Moda etica e Fashion Revolution – perché non basta che una gonna sia al ginocchio per farmela dire pienamente “cristiana”

Non so che cosa mi aspettassi esattamente. Non sono mai stata così ingenua da pensare che i miei vestiti low-cost a 10 euro il pezzo fossero confezionati da operose sartine indiane appena diplomate alla scuola di modisteria, orgogliose e liete di poter finalmente mettere i loro talenti a disposizione della fashion industry internazionale.
Che dietro al mondo della moda ci fossero sfruttamento, e lavoro minorile, e retribuzioni salariali al limite della povertà, lo sapevo da tempo come lo sanno tutti: grazie tante.
Quindi in effetti non saprei ben spiegare perché io abbia ricevuto un tale pugno nello stomaco dalla visione di The True Cost, un bel documentario di Andrew Morgan che indaga il “vero costo” (umano, morale, sanitario…) di quei vestitini tanto bellini che affollano i nostri armadi.

true-cost locandinaMi sono imbattuta in The True Cost qualche tempo fa, e in realtà so benissimo perché la sua visione mi abbia colpita così tanto. Era il periodo in cui stavo progettando il “nuovo corso” del mio blog, e, tra le idee che mi ronzavano per la testa, c’era anche quella di dedicare un po’ più di spazio al tema della “modest fashion”. Ma (ammesso e non concesso che si possa parlare di “regole di abbigliamento per cattolici”), la visione di The True Cost mi ha posto una domanda molto prepotente: ma la “cristianità” di un guardaroba si misura solo in centimetri di pelle scoperta, o magari bisognerebbe anche tenere in conto i bambini sottopagati che muoiono di cancro per confezionarmi la gonna?
È stato un salutare pugno nello stomaco. Ed è stata la ragione per cui, da quel giorno, ho cominciato a interessarmi alla “moda etica”.

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I vestiti nuovi del consumatoreNon sono un’esperta di industria tessile, né tantomeno di finanza internazionale. I miei bignamini per addentrarmi in questo mondo misterioso sono stati il summenzionato documentario The True Cost (che trovate comodamente in catalogo se siete abbonati a Netflix) e il libretto I vestiti nuovi del Consumatore. Guida ai vestiti solidali, biologici, recuperati: per conciliare estetica ed etica nel proprio guardaroba (Deborah Lucchetti, edizioni Altreconomia).
È ovvio che, non essendo in grado di dare un apporto personale a queste indagini, mi limiterò a un pedestre “relata refero”… riferendo però alcuni dati oggettivi, che, non so a voi, ma a me hanno fatto riflettere.

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Tutto comincia, a quanto pare, il 1° gennaio 2005.
In quella data, decade la validità del cosiddetto “Accordo Multifibre”, che, a partire dal 1974, regolava gli scambi del tessile secondo un sistema di quote assegnate a ciascun Paese. L’effetto più evidente di questa regolamentazione era imporre restrizioni alla quantità di prodotti che i Paesi in via di sviluppo potevano esportare verso l’Occidente.
Ora, io non so se questo Accordo Multifibre fosse un bene o male per l’economia. L’ho già detto: di ‘ste cose non ci capisco niente; se i big del mondo hanno deciso di abolirlo, probabilmente avevano pure le loro ragioni. Fatto sta che, nel 1994, un General Agreement on Tariffs and Trade decide per l’appunto di eliminare tutte le restrizioni preesistenti, portando, nell’arco di dieci anni, a una completa liberalizzazione del settore (e a un’invasione di magliette Made in China).

È una felice coincidenza e nulla più, ma nel 2005 io ero al liceo, avevo da poco stretto amicizia con un paio di compagne di classe, e nei dintorni della nostra scuola stavano aprendo quei grandi store di moda low-cost che prima non c’erano dalle nostre parti (…o, se c’erano, io, bambina, non li conoscevo).
Ricordo quei primi giri di shopping come una esperienza nuova ed elettrizzante: comprare vestiti con le mie amiche, e non con mia mamma, mi faceva sentire improvvisamente molto “adulta”. Inoltre, era piuttosto galvanizzante scoprire di avere un potere di acquisto molto più alto rispetto al solito: facendo il confronto coi prezzi dei negozi di quartiere, in cui avevo sempre fatto shopping fino a quel momento, Zara la vinceva su tutta la linea.

Le “prime volte” dell’adolescenza sembrano sempre sconvolgimenti epocali… ma, col senno di poi, questo lo era davvero.
Nel preciso momento in cui cadono le limitazioni preesistenti, il mondo della moda – giustamente – si adegua alle nuove normative. La legislazione appena entrata in vigore permette ai grandi brand di tagliare i costi, cosicché si sviluppa vertiginosamente il mondo della moda low-cost: quello dei vestitini che costano poco, non durano molto, ma intanto ti permettono di avere un guardaroba che lèvate.
Contestualmente, si sviluppa anche il mondo della fast fashion, cioè la moda dell’ultimo minuto che ti permette di seguire i trend del momento. Se, fino a qualche anno fa, tutti i grandi marchi della moda avevano una collezione “primavera estate”, una “autunno inverno”, e mai si sarebbero sognati di svilupparne altre cinquanta intermedie, adesso il trend è completamente cambiato. Se Kate Middleton ci incanta un martedì mattina con un look fuori dal comune, potete star certi che – tempo due o tre settimane – le vetrine delle grandi catene pulluleranno di vestiti che si ispirano apertamente all’Abito del Momento. È la sirena della fast fashion, che, da un lato, incanta il consumatore permettendogli di avere esattamente ciò che vuole quando lo vuole; dall’altro, lo incatena spingendolo a fare shopping regolarmente (“ma questo vestito bellissimo che c’è in vetrina, non ce lo avevano la settimana scorsa!”) e a comprare istantaneamente tutto ciò che gli piace (“fantastica, ‘sta maglietta! La compro immediatamente, perché settimana prossima non la trovo più!”).

Ora.
Effettivamente, dovrebbe essere piuttosto evidente a tutti che se il brand X, nell’arco di due settimane, riesce a ideare, disegnare, commissionare, tagliare, confezionare, importare e mettere in esposizione su un manichino un vestitino proprio come lo vuoi tu (perdipiù venduto a prezzo stracciato, e neanche poi tanto malaccio quanto a qualità)… beh: o il brand X lavora nel Paese del Bengodi, o sta succedendo qualcosa di poco chiaro.

