
      E comunque, prima del Concilio, questa cosa era ancor più evidente. Si poteva dire una Messa in occasione del matrimonio, ma era una cosa assolutamente opzionale. E in alcuni periodi dell’anno non si poteva proprio: divertita dalle bizzarre circostanze che mi hanno “costretta” a sposarmi in Quaresima, ero andata a curiosare su quale fosse il trattamento per i matrimoni quaresimali prima del Concilio. A parte il fatto che erano fortissimamente sconsigliati, era imperativo celebrarli “senza solennità”, il che voleva dire (fra le altre cose) “senza la Messa”, per quanto ne so io.
      Lo so che sembra assurdo, ma tant’è :-O :-O

      Questione viaggio di nozze: beh, in realtà l’alternativa al viaggio di nozze era “gli sposini si ritirino nella casa di villeggiatura, con la minima quantità possibile di servitù, e lì imparino a conoscersi nella privacy del luogo”.
      Ché tanto, a inizio ‘900, quelli che potevano permettersi un viaggio di nozze ce l’avevano, la casa di villeggiatura: quindi, l’alternativa era quella, appunto. Quelli che potevano permetterselo, un po’ di privacy post-matrimoniale se la concedevano; solo, in casa propria.
      …e su questo onestamente mi sento di concordare con i soloni di inizio secolo, casomai dovesse interessare a qualcuno. La Marchesa Colombi (che invece era favorevole ai viaggi di nozze) diceva che questi viaggi erano criticati perché si riteneva che inducessero gli sposi a “disperdere i loro più bei ricordi” in una fredda e impersonale camera d’albergo.
      “Disperdere i più bei ricordi” è un’espressione che mi piace tantissimo e che sintentizza bene quello che intendo anch’io: personalmente, sono contenta che i ricordi dei miei primi giorni da sposa siano legati all’intimità della mia casa. Per i miei gusti, scegliere proprio quel periodo per andare a salterellare da un hotel all’altro, sempre sul treno e sempre in giro a far la turista… meh.
      Personalmente, non mi sarebbe piaciuto (ma ovviamente, lì è questione di gusti :-P).
      Delle critiche al viaggio di nozze posso anche capire il fattore privacy. Una mia amica si è sposata qualche anno fa, e il tour operator che le ha organizzato il viaggio di nozze aveva evidentemente preso accordi con i vari alberghi, perché tutte le volte che la coppietta entrava in una stanza si trovava col letto cosparso di petali di rose, con lo champagne messo in fresco, con gli asciugamani piegati a forma di cigni innamorati, con la vasca idromassaggio formato matrimoniale…
      Lei era stata contenta; io, nel sentirmelo raccontare, pensavo che al posto suo sarei morta di vergogna… qui è anche una questione di riservatezza mia, ma ciò non toglie che, al posto suo, sarei morta di vergogna :-DD

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  3. Diego

    Ciao, innanzitutto congratulazioni per il matrimonio!
    Arrivo adesso perchè ho recuperato tutti i post vecchi che non avevo letto!!!!
    partecipo della tua gioia e di quella di Claudio portando l’esperienza dei miei genitori: nel lontano 64 si sono sposati in pieno inverno, il 4 gennaio, rigorosamente la sposa in azzurro e senza viaggi di sorta (anche per mancanza economica).
    per la celebrazione delle nozze senza quella eucaristica, penso proprio che dipendesse dagli orari: il digiuno eucaristico durava dalla mezzanotte, ed era consuetudine la domenica, andare alla “messa prima” con gli abiti da lavoro (per i contadini), per fare la comunione. Dopo le incombenze del caso si tornava alla “messa grande” con il “vestito della festa” ma senza più fare la comunione, perchè si era già fatta, e perchè nel frattempo si era fatta anche colazione, mica si poteva digiunare ancora molto…
    credo che per i matrimoni fosse la stessa cosa, se non ci si sposava all’alba, l’unica altrenativa era “fuori della messa”…
    ancora tanti auguri di vero cuore
    Diego

