Cinque consigli per un guardaroba più etico, per sentirsi meno in colpa quando si va a far shopping

Non aspettavo tanti commenti e tanto interesse per il mio ultimo pezzo incentrato sulla moda etica!
Yey! Bello sapere che il tema vi sta a cuore!

Quello che invece certamente immaginavo, dopo aver pigiato il tasto “Pubblica”, è che sarei stata sommersa di giuste domande tipo: ok, bellissimo… ma concretamente dove compri i tuoi vestiti?
Premesso che io sono una “convertita” molto recente, e peraltro di moralità non integerrima (leggasi: il mio guardaroba è ben lungi dal potersi dire 100% etico), ecco le strategie che sto adottando ultimamente, quando voglio fare shopping… sentendomi a posto con la coscienza. 

1) Puntare dritto all’obiettivo, e comprare nella filiera del commercio equo e solidale

Sia messo agli atti che io amo, amo, amo la linea di moda etica Auteurs du Monde, creata da Marina Spadafora per Altromercato, la più grande organizzazione italiana nel campo del commercio equo e solidale.
Amo amo amo gli abiti di Auteurs du Monde, non solo perché sono obiettivamente molto bellini ma anche perché è facile trovarli in un negozio fisico: sono in vendita in tutte le botteghe Altromercato, presenti in numerosissime città d’Italia. Per chi vuole farsi un’idea di cos’è Auteurs du Monde, qui trovate il catalogo online… e anche un mezzo e-shop. “Mezzo” perché non tutti i capi di abbigliamento sono in vendita tramite Internet , ahinoi (però, potete sbizzarrirvi facendo shopping di accessori e bijoux).
Come tutte le case di moda, Auteurs du Monde ha una collezione primavera/estate ed una autunno/inverno (solo per donna), e secondo me merita davvero di esser presa in considerazione. Mal che vada, se entrate in negozio e non trovate niente che vi ispira, potete sempre salvarvi dall’imbarazzo comprando una barretta di cioccolato solidale (buonissimo!)

Altri marchi che si ispirano apertamente al commercio equo e solidale e che potrebbero forse interessarvi: i jeans Par.co, confezionati in provincia di Bergamo con cotone 100% biologico; i giubbotti e le felpe di Quagga, azienda italiana molto attenta all’etica e all’ecologia. Sia Par.co che Quagga hanno un e-shop; invece, sono e-shop Trame di Storie e Altramoda, due negozi online con vasto assortimento (di ogni prezzo) per uomo/donna/bambino. Il primo è più attento all’etica umana; il secondo calca la mano sulla questione ambientale… fatto sta che nessuno dei due alimenta lo schiavismo.

2) Comprare un po’ di meno, ma comprare nel posto giusto

Sono tra le più entusiaste fan del commercio equo e solidale, ma non è che il fair trade sia l’unica strada per trovare capi d’abbigliamento prodotti con un minimo di rispetto umano.
Possibili alternative: il Made in Italy, per cominciare con un po’ di sano campanilismo. Sappiamo fin troppo bene che, in certi casi, dietro a un’etichetta “Made in Italy” si celano lavorazioni svoltesi chissà dove e in chissà da chi… ma diciamo che con le aziende piccine, con i laboratori artigianali, con le piccole realtà locali, dovremmo andare abbastanza sul sicuro. Hopefully.
Anche le bancarelle dei mercatini, le vendite di lavori missionari che ogni tanto vengono proposte dalle parrocchie, i piccoli e-shop di sartine su Etsy dovrebbero essere garanzia di un lavoro equamente retribuito.

Se parliamo invece di brand “normali” (nel senso che hanno una politica aziendale “normale”, vengono venduti in negozi “normali”, etc), dovremmo tenere sempre sott’occhio l’elenco dei marchi che hanno aderito alla Fair Wear Foundation, impegnandosi a garantire condizioni di lavoro dignitose per tutti gli operatori coinvolti nella produzione dei capi.

N.B. Giacché la Fair Wear Foundation è un ente internazionale, non tutti i brand che vi aderiscono commerciano anche in Italia. Alcuni sì, però. Cercate (magari spulciando i siti Internet dei singoli marchi), e troverete!
N.B. numero 2. Giacché la Fair Wear Foundation è un ente internazionale, monitora le condizioni dei lavoratori di diversi Paesi, Italia inclusa. Ha un nonsocché di tragicomico leggere il report per cui gli Italiani se la passano indubbiamente meglio rispetto agli schiavi bengalesi… purtuttavia, questa faccenda del precariato sta diventando un “growing issue”.

3) Comprare il meno peggio, e/o premiare le iniziative lodevoli dei grandi brand

Possono davvero il mondo della fast fashion e del low cost conciliarsi con un sistema produttivo equo e sostenibile?
Personalmente ne dubito, anche perché se il tuo modo di catturare clienti è creare ogni anno cinquantadue micro-collezioni con prodotti venduti a prezzi stracciato… beh… qualcuno che lavora come un pazzo, a monte, non può non esserci.
Però, nel corso degli ultimi anni, alcuni dei grandi marchi hanno cominciato a interessarsi al tema. Che sia una reale convinzione, una strategia di PR, un modo per ottemperare a regole più rigide entrate in vigore in certi Stati europei, poco importa. O meglio: importa sì; ma forse, nell’immediato, è ancor più importante incoraggiare queste iniziative, se non altro per dimostrare ai big che c’è una fascia di mercato a cui davvero stanno a cuore queste problematiche.