Il “qualcosa di poco chiaro” è in realtà di una semplicità lampante, se solo ci si pensa sopra. Nel momento esatto in cui sono caduti i limiti alle quote di import-export tra Stati, i grandi marchi della moda hanno delocalizzato tutto il delocalizzabile. Come spiega Deborah Lucchetti,

tutte le funzioni ad alto valore aggiunto come ideazione, ricerca & sviluppo, marketing e distribuzione sono [rimaste] nelle mani dei grandi gruppi internazionali, mentre le funzioni ad alta intensità di manodopera e basso valore aggiunto sono esternalizzate a fornitori e sub-fornitori, che possono offrire eserciti flessibili di lavoratori a basso prezzo insieme a facilitazioni fiscali e ambientali.

E infatti, Paesi come

Cina, Macedonia e India […] hanno aumentato le loro esportazioni verso USA e Europa rispettivamente del 73%, del 56% e del 45%

Per contro, “nella parte fortunata del mondo” succede qualcosa che mi urta ancor più di queste statistiche, perché mi tocca direttamente. E cioè: l’industria della moda ha un fatturato che cresce di anno in anno… e, di anno in anno, abbassa esponenzialmente i prezzi.
Sempre Deborah Lucchetti porta come esempio un paio di jeans modello base della catena inglese ASDA, che nel 1999 era venduto a 23 euro. Tre anni dopo, con l’acquisizione di ASDA da parte di Wal-Mart, lo stesso jeans (stesso taglio, stesso modello) costava 9 euro; nel 2010, il prezzo di cartellino era sceso a 4.

I grandi gruppi della distribuzione hanno acquisito un forte controllo sulle catene di fornitura, sulla formazione dei prezzi e sulla localizzazione dei siti produttivi, […] spingendo i prezzi dei prodotti sempre più in basso per attirare masse crescenti di consumatori.  […] Il consumatore deve trovare il prodotto che cerca al minor prezzo possibile, e quindi tutta la catena di fornitura deve essere tesa a garantirlo

Il che, per il consumatore, è bellissimo e seducente e molto vantaggioso. Ma di nuovo: cosa c’è dietro?
Come faceva osservare in The True Cost un imprenditore bengalese, a capo di una delle tante società che confezionano vestiti per conto terzi, non puoi avere contemporaneamente prodotti di qualità, pronti in tempo record, economici al massimo grado, e confezionati da lavoratori felici e ben remunerati. “Su qualcosa devi tagliare”, osservava l’imprenditore, “e spesso si taglia sugli stipendi e sulla sicurezza dei lavoratori”.

Esattamente quattro anni fa, a Dacca, in Bangladesh, collassava su se stesso un edificio ad otto piani in cui operavano una banca, alcuni negozi, e una fabbrica tessile che confezionava capi di abbigliamento per conto di marchi come Mango, Benetton e Primark (per citare solo i più famosi).
Nei giorni immediatamente precedenti al crollo, erano apparse sullo stabile delle evidenti ed inquietanti crepe, sicché le autorità bengalesi avevano ordinato lo sgombero immediato dell’edificio. La banca e i negozi locali obbedirono immediatamente, ma i lavoratori tessili furono costretti a rimanere sul posto: i manager non volevano assolutamente bloccare il lavoro, col rischio di perdere commesse e scontentare i big della moda.
La conclusione della storia è tragicamente prevedibile: l’edificio crolla su se stesso provocando 1138 morti e oltre 2500 feriti gravi.

Per parare al disastro di immagine che stava per abbattersi su di loro, i marchi come Mango & compagnia bella hanno sostenuto di non avere colpa alcuna nella tragedia: in fin dei conti, loro avevano solo esternalizzato a terzi la produzione; i veri colpevoli sono i manager della fabbrica tessile che aveva sede nel palazzo.
Indubbiamente c’è del vero in questa affermazione, così come c’è del vero nelle repliche di chi dice: ok, ma se tu imprenditore esternalizzi parte dei processi produttivi, non sarebbe quantomeno carino assicurarsi che la gente che lavora sul tuo prodotto non sia relegata in condizioni di semi-schiavitù?

***

Quando ho aperto il mio guardaroba per la prima volta dopo queste riflessioni, ho fatto scorrere il mio sguardo sulle decine di vestiti appesi in fila indiana sulle grucce. E poi mi sono chiesta: ma perché?
No, sul serio: perché?
Perché
, sapendo tutto quello che sta dietro alle mie magliette a 5 euro l’una, continuo insistentemente a comprarle lasciandomi attirare dal prezzo basso, dal modello carino, dalla stampa oh-così-graziosa proprio come piace a me?

Famo a capisse: non è che io abbia bisogno di dieci T-shirt diverse. I nostri nonni avevano molti meno vestiti di noi e se la cavavano benissimo (e dovevano pure fare il bucato a mano). Se noi accumuliamo abiti su abiti, è perché ci piace sfoggiare look diversi invece di andare in giro sempre vestiti uguali: una piccola vanità che, nelle giuste dosi, può anche essere una innocua vezzosità… ma che diventa un po’ più allarmante se comincia a prevalere su tutto il resto.

Con che faccia – mi sono chiesta – io continuo a portare in cassa quella magliettina tanto carina in offerta speciale, di cui in fin dei conti non ho nemmeno bisogno, sapendo che sto alimentando un’industria neanche poi tanto dissimile da quella che si basava sul lavoro degli schiavi negri nelle piantagioni di cotone?
Con che faccia posso nascondermi dietro a un “va beh, ma io che c’entro?”, quando non posso nemmeno illudermi di star scendendo a patti con un male minore? Non è che non ho altra scelta, oh: l’altra scelta sarebbe non comprare quella maglietta, che in fin dei conti non mi serve, e ha come unica funzione quella di appagare il mio senso estetico. Voglio dire: non è che se non la compro mi prendo una polmonite perché non ho nient’altro al mondo con cui proteggermi dal freddo.

E.. no. Personalmente, non credo di essere pronta a lasciar correre su questi temi solo per soddisfare una mia futile vanità.
Lavoratori sottopagati dai paesi del Terzo Mondo ce ne sono, purtroppo, in ogni settore, ma il problema della moda low-cost mi colpisce particolarmente perché, su di me, batte là dove il dente duole. Non tollero di sentirmi una donna così tanto attaccata all’estetica da accumulare vanità a casaccio, senza manco chiedermi  – che so – se qualcuno è morto per confezionarmele.
Non so voi, ma io lo trovo un atteggiamento troppo à la Maria Antonietta per i miei gusti.