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    1. Lucia

      Grazie mille, Diego! :-)))

      Sulla questione “matrimonio senza Messa”… mah, guarda: ho di nuovo interpellato mia mamma su questo aspetto. Sicuramente una volta valeva quello che dicevi tu… anche se bisogna tenere in conto anche un’altra cosa, ovverosia che non necessariamente la gente si sentiva in dovere di far la comunione tutte le domeniche, una volta. Mia nonna ad esempio andava a Messa tutte le settimane ma faceva la comunione solo un tot. di volte all’anno, ma non per la questione del digiuno: proprio perché ell’epoca non era considerato di importanza così vitale, fare materialmente la comunione ogni volta.

      Ma a parte quello. Prima della riforma liturgica, sicuramente era da tenere in conto anche l’aspetto logistico legato al digiuno prima della comunione, eccetera eccetera. Ma in realtà secondo me era anche proprio una questione di banali consuetudini.
      Ad esempio mia mamma mi dice che lei, nel ’72 (quindi, dopo un bel po’ di tempo dalla riforma) si era sposata con il solo rito del matrimonio perché… boh… si usava così. Chi voleva fare un matrimonio semplice, intimo, senza darsi troppe arie, si limitava alla celebrazione del sacramento perché questo sveltiva tutte le procedure e “alleggeriva” la giornata.
      C’era anche gente che sceglieva il matrimonio all’interno della Messa, per carità, ma (a detta di mia mamma) era gente che ci teneva già di più a un matrimonio solenne, col pranzone al ristorante, il vestito con lo strascico, l’atmosfera principesca, e bla bla bla.
      In sostanza, mia mamma dice di aver scelto la celebrazione del solo sacramento, al posto della Messa, per la stessa ragione per cui ha scelto un buffet pomeridiano al posto del pranzo al ristorante: per rendere meno pesante la giornata, e far prima.

      A me sembra una roba allucinante, ma tant’è.

      Ora: mia mamma non è una pazza furiosa (ed è sempre stata cattolica praticante), quindi se ha scelto così, adducendo queste motivazioni, immagino che il suo modo di ragionare fosse condiviso da almeno una parte della popolazione italiana, a inizio anni ’70.
      Oggigiorno, credo e spero che nessun cattolico “serio” si sognerebbe più di tagliare la Messa “per far prima” (!!!!!), ma se i miei genitori l’hanno fatto ancora nel 1972…

      Di sicuro c’entrava la questione del digiuno, ma credo che poi sia diventata una consuetudine come tante altre… 😐

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  4. vogliadichiacchiere

    I miei si sono sposati nel 1956, il 1° maggio e in una chiesa che NON era parrocchiale, in quanto ( a Bergamo e in quel periodo) il Vescovo aveva proibito i matrimoni di domenica perché distraevano l’assemblea dalla messa domenicale. Molti dei parenti erano liberi solo di domenica.

    In epoca attuale, invece, molti parenti “agée” si sono meravigliati che il Figlio e la Nuora si siano sposati il 6 dicembre, in Avvento . . . comunque è stata una cerimonia alla grande, con 3 sacerdoti (e solo perché un altro paio di parroci e il Vescovo emerito han dato forfait all’ultimo), il coro diretto dalla mamma della sposa, la mamma dello sposo che piangeva a dirotto (di commozione, neh! E perché pensava alle nonne degli sposi che li guardavano dal Cielo!) e, sia dentro che fuori dalla chiesa addobbi a non finire . . . 🙂

    Ciao, Fior (che ha gradito molto questo post)