***

Da un po’ di tempo a questa parte, quando compro qualche capo di abbigliamento lo faccio con quell’attenzione in più. E devo dire che esco dal negozio col cuore più leggero, rasserenata dal sapere che la mia sessione di shopping non è andata a discapito di povere ragazzine indiane la cui vita sembra uscita da un romanzo di Charles Dickens.
Spendo più di prima, per inseguire questi ideali? Un pochino sì, anche se
– non basta comprare vestiti costosi per essere certi che non ci sia dietro questo schiavismo;
– sareste probabilmente sorpresi dallo scoprire che spendo sì un po’ di più… ma non così tanto come credete.
Last but not least, vi dirò pure che sono addirittura felice di spendere un po’ di più, se un prezzo a due cifre sul cartellino mi spinge a pesare ogni acquisto e a comprare in maniera più consapevole. È un antidoto meraviglioso alle insidie del consumismo.

Se interessa a qualcuno tornerò ancora su questi temi, magari svelando i miei trucchetti per un guardaroba “cristiano, etico e pudico”. Per il momento, mi interessava introdurre l’argomento in concomitanza con la campagna internazionale “Fashion Revolution”, che ogni anno, dal 24 al 30 aprile, “chiama a raccolta tutti coloro che vogliono creare un futuro etico e sostenibile per la moda”, chiedendo anzitutto “maggiore trasparenza lungo tutta la filiera fino al consumatore”.

Il punto della campagna è: ok, non possiamo rivoluzionare dal nulla il mondo della moda, e realisticamente non possiamo nemmeno pretendere che tutti i nostri vestiti siano confezionati in gradevoli atelier da sarte professioniste profumatamente retribuite.
Ma che i grandi ci dicano quali sono concretamente le condizioni di lavoro di chi confeziona le nostre magliette… questo sì: possiamo senz’altro chiederlo. Che il consumatore sia messo nelle condizioni di informarsi sulla filiera produttiva che porta a lui la sua T-shirt, è senz’altro una richiesta ragionevole.

E dunque, la campagna online, alla quale ho scelto di aderire, punta a fare un garbato pressing alle grandi industrie della moda, per sottolineare che una fetta di clienti si pone davvero queste domande. Se qualcuno di voi volesse per caso aderire,

basterà indossare gli abiti al contrario, con l’etichetta bene in vista, fotografarsi e condividere le foto attraverso i social media con l’hashtag #WhoMadeMyClothes.

WhoMadeMyClothesSe poi ci fosse qualcuno che si è davvero appassionato al tema, sappiate che, nel corso di questa settimana, in giro per le città d’Italia potreste trovare tanti eventi ad hoc organizzati da Altromercato, la famosa cooperativa che gestisce i prodotti del commercio equo e solidale. Dateci un’occhiata perché ci sono eventi interessanti, soprattutto a Milano (…e, un po’ in tutti i punti vendita, sconti del 20% sulle linee di abbigliamento e accessori etici).

***

E voi, cosa ne pensate?
Avevate mai riflettuto su questi argomenti?
Siete sensibili a questi temi?

Per chi di voi fosse interessato (…e so che qualcheduno c’è), saluto con la promessa di ritornare di tanto in tanto su questi argomenti (senza per questo snaturare il blog, ça va sans dire)… e anche con un link che potrebbe interessare. Da tempo, l’ottimo blog “Fresh Modesty” di Olivia Williams è nel mio blogroll; oggi, lo rilancio con particolare verve perché incarna perfettamente tutti gli ideali che stanno a cuore anche a me nel parlare di moda “cristiana”. Una moda che sì deve essere “casta” (Oliva nasce come fashion blogger di modest fashion)… ma non solo: una moda che deve essere anche (…o innanzi tutto?) etica.

40 risposte a "Moda etica e Fashion Revolution – perché non basta che una gonna sia al ginocchio per farmela dire pienamente “cristiana”"

  1. Laura Zaccaro

    Un articolo molto bello e che condivido. Personalmente non compro più tantissimi vestiti per motivi molto meno – come dire – eticamente corretti, ossia che facendo yo-yo con il peso, poi è un problema farseli entrare/non farseli cadere miseramente. Ogni tanto qualcosa compro ancora, ma insomma… non come prima. In genere, compro per delle occasioni, quindi non spendo proprio “5 euro”, ma nemmeno spendo chissà quali cifre… spero tanto che tu continui con questi post, in modo anche da capire cosa scegliere, sarebbe fantastico! Intanto mi segno i titoli… 🙂

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    1. Lucia

      Ecco, vedi? Io al posto tuo avrei già la tentazione di comprare un mucchio di vestiti, un po’ per ogni taglia, così da avere adeguato assortimento 😛

      Guarda: secondo me, una che ha le tue abitudini di acquisto potrebbe essere la “consumatrice perfetta” per fare il salto verso la moda etica. Perché un conto è dover cambiare radicalmente le proprie abitudini, o passare dalla maglietta a 5 euro a quella a 25 (che non è poi una cifra da capogiro, ma è pur sempre più di 5!). Ma se già si è abituati a comprare con oculatezza, spendendo cifre, non dico alte, ma nemmeno stracciate… davvero, allora il passaggio può abbastanza indolore, secondo me 🙂

      Prima o poi farò un post con qualche consiglio pratico in questo senso (tenendo conto che pure io sono una novellina nel campo…) 😉

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  2. lewismask

    Questo articolo per me batte esattamente dove il dente duole, per molto tempo mi sono chiesta da dove venissero i miei vestiti e che responsabilità avessi io nel comprarli, anche perché ho sempre saputo, o quantomeno sospettato, che le condizioni dei lavoratori nelle fabbriche fossero tutt’altro che dignitose.
    Tu come fai? Dove compri?
    Mi andrebbe bene spendere di più per essere sicura di non contribuire alla schiavizzazione di nessuno.

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    1. Lucia

      Eh… davvero, è contribuire alla schiavizzazione del prossimo, nè più nè meno :-\

      Ok, quanto ai consigli pratici su dove comprare: visto che la richiesta mi è stata fatta da tanti, invece di disperdere link utili di commento in commento, preparo un nuovo post con una serie di suggerimenti e poi lo pubblico, così rimane (ed è anche più facilmente rintracciabile per i motori di ricerca) 😉

      Appena ho un minuto, e comunque senz’altro entro la fine della settimana… 🙂

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      1. lewismask

        Grazie!!
        Se non ne hai mai sentito parlare ti consiglierei di cercare il sito di Jessica Rey, è una ragazza cattolica americana, che si interessa sia di modestia che di abiti prodotti in modo etico e quindi ha fondato prima una marca di costumi da bagno (rey swimwear) e adesso anche una linea di vestiti, tutti molto carini!

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      2. Lucia

        Sigh! La conosco sì (non sapevo avesse lanciato una linea di abbigliamento però, conoscevo solo la linea da spiaggia) – e amo i suoi costumi da bagno!
        Solo che non ho mai comprato niente dal suo e-shop, così come non ho mai comprato niente dagli Stati Uniti in genere. Sono abituata a fare acquisti da altri Paesi europei ma dagli USA no, mi frenano le spese di dogana e un paio di mie amiche hanno vissuto storie agghiaccianti (con tasse di dogana altissime che non avevano proprio messo in conto)… e quindi nada :-\
        Tu hai mai comprato dal sito?

        Un’altra mia grande passione sono i veli da Messa, ogni tanto mi piace frequentare la Messa in forma straordinaria (la famosa Messa in latino) e lì le donne mettono ancora il velo. C’è un e-shop di veli da Messa americano che fa delle cose BELLISSIME, ed è da anni che ne sogno uno, non foss’altro che per sostenere il businnes della ragazza che li fa… ma niente: anche lì, sono frenata dalle solite imprevedibili tasse di dogana 😦

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      3. lewismask

        Qual è la marca dei veli? Veils by lily?
        Comunque di quelli io per ora non ho avuto necessità, ho ereditato quello di mia nonna, non ho ancora avuto il coraggio di metterlo alla Messa, nemmeno quella in latino, ma ci sto pensando…
        Comunque no, non ho ancora comprato nulla: non è la dogana che mi preoccupa ma il fatto di non poter provare i vestiti. Quando devo spendere una somma consistente preferisco provare prima quello che compro, per essere sicura della taglia e di come mi sta, perché se per caso non mi va bene è un traffico rimandarlo indietro.
        MA può essere che per Jessica Rey faccia un’eccezione perché i suoi costumi sono veramente bellissimi e perché se una ragazza cattolica fa una linea di moda bella, decente e rispettosa dei lavoratori, penso che si meriti un po’ di sostegno 🙂

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      4. Lucia

        Veils by Lily mi piace molto, ma non al punto da spendere tempo soldi fatica e dogana 😉 per farmene arrivare uno direttamente dagli USA.
        Quelli che veramente mi fanno impazzire sono gli “infinity veils” di Evintage Veils (ha un e-shop suo, e poi vende anche su Etsy), tipo questo:

        o anche questo (li metto tutti e due, per far vedere che ha sia cose molto “solenni” che altre più easy):

        A parte che mi piacciono tantissimo proprio a livello estetico, sono convinta che questi sarebbero riutilizzabili anche nella vita di tutti i giorni, al di là della Messa in Latino, usandoli semplicemente a mo’ di sciarpa o scialle, appoggiati sulle spalle. Soldi meglio impiegati rispetto ai classici veli triangolari di moda oggi (oh cielo… ho davvero detto “di moda” riferendomi a veli da Messa? 😂), che son tanto bellini ma più che a Messa non li puoi riutilizzare.
        Però appunto, mi frenano (e non poco) le spese di dogana… :-\

        Comunque, come già dicevo altrove, per i veli da Messa io ho una vera e propria fascinazione: altre donne impazziscono per le scarpe, io per i veli da Messa 😛
        E li uso! Quando mi capita di andare alla Messa in Latino, ho la fortuna di andare in comunità in cui quasi tutte le donne portano il velo, quindi non c’è nemmeno l’imbarazzo ad essere le uniche. Prima o poi dovrò scriverci qualcosa, sui veli da Messa e sul perché li amo tanto… 🙂

        Tornando invece ai vestiti: eh sì, è vero, certe attività andrebbero incoraggiate (mannaggia, qui in Europa non ne conosco!). Un’altra marca che mi piace tantissimo, sul versante modest fashion americano, è Shabby Apple. Credo che la creatrice sia protestante, non cattolica, ma vabbeh, sempre lì siamo 😉 Anche lì: moda pudica, interamente made in USA a cura di una piccola azienda a gestione famigliare, e addirittura una piccola percentuale dei guadagni finanzia attività benefiche a sostegno delle donne del Terzo Mondo.
        Ma anche lì: ho già menzionato il fatto che ho il terrore delle dogane? 😛

        Comunque ti capisco, io non ho fatto acquisti online per anni (proprio per le ragioni che dici tu), mi sono sbloccata solo quando ho deciso di comprare online un certo maglioncino di cui mi ero proprio innamorata e che non era in vendita in negozi fisici. Da lì appunto mi sono sbloccata, perché ho visto che comunque riesco a comprare bene (talvolta facendo veri affari su siti come Privalia etc).
        Casomai ti potessero servire, le mie strategie sono:
        – comprare solo cose con un taglio già testato (es. io ho la vita stretta e i fianchi larghi: se si tratta di comprare un vestito stretto in vita e con la gonna svasata, vado abbastanza sul sicuro perché so che è un taglio che difficilmente mi da problemi; se dovessi comprare, chessò, una gonna a tubino, NON la cercherei mai online perché quello è un modello che davvero ho bisogno di provare);
        – comprare come se la possibilità di reso non esistesse (cioè: nel dubbio, non comprare);
        – nel dubbio, meglio una taglia in più che una in meno, stringere è più facile che allargare;
        – comprare marchi che conosco già. Non è da pazzi: es. qualche giorno fa, approfittando di una offerta di Privalia, ho comprato un paio di scarpe simili a un vecchio paio che ho già (stessa marca, modello simile) e che però sono ormai rovinate. Se segui le offerte degli outlet online a volte capita di trovare a prezzo scontato capi su cui puoi andare abbastanza sul sicuro, perché magari nel tuo guardaroba hai già cose della stessa marca e della stessa taglia. Ecco, io lì ne approfitto 😉

        Però è vero: quando compro online, io in genere lo faccio perché sto approfittando di una offerta (quindi non sto spendendo alla cieca grosse somme). L’unico caso in cui sono disposta a spendere somme medie, o peggio ancora medio-alte, comprando abiti online, è appunto quando so per certo che il vestito mi starà bene, perché ne ho già uno molto simile come taglio, della stessa marca, nel guardaroba. Per il resto, quando compro online in genere spendo sempre molto poco 🙂

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  3. Eva

    Bel post e fondamentale! Sarebbe interessante un elenco dei brand sostenibili, così come delle iniziative dei “big” (H&M conscious per esempio).