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    1. Lucia

      La data del 6 dicembre aveva colpito molto anche me, quando l’avevo letta sul tuo blog (e in tempi non sospetti, nel senso che all’epoca pensavo di avere ancora una decina di mesi davanti a me, prima del matrimonio). Mi aveva colpita, un po’ perché la trovo molto bella (San Nicola eccetera eccetera; è un giorno bellissimo, per me), e un po’ perché in effetti… in Avvento!
      Sia chiaro che parla quella che si è sposata in mezzo alla Quaresima, quindi io ho fatto di peggio ancora :-DD, però in effetti Quaresima e Avvento non sarebbero i periodi migliori in assoluto, per sposarsi. I documenti ufficiali dicono testualmente “Nella scelta della data di matrimonio è opportuno rispettare lo spirito dei tempi liturgici. Se per giusta causa il matrimonio viene celebrato in Avvento o in Quaresima si tenga conto delle caratteristiche proprie di questi periodi“.

      Nel nostro caso ad esempio l’altare era completamente spoglio (niente fiori sull’altare in Quaresima, come prescritto) e i candelabri d’altare erano (quelli che vengono solitamente usati in Quaresima nella mia parrocchia, ovverosia) neri, “a lutto”.
      Noi abbiamo scelto di non aver proprio l’organista (non solo per una questione di rispetto dell’atmosfera penitenziale, ma anche per il poco preavviso con cui avremmo dovuto mobilitare il pover’uomo, in realtà), ma anche riguardo alla musica dovrebbero esserci attenzioni particolari. In Quaresima l’organo può essere suonato in chiesa solo per sostenere il canto, quindi ad esempio la marcia nuziale sarebbe tassativamente proibita (a parte che alcune diocesi la vietano già per i fatti loro perché, tecnicamente, non è musica sacra).

      Non so di preciso come funzionino le cose per i matrimoni in tempo d’Avvento, perché io mi sono informata solo per quanto riguardava la Quaresima, ma in Quaresima in effetti ci sono alcune cose che sono proprio off limits.
      Anzi, alcune diocesi proibiscono proprio i matrimoni in Quaresima: quando Claudio annunciava la data del matrimonio ai suoi amici, alcuni (anche sacerdoti!) sgranavano gli occhi e dicevano “in Quaresima?? Ma davvero?? Ma la diocesi lo permette??”.
      Va beh che la nostra era una circostanza particolarissima 😉 , ma alcune diocesi (fra cui mi sembra di capire ci sia anche la diocesi di Milano) vietano proprio i matrimoni nei periodi di penitenza (salvo appunto circostanze particolarissime e casi pietosi).

      Sui matrimoni durante la Messa domenicale: nella mia parrocchia di Torino lo fanno spesso e volentieri nel caso di collaboratori parrocchiali che sono molto ben addentro alla vita di parrocchia (per cui, ha senso festeggiare con tutta la comunità).
      Devo dire che ne capisco il senso, come, per contro, capisco anche il senso di chi (come il mio parroco di Pavia) dice “assolutamente no”: in effetti un matrimonio offre tante distrazioni ai poveri derelitti che entrano in chiesa solo con l’intento di assistere a una Messa “normale” (e poi allunga la Messa in maniera significativa, anche quella cosa da tenere in conto pensando al fedele che magari ha i minuti contati, e ha calcolato di stare in chiesa non più dei canonici 45/50 minuti…).

      :-))

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  5. Raffaele

    Molto interessante! Essendo organista liturgico e avendo suonato più volte in occasione di matrimoni, volevo chiederti se sai qualcosa riguardo ai canti per la liturgia nuziale.

    Come organista mi sento molto spesso richiedere dagli sposi (a volte anche dalle coppie di spose “praticanti”, che dovrebbero essere quindi un minimo più avvezze con lo… spirito della liturgia) di suonare all’ingresso o all’uscita delal sposa una dele “marce nuziali” (per intenderci, quella di Wagner e quella di Mendelssohn, o ancora l'”Ave Maria” di Gonoud) che alcuni ritengono un elemento quasi d’obbligo per un matrimonio “secondo la tradizione”, ma che OVVIAMENTE non fanno parte della liturgia cattolica né, come dici tu, della tradizione dei nostri nonni. Tu sai per caso quando, e per quale strana ragione, questi canti sono entrati nell’uso e nell’immaginario?