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    1. Lucia

      Ho il piacere di dire che un elenco dettagliato di tutti i brand sostenibili sarebbe probabilmente lungo come un romanzo 😀 però è vero! Sto lavorando a un post che mette assieme alcune informazioni utili. Coming soon… 😉

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      1. Eva

        Magari centrato su marche italiane oppure che abbiano negozi fisici in Italia. Dite di moda etica e sostenibile straniere ne conosco, ma ho problema concreto per cui ringraziarei qualche aiuto: ho un paio di matrimoni questa estate e dovendo comprarmi un vestito vorrei appunto che non ci fosse nessuna persona sfruttata nella sua elaborazione, ma non trovo negozi italiani con vestiti un po’ eleganti (non le magliette di H&M conscius) ma senza esaggerare (anche nel prezzo). Ringrazio qualsiasi aiuto 0:)
        E complimenti ancora per il blog! Mi ha piaciuto moltissimo anche il post sulle “tradizioni” dei matrimoni, rimanendo a tema 😀

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      2. Lucia

        Oh, grazie! 😀

        Uhm… visto che i vestiti elegantini per matrimonio sono una emergenza molto specifica 😉 comincio qui a linkare un paio di nomi che mi vengono in mente così su due piedi, e che magari potrei non riuscire a citare nel post “generico”.

        Che ne diresti ad esempio di un abito tipo questo (anche con stampe meno impegnative eh)?

        La marca è King Louie, un brand olandese che aderisce alla Fair Wear Foundation e subappalta sì la produzione a fornitori che operano all’estero (in Turchia), ma rivolgendosi a fornitori rigidissimamente selezionati che non solo trattano decentemente i loro lavoratori, ma hanno addirittura ricevuto premi ed encomi pubblici per il loro impegno nel sociale. Tutti i dettagli qua, mentre se vai qua trovi l’elenco di tutti i rivenditori in Italia (parecchi!).
        La qualità dei tessuti è buona (anche quando leggi che il vestito è di maglina: è veramente ottima maglina), e ci sono anche modelli in tinta unita o con stampe più discrete.

        Sennò, un paio di altri vestiti elegantini ci sono anche nella collezione di moda etica Auteurs du Monde in vendita nelle botteghe Altromercato del commercio equo e solidale. Mi viene in mente questo abito di seta (che ho visto in vetrina proprio la settimana scorsa, ed è molto più elegantino dal vivo che in foto!!), oppure quest’altro abito che ha sì una stampa molto vistosa, ma se piace il genere…
        Poi ovviamente dipende anche dal tipo di matrimonio e da un mucchio di altre cose 😉

        Niente, questi erano i primi suggerimenti mirati che mi son venuti in mente, stasera mi metto a scrivere il post non mirato 😛

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      3. Eva

        Grazie ancora! King Louie in effetti può essere un’opzione interessante da considerare, visto che hanno come dici diversi negozi fisici in città 🙂

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      4. Lucia

        A me piace davvero tanto, King Louie… se provi a darci un’occhiata, fammi sapere 😉

        Io intanto per occupare il tempo in pausa pranzo mi son dilettata a cercare online nomi di marchi italiani che producono effettivamente in Italia.
        Avrei trovato questo, che ricopio, ma con l’avviso che l’articolo è vecchissimissimo e probabilmente non più rispondete alla situazione attuale. Ci sarebbe questo che è più aggiornato, ma anche lì, la data è del 2009…

        Comunque:

        GIANFRANCO FERRÉ
        Non delude i suoi raffinati fan, producendo infatti il 100% delle sue collezioni couture nel Belpaese. Solo le seconde linee affidate a gruppi licenziatari sono realizzate in minima parte all’estero.

        GILMAR
        Le linee di prêt-à-porter di Iceberg sono prodotte in Italia, tranne i ricami realizzati in India. Le seconde linee sono invece prodotte per un 30% all’estero. Prevalentemente in Cina e India. ´Tra le nuove scommesse della nostra azienda c’è anche la Turchia’, ha detto a MFF Paolo Gerani, direttore creativo di Iceberg, ´a livello produttivo sembra essere infatti un mercato che offre forti potenzialità per noi italiani: è vicino e il rapporto qualità/prezzo è ottimo’.

        GIORGIO ARMANI
        Il numero uno della moda nel mondo produce in Italia l’80% dell’intera gamma delle sue collezioni. Il rimanente 20% nasce soprattutto in Cina (le t shirt di Armani jeans), mentre una buona parte dei ricercati ricami della maison vengono eseguite in raffinati laboratori indiani.

        GUCCI
        Abbandona il sacro suolo italiano soltanto per le sue blasonate collezioni di orologi. Che produce, naturalmente, in Svizzera.

        IT HOLDING
        A livello produttivo le prime linee sono realizzate totalmente in Italia, mentre le seconde sono prodotte tra Nord Africa, Cina ed Europa dell’Est. Fanno parte del portafoglio marchi del gruppo: C’n’c costume national, Just Cavalli, D&G, Versus, Versace Jeans couture, GF Ferré ed Exté.

        LA PERLA
        Può contare su molti piccoli laboratori italiani che lavorano per le sue collezione di intimo e beachwear. Ma ammette di delocalizzare il 20% delle sue produzioni in Indonesia, Cina e Messico.

        LAURA BIAGIOTTI
        Esibisce il suo full made in Italy con l’etichetta ammiraglia, ma anche con la seconda linea e le collezioni bimba, realizzate al 100% in Puglia. ´Facciamo fare tutto tra Lazio e Toscana, assolutamente in Italia quindi’, ha dichiarato a MFF Lavinia Biagiotti, ´e il nostro grande lusso è la fabbrica che abbiamo a Pisa, dove 30 signore lavorano il nostro cashmere con metodo assolutamente artigianale’. È, invece, made in China la produzione della seconda linea di borse, Laura by Laura Biagiotti.

        MARIELLA BURANI FASHION GROUP
        Le prime linee del gruppo sono prodotte quasi esclusivamente in Italia. Le seconde linee invece sono prodotte anche all’estero, in India per esempio vengono realizzati i ricami. ´Da noi ormai hanno costi proibitivi’, ha spiegato a MFF Andrea Burani, amministratore delegato Mariella Burani fashion group, ´per il denim ci approvvigioniamo in Turchia. Facciamo traffico di perfezionamento passivo per esempio partendo da tessuti italiani che poi facciamo confezionare come capispalla nella Repubblica Ceca’.

        MISSONI
        Resta ancorato alla grande qualità del made in Italy, con una sola eccezione: il 2% delle tre collezioni uomo, donna e sport, realizzato in India (gioielli e ricami).

        PRADA
        Produzione realizzata al 100% in Italia. Tranne semilavorati particolari, che vengono prodotti all’estero, come i ricami realizzati in India. ´Ma si tratta di produzioni stagionali, legate alle singole collezioni presentate in passerella’, precisa l’azienda. Stesso discorso per le altre griffe del gruppo. La produzione di Jil Sander invece è stata recentemente trasferita in Italia.

        ROBERTO CAVALLI
        Prime linee tutte made in Italy al 100%, le seconde linee invece sono in parte prodotte all’estero.

        SALVATORE FERRAGAMO
        La produzione avviene rigorosamente in Italia, dagli accessori al prêt-à-porter. È realizzata attraverso partner produttivi italiani, molti dei quali lavorano da anni in esclusiva per la maison fiorentina. I prodotti finiti arrivano a Firenze per il definitivo controllo di qualità prima di essere messi in distribuzione. Unica eccezione sono gli occhiali, che sono però prodotti in licenza da Luxottica.

        VALENTINO Fashion Group
        Le prime linee sono realizzate in Italia. Per i marchi come Marlboro Classics, Uomo Lebole e Hugo Boss prevale invece la delocalizzazione, divisa tra Cina, India, Turchia, Repubblica Ceca ed Egitto. ´Attualmente stiamo facendo dei test in Egitto per la produzione di abiti intelati’, ha detto a MFF Michele Norsa, amministratore delegato di Valentino Fashion group, ´il rapporto tra la qualità e il prezzo è infatti ottima. La spedizione, inoltre, costa meno rispetto all’Asia. Inoltre ha come vantaggio che è più veloce per le vendite in Europa’.

        VERSACE
        Le linee di abbigliamento sono realizzate totalmente in Italia in tutte le loro fasi di produzione, dichiara la società. ´Cerchiamo l’eccellenza ovunque’, ha affermato a MFF Santo Versace, presidente del gruppo Versace, ´gli orologi li produciamo in Svizzera, le ceramiche in Germania, per esempio. Solo alcune linee di abbigliamento sono realizzate all’estero, nell’Europa dell’Est, ma sono quelle basic, per esempio il denim

        Vabbeh, sono anche griffe griffatissime con prezzi ben alti… 😉
        (E comunque, non è un granché consolante che marchi così famosi delocalizzino la produzione dei capi se appena appena parliamo di linee non di primissima scelta… :-\ )

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  4. Elena

    Ciao,
    il post è molto interessante e su questi argomenti mi interrogo anche io.
    Non tanto sull’abbigliamento (sono anomala e decisamente poco interessata ai vestiti: continuo ad indossare gli stessi da vent’anni a questa parte aggiungendo ogni tanto qualche vestito un po’ più carino acquistato per eventi particolari come i matrimoni dei parenti), ma in generale anche per esempio sull’acquisto dei generi alimentari al discount.
    Da una parte la preoccupazione sui controlli del bene di consumo e dall’altra sulla situazione lavorativa delle persone che producono.
    Poi mi domando… ma se tutti “boicottassimo” questo genere di aziende quali sarebbero le conseguenze? Sarebbero solo positive? Non rischieremmo di mandare a bagno tante aziende con i relativi dipendenti (dal cui reddito presumibilmente dipendono svariate famiglie)? Se spostassimo di nuovo le industrie solo nei paesi sviluppati, i lavoratori “schiavi” non rischierebbero di perdere anche quella piccola forma di introito?
    Ovvio che sono d’accordo che così le cose non possono andare. Dobbiamo lottare contro questa moderna forma di schiavitù. Solo che non so quale sia la maniera migliore….
    Seguirò con interesse le vostre proposte in merito.
    Buona giornata,
    Elena

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    1. Lucia

      Verissimo! E giustissimo. Condivido al 100%. Peraltro, ricorderò sempre una chiacchierata fatta qualche tempo fa con alcune suore provenienti dal Terzo Mondo, che, nel sentire il mio sdegno per i vestiti fatti dai loro poveri connazionali “schiavi” nelle fabbriche fatiscenti eccetera eccetera eccetera, mi guardavano perplesse e mi dicevano, non a torto: “ok, ma allora cosa ne facciamo delle bambine di otto anni che lavorano nelle fabbriche di vestiti? Le rispediamo tutte quante a casa, così il giorno dopo si riciclano come baby-prostitute in mezzo alla strada?”.

      Ma infatti la campagna Fashion Revolution, alla quale ho scelto di aderire (così come anche ad esempio la Clean Clothes Campaign) non promuovono il boicottaggio delle grandi aziende in sè e per sè, e se così facessero io non le appoggerei, perché, in sostanza, io sono contraria ai boicottaggi.
      Per quanto possa ovviamente capire le ragioni dietro a un boicottaggio, io sono dell’idea che non serva assolutamente a niente, perché:
      a) ovviamente non saremo mai abbastanza per influire sul fatturato di Mango o H&M;
      b) ok, per assurdo il nostro boicottaggio fa chiudere Mango e H&M… e mo’?, come giustamente tu rilevi.

      Secondo me, il più grande risultato che si può sperare da queste campagne è che riescano a sensibilizzare al tema una fetta di consumatori – e possibilmente una fetta abbastanza grossa (o abbastanza rumorosa) da spingere i grandi marchi a prendere una posizione in materia.
      Io non voglio che le multinazionali smettano di sub-appaltare il lavoro nei Paesi del Terzo Mondo, ma voglio che operino un minimo di controllo in più sulle effettive condizioni di lavoro di chi opera presso i loro fornitori. Voglio che ad esempio vengano poste in essere politiche aziendali per cui il fornitore del Terzo Mondo, prima di aggiudicarsi la commissione, deve sottoscrivere un codice di condotta in cui si impegna a garantire ai suoi dipendenti uno stipendio almeno pari a X e un monte ore settimanale non superiore a Y.
      Questi sono dei piccoli passi assolutamente realizzabili, e alcuni grandi marchi stanno lavorando in tal senso (almeno per alcune loro linee specifiche), il che, secondo me, è un grandissimo risultato.
      Parlando in termini ancor più generici, io vorrei che le aziende che possono garantire una filiera di produzione decente possano far diventare questa buona condotta un utile strumento pubblicitario. Se l’opinione pubblica è sufficientemente sensibilizzata al tema, allora le aziende “meritevoli” potrebbero cominciare a trarne benefici anche economici, innescano un circolo virtuoso che pian piano, nel lungo periodo…

      Nel settore alimentare in parte è già successo: qualche giorno fa leggevo la storia della Nestlè, che (probabilmente anche per “pulirsi la faccia” dopo tutti gli scandali che l’hanno coinvolta in passato) ha cominciato a produrre le capsule del Nespresso con caffè che proviene in gran parte da coltivazioni equo-solidali ed ecologiche.
      E’ una scelta pubblicitaria per far dimenticare tutti gli altri settori in cui la azienda si comporta in modo meno angelico? Ma certo che sì: intanto però il caffè Nespresso arriva da una filiera “meno peggio” di tante altre.