    Che poi, viceversa, non mi sono mai imbattuto nei repertori veramente “tradizionali” di canti per la liturgia matrimoniale (ad esempio, gregoriani). Possibile che non ce ne siano?

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    1. Lucia

      Ciao Raffaele!
      Arrivo in estremo ritardo… e, in realtà, senza un granché da dire 😀 , perché di queste cose in effetti ne so pochissimo. Non me ne intendo di musica (e di Storia di), e anche cercando online non ho trovato un granché sul tema. C’è un mio caro amico, organista a sua volta e appassionato di Storia della Musica, che potrebbe saperne qualcosa di più… ma non lo sento da un po’: prossima volta che lo vedo, gli chiedo! In effetti adesso è venuta la curiosità anche a me!

      Ora come ora, non ho la più pallida idea di come e quando queste musiche siano entrate nell’immaginario collettivo di un matrimonio all’italiana, ma mi viene da pensare che possano essere diventate di moda nello stesso momento in cui è diventato di moda il matrimonio col corteo nuziale in stile inglese (paggetti – sposa accompagnata dal padre – damigelle – sposo accompagnato dalla madre – etc.).
      Insomma, mi vien da pensare che la marcia nuziale sia diventata di moda quando il matrimonio ha cominciato ad “anglicizzarsi” anche per altri aspetti. A occhio e croce siamo attorno agli anni ’50 o giù di lì.
      Ma sono solo supposizioni mie; in effetti non ho mai letto niente in proposito, e, anche a cercarlo per bene, non sono riuscita a trovare niente! L’unica cosa che ho scoperto, è che la marcia di Mendelsshon è diventata popolare nel momento in cui la figlia della regina Vittoria l’ha fatta suonare come marcia nuziale in occasione del suo matrimonio col re di Prussia, ma da lì a spiegare la popolarità che la marcia ha adesso qui in Italia…

      ***

      In compenso, per chi passasse di qua e, senza sapere niente delle problematiche relative all’uso della “marcia nuziale” in chiesa, allego una breve spiegazione, copia-incollata da Internet, sul perché è il percome queste musiche non siano ben viste nel contesto di una Messa nuziale:

      Più volte, lungo i secoli, la Chiesa è dovuta intervenire per frenare certe intemperanze che portavano all’interno della liturgia degli elementi estranei ad essa. Più in particolare, in questo scorcio di secolo diversi documenti, soprattutto a livello diocesano, hanno cercato di mettere al bando musiche nate non in un contesto liturgico, né in quello strettamente religioso, ma direttamente mutuate dal repertorio operistico o profano in genere. Tali sono ad esempio, le marce nuziali di Wagner e di Mendelsshon, le Ave Maria di Schubert e di Gounod ecc. Uno degli ultimi documenti, in ordine di tempo, che affronta l’argomento è della Diocesi di Vicenza, datato 8 Gennaio 1991 e firmato dal Vescovo di quella Diocesi. In esso si afferma che “Il testo dell’Ave Maria di Schubert fu scritto da Scott e narra la storia di due fuggiaschi da casa che, contrastati nel loro amore, vanno a mettere tenda sulle rive di un lago; prima di iniziare la loro vita… nuziale, invocano la Madonna! Gounod poi non intese musicare l’Ave Maria, bensì rielaborare, sovrapponendo una melodia per violino, un preludio del Clavicembalo ben temperato di Bach. Il Largo di Haendel è un’aria dell’opera Serse, cantata dal re persiano Gerre che rievoca gli amori giovanili. La Marcia nuziale di Mendelsshon rievoca le nozze di Teseo con l’Amazzone nel dramma ‘Sogno di una notte di mezza estate’. La Marcia nuziale di Wagner è l’ingresso al talamo di Elsa e Lohengrin” Penso non ci sia bisogno di ulteriori commenti!.