      Personalmente, io ritengo che questa sia l’unica strada ragionevolmente perseguibile – un po’ perché davvero non ne vedo altre possibili, un po’ perché, per mia inclinazione personale, decisamente non sono un tipo da guerriglia e boicottaggi 😉
      Ma un garbato, sommesso e ripetuto pressing alle ditte, per ribadire che certi temi ci stanno a cuore e che gradiremmo un cambiamento, non dico nell’immediato (perché irrealistico) ma quantomeno nel medio periodo… quello secondo me si può decisamente fare, secondo me 🙂

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    2. Lucia

      P.S. Visto che ti interessi al tema del cibo, probabilmente conoscerai già i prodotti equo-solidali della rete Altromercato… ma, casomai non li conoscessi (o non li conoscesse un internauta di passaggio) lascio qui il link all’e-shop: http://www.altromercato.it/it_it/prodotti/mangia-e-bevi.html
      Ci sono tanti negozi fisici ma c’è anche l’e-shop, che è comodissimo per chi non vive in una delle città in cui è presente il commercio equo-solidale. Noi ne siamo da sempre grandi utilizzatori, anche perché… un conto è ricorrere alla filiera dell’equo-solidale per comprare vestiti (è pur sempre una certa spesa); ma se si tratta di comprare un chilo di pasta, una bottiglia di birra, una barretta di cioccolato… per quanto il prezzo sia un po’ più alto che al discount, non è così alto da farti finire in rovina 😉

      Ed è roba buonissima!!

      Noi siamo diventati dei tali fan del cacao solubile marca Equik, che il suo cugino con la N davanti al confronto ormai ci pare robaccia… 😛

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      1. Corina

        A proposito delle politiche aziendali che auspichi per i grandi marchi con fornitori nel Terzo Mondo, sono andata a vedere qual’è la posizione del marchio Boden (che al momento e il mio assoluto favorito e non vorrei rinunciare ai loro prodotti) e ho trovato questo: http://www.boden.co.uk/en-gb/help/our-ethical-policy#help Chissà se queste dichiarazioni di “policy” sono davvero affidabili; d’altra parte mi dico che è meglio di niente, perché comunque al boicottaggio non ci credo neanch’io e perché la domanda delle suore del Terzo Mondo è più che giusta: l’economia ormai è globalizzata e togliere la produzione da quei paesi non può essere una cosa giusta per loro.

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      2. Lucia

        >.>

        Ecco.
        Lo sapevo che sarebbe finita così.
        Non conoscevo il marchio Boden, stavo tanto bene senza conoscerlo, e adesso invece so che esiste, ho spulciato il catalogo, mi sono innamorata di come minimo cinque vestitini diversi, e peggio ancora so che si impegna nel campo etico!!!
        Sono spacciata 😛

        😉

        Beh… a leggere la pagina che mi linki, sembra decisamente circostanziata e con riferimenti molto precisi agli impegni etici presi da Boden. Penso che sia tutto vero!
        Come dicevo nel post che ho appena pubblicato, ho scoperto che sono molti i brand inglesi che pubblicano sui loro siti dichiarazioni di questo tipo, e ciò in virtù di una legge proposta dalla May prima che diventasse primo ministro, in base alla quale tutte le grandi aziende devono quantomeno fare una dichiarazione sull’esistenza di politiche aziendali a tutela dei lavoratori esterni.
        Non ho ancora capito se questa legge ha prodotto maggior chiarezza o ha creato situazioni fuorvianti. Sicuramente ha sensibilizzato l’opinione pubblica sul tema, e sicuramente nessuna azienda è felice di dover dichiarare pubblicamente “me ne frego dei lavoratori del Terzo Mondo”. All’atto pratico, ho notato che su tanti siti Internet di brand inglesi sono apparse generiche dichiarazioni tipo “oh sì sì noi abbiamo molto a cuore la situazione di chi lavora per i nostri fornitori, ci teniamo proprio tanto, sì sì, parola”, e tu li leggi e dici… ehm, okay, ma concretamente ti impegni come?

        Qualche tempo fa sono caduta follemente innamorata di una specifica gonnellina prodotta dalla ditta inglese Cath Kidston. L’ho ordinata, dando un’occhiata alla politica dell’azienda in materia etica, e leggendo tante belle parole sulla linea di “sì sì noi ci teniamo”, ma tutte così tanto vaghe e senza riferimenti concreti, che son rimasta lì a guardare la pagina sul sito dicendo… boh?. Sarà aria fritta per ottemperare alla legge inglese, o cosa?

        Questo lo specifico perché, sulla carta, è pieno di rutilanti proclami su un mucchio di siti di brand inglesi, ma bisogna anche conoscere la situazione (e quantomeno sapere che c’è dietro una legge) per riuscire a dar loro il giusto peso. Però, tornando a Boden, le sue sì che mi sembrano dichiarazioni molto puntuali e circostanziate, quindi… crediamoci! 😉

        Senti, ma giusto per sapere, visto che appunto mi sono innamorata di questo marchio. Informazioni da tenere a mente per il futuro: qualità delle stoffe, vestibilità dei capi, facilità nel tracciare la spedizione? No, perché mi sa che prima o poi diventerò loro cliente anch’io 😉

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  5. Ilaria

    Eccomi! Mi sono ritrovata molto in questo post. Intanto, per come hai ben descritto l’arrivo nelle nostre lande delle catene low cost. Anch’io ricordo molto bene, ero all’università ma la soddisfazione di tornare a casa carica di vestiti acquistati con la stessa cifra con la quale solo poco tempo prima ne acquistavo neanche la metà era forte. E sì, non è che non mi ponessi certe domande e non avessi un’idea delle risposte ma non era un’idea così precisa, così intollerabile come quella restituitami da “The true cost”… sì, un pugno nello stomaco che ha cambiato il mio modo di acquistare. Io ho scoperto quel documentario poco più di un anno fa grazie a questo video:

    E questa stessa youtuber si è presa a cuore la faccenda: in questi video dà parecchi consigli concreti su dove acquistare capi che siano etici:

    E spulciando tra i suoi video anche al di fuori della playlist che ho linkato, offre tutorial su come riutilizzare vecchi capi dando loro nuova vita in modo semplice: nell’infobox sotto questo video inerente al tema ci sono link utili ad altri suoi video di riuso abiti:

    Finirò nello spam con tutti questi link ma se li metto è perché quei video sono un buon punto da cui partire! Non conoscevo invece la guida che indichi ma la cercherò. Grazie!

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    1. Lucia

      Sì, WordPress da un po’ ha cominciato a far visualizzare video Youtube a casaccio, basta che si metta il link, quando lo vuole lui e non quando lo vuole la persona umana: io sono impazzita per mezz’ora buona a incorporare nel mio post dedicato la registrazione della puntata di Siamo Noi cui avevo partecipato, ma niente, non c’è stato verso. In compenso, basta che un povero cristiano pubblichi un indirizzo youtube nei commenti, che parte la sparaflasciata di video in anteprima 😀
      In realtà a me non dispiace affatto, anzi, invoglia a cliccare sul pulsante e curiosare cosa dice il video, quindi non preoccuparti… e anzi, grazie! 😉

      Molto molto interessante! Avevo visto un paio di “Haulternative” di questa Youtuber, ma non sapevo che avesse dedicato così tanto spazio al tema della moda etica. Con calma me li spulcerò tutti quanti, grazie ancora!

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  6. Pingback: Cinque consigli per un guardaroba più etico, per sentirsi meno in colpa quando si va a far shopping – Una penna spuntata

  7. Corina

    Sono contenta che ti piace il marchio Boden, io l’avevo scoperto tramite una blogger cattolica americana che cercava vestiti modesti e di qualità e dopo aver preso qualcosa per il matrimonio di sua figlia, ha raccomandato il marchio sul suo sito; l’ho provato e sono diventata ormai cliente fedele. Ho comprato capi per tutta la famiglia e sono in genere contenta della qualità, eccetto una maglietta di cotone (tra l’altro fabbricata in Portogallo), che si è bucata troppo presto per i miei standard. Io ordino per posta dal sito inglese e il pacco arriva in genere nei tempi previsti; una volta ho dovuto anche rispedire roba che non mi veniva bene e sono stata contenta di come si è svolto tutto il procedimento. Una volta che determini la misura che hai, è consigliabile guardare le review delle altre clienti sul sito per sapere se un modello specifico veste grande o piccolo. Io ad esempio sono una misura 8 petite, ma per alcuni prodotti mi va bene anche il 6 petite, mentre per altre cose (sopratutto gonne) potrei vestire 10.
    Oltre al sito inglese esiste anche un sito .eu, ma non ho mai ordinato da lì.

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    1. Lucia

      Una 6 petite!! Ma sei minuscola! 😀

      Però è vero. Per curiosità ieri ho provato a simulare un acquisto, e la guida per le taglie dava anche a me una taglia più piccola di quella che mi sarei aspettata.

      (Peraltro: la guida per le taglie è fatta benissimo e permette anche di aiutarsi usando come parametro le taglie di altri vestiti, prodotti dai marchi più famosi, che avete già nel vostro guardaroba. Lo specifico non per te che evidentemente lo saprai già 😛 ma per altri eventuali interessati che dovessero leggere questo commento).

      Buono a sapersi, ha delle cosine veramente deliziose e lo segno sicuramente nella lista dei preferiti! Grazie!!
      Per curiosità: chi era la blogger cattolica americana che ne ha parlato? Sono sempre alla ricerca di nuovi blog da seguire 😉

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      1. Corina

        Si, in effetti non sono molto grande, ma dovresti vedere mia sorella, che mi passa delle cose Boden 6 petite perché troppo grandi per lei :))
        La blogger è Leila Marie Lawler, che scrive insieme alle sue figlie su http://www.likemotherlikedaughter.org (in questi giorni hanno dei problemi tecnici, il sito non è accessibile). Hanno anche una pagina facebook dove mettono gli aggiornamenti, Like Mother, Like Daughter @auntie Leila (per distinguerla da altre pagine con lo stesso nome). E’ il mio blog preferito in assoluto, mi è stato molto d’aiuto e ho imparato tanto da loro.

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      2. Lucia

        Va beh, dopo la sorella a cui sta stretta una taglia 6 petite, sono giunta alla conclusione che siete evidentemente delle fatine, non degli esseri umani 😉 😉 😉

        Oh, grazie per il link, non lo conoscevo! Ho dato un’occhiata alla pagina Facebook e in effetti promette bene – questo aumenta solo l’effetto suspance in attesa che il loro blog torni online… 🙂

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  8. Laura Zaccaro

    Però, adesso ve lo devo dire… io la conosco una ragazza cattolica italiana che sta cercando di aprire un progetto di moda modesta, ed è anche piuttosto brava.
    😀

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    1. Lucia

      No-me, no-me, no-me!! 😀

      Io, di ragazze italiane con questa balzana idea 😉 conosco la cantante dei Mienmiuaf (o come si scrive :-P). O meglio: non la conosco affatto nel senso che lei non è nemmeno al corrente della mia esistenza in vita, credo, però ho letto in giro di questo suo progetto e le auguro il meglio, anche perché credo che davvero sarebbe la prima cattolica in Italia a fare una linea dichiaratamente modesta. E’ un tema che non è minimamente affrontato, io conosco solo la Turris Eburnea che ne parla (ma ne parla solo – è un movimento – non vende).

      Se la ragazza non è lei, o se sai qualcosa in più (possibilissimo!), dicci, dicci! 😉
      La pubblicità è più che gradita 😀 , peraltro sarei anche felice di comprare qualcosa per sostenere un po’ un progetto così bello!

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  16. F.

    Io acquisto abitualmente capi di seconda mano. In tal caso mi sembra di poterli considerare etici anche se di marchi dubbi (tipo Zara e affini). È un’autoassoluzione o effettivamente ha un senso?

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    1. Lucia

      Beh, no, secondo me ha assolutamente senso.
      Alla fin fine quei vestiti esistono già e il minimo che si può fare per “minimizzare il danno” (che è già stato fatto) è sfruttarli il più a lungo possibile. Anche io compro spesso capi di seconda mano – e visto che sono già stati prodotti, comprati, e poi scartati dal compratore, fare in modo di utilizzarli il più a lungo possibile è la cosa più ragionevole che si possa fare (secondo me).

      Anzi, è un ottimo modo per comprare in modo etico senza dover spendere tanto (anzi, risparmiando pure). Soprattutto per i bambini, o per chi comunque non può/non vuole spendere troppi soldi in un vestito, è di gran lunga la scelta migliore! E talvolta si fanno pure affari veri…

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