      Ho lasciato anche il “penso non ci sia bisogno di ulteriori commenti!” perché, visto il contesto, mi ha fatta morir dal ridere 😀

      In effetti, a una mia amica che si sposava in diocesi di Sondrio, a suo tempo avevano proprio impedito di far suonare la marcia nuziale, perché non liturgica (e la sposa era entrata al suono del canto di ingresso). In altre diocesi, so che la marcia nuziale “pagana” 😛 viene accettata nella misura in cui si sottolinea con chiarezza che la liturgia non è ancora iniziata: ovverosia col sacerdote che non è ancora sull’altare.
      Boh?
      A me, mettendomi nei panni della sposa, sembrerebbe di una tristezza infinita dover marciare verso un altare vuoto (??) per il solo gusto di far suonare la marcia alla moda, però, per carità… se uno si è affezionato all’idea e ci tiene… :-\

      Per curiosità: nella tua parrocchia/diocesi come è gestita la questione? “No” assoluto, “sì” ma sotto condizione (es. con l’altare ancora vuoto), “sì” indiscriminato…?

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      1. Raffaele

        Questo è il suggerimento che dà l’ufficio per la liturgia della mia diocesi: “Musiche religiose, le cui melodie non furono composte per la celebrazione liturgica, solitamente affidate all’esecuzione di cantori solisti (come le ben note Ave Maria, ecc.), se sono desiderate, siano collocate al di fuori del rito liturgico: per esempio al termine, in un momento di sosta o durante la compilazione degli Atti.”. Concretamente, nella mia parrocchia mi è capitato di suonarlo qualche volta di accompagnare la sposa all’ingresso con la famigerata marcia: ma, devo ammetterlo, è stata anche colpa mia, nel senso che ancora inesperto e un po’… ignaro delle norme liturgiche a riguardo, avevo candidamente accettato la richiesta degli sposi (senza che il parroco tra l’altro avesse avuto alcunché da ridire: ma non è proprio.. ehm.. un fine liturgista). Oggi non lo farei più, e infatti in tempi più recenti ho semplicemete suggerito di spostarla in fondo, a chi proprio proprio la desiderava, mentre come “marcia d’ingresso” (nel caso di matrimoni con poca partecipazione di assembea e coro) ho proposto alcuni preludi tratti dal repertorio più strettamente liturgico (ad esempio, ricordo ad un matrimonio di aver usato “I cieli narrano” di Frisina, in versione solo organistica, come marcia nuziale. Che poi, il Salmo 18 da cui sono tratte le parole del canto parla anche dello “Sposo che esce dalla stanza nuziale”…)

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  6. ba

    sul n.6 come la mettiamo con ”eccomi incontro una vergine adorna come se uscisse dalla camera nuziale, tutta in bianco e con calzari bianchi, coperta sino alla fronte ed aveva come berretto una mitra. Aveva i capelli bianchi*. ” vabbe’ che non dice dal matrimonio ma dalla camera nuziale (?) ma sempre sposa è…
    *forse dallo spavento

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  9. claudia

    Lo leggo solo ora….è bellissimo. In effetti mia madre mi raccontava che negli anni ’50-60 ci si sposava anche in tailleur in modo da riutilizzare il vestito. Mia nonna si sposò con un bellissimo vestito grigio perla (all’epoca considerato il massimo dell’eleganza). Mio zio non attese in chiesa la moglie ma andò a prenderla a casa portandole un dono (una spilla) come da tradizione in Ciociaria e poi andarono insieme in chiesa. L’usanza forse più curiosa che ho visto è quella in cui (in Sardegna) si “ruba” lo sposo. La mattina delle nozze tutti i parenti/amici maschi della sposa vanno a casa dello sposo e lo “prelevano a forza” portandolo a casa della sposa da dove sarebbe partito il corteo nuziale.

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