H&M è ancora molto lontana dal garantire ai suoi operatori condizioni di lavoro umane e ben retribuite, ma forse proprio per questo la sua linea “Conscious” andrebbe sostenuta anche con i nostri acquisti.
GAP (con i suoi sottomarchi Old Navy, Piperline, Athleta e Banana Republic) è stata insignita nel 2015 del titolo di “World’s Most Ethical Company”. Anche in questo caso: siamo lontani da una produzione etica al 100%, ma sicuramente l’azienda meno peggio di altre.
Nel Regno Unito, poco prima di diventare primo ministro, Theresa May aveva fatto diventare legge un Modern Slavery Act che, tra le altre cose, costringe le compagnie a rendere pubbliche le loro politiche aziendali riguardo l’esternalizzazione dei processi produttivi. Implicitamente, la legge incoraggia le imprese a stabilire codici di condotta sulla tutela dei lavoratori da far sottoscrivere a tutti i sub-fornitori coinvolti nel processo. E, se non altro, questo ha portato a una maggiore trasparenza sulla filiera di produzione dei grandi marchi britannici.
Se avete in progetto una vacanza in Inghilterra (o se potete ammortizzare le spese di spedizione facendo un mega-ordine), potrebbe interessarvi sapere che Marks & Spencer ha preso posizioni apprezzabilmente rigide, su questi punti.
Ancor meglio ha fatto ASOS, che, oltre a rendere più trasparenti le sue politiche aziendali in generale, ha lanciato una linea di abbigliamento equo e solidale Made in Kenya.
Buone notizie per le amanti degli accessori (e per le mamme che abbisognano di vestiti da cerimonia per i loro bimbi): anche l’inglese Accessorize (con annessa linea abiti Monsoon) ha preso una posizione piuttosto forte in questo senso.
Last but not least: J. Crew, non esattamente a buon mercato (e disponibile in Italia solo su Zalando, a quanto so io). Anche in questo caso: siamo ancora molto lontani da una filiera etica al 100%, ma anche questa ditta è da apprezzare per l’impegno che ci mette.

4) Non sottovalutare i mercatini dell’usato!

Effettivamente, io posseggo una blusa di J. Crew. Non l’ho comprata su Zalando né men che meno in un negozio fisico: l’ho pagata la bellezza di 2 euro a un mercatino dell’usato.

Qui in Italia c’è un certo pregiudizio (non esito a chiamarlo tale) sul mercato dei vestiti di seconda mano. E parlo di “pregiudizio” perché non è mica tanto normale che noi Italiani siamo lì con la puzza sotto al naso a brontolare “noooo, gli scarti degli altri nooo!”, mentre in Inghilterra (per dirne una) i charity shop sono presi d’assalto da signore di ogni ceto sociale, ivi compresa Kate Middleton la futura regina consorte.
Non voglio fare la morale a nessuno, ma penso che noi Italiani dovremmo davvero abbandonare questa spocchia nostrana secondo cui i vestiti di seconda mano sono solo una roba per accattoni. Peraltro, io vedo il second hand come una scelta etica, perché
1) ti permette di comprare abiti “sostenibili” che, a prezzo pieno, potrebbero essere al di fuori della tua portata;
2) indipendentemente dal brand che stai acquistando, ti permette comunque di dare nuova vita ad abiti che, diversamente, sarebbero destinati al macero (aumentando il problema ambientale, rendendo ancor più inutile il lavoro dei poveri sarti bengalesi sottopagati, e alimentando ulteriormente il mercato malato della moda usa-e-getta). Insomma: una scelta di acquisto alternativa, per salvare il salvabile di un sistema malato che considera “scarti” dei capi di abbigliamento ancora perfettamente utilizzabili.

Vi fa schifo mettervi a frugare nei cumuli di “abiti usati 5 euro al pezzo” che si trovano pressoché in ogni mercato? A me no, ma posso capire, e allora vi consiglio qualche realtà che offre un primo impatto un po’ più chic.
Humana (quella dei contenitori gialli lungo la strada che raccolgono abbigliamento usato) seleziona i capi migliori per rifornire negozi a tutti gli effetti, che si dividono in “Humana Second Hand” (per tutti i gusti e per tutte le tasche) e “Humana Vintage” (con capi più raffinati, anni ’60 – ’80). Io ho visitato il negozio “Humana Vintage” di Roma, e posso assicurarvi che i capi messi in vendita erano in condizioni perfette, e proposti in un ambiente più che accattivante.
Mani Tese è una ONG  con iniziative a favore del Sud del Mondo che da sempre si sostiene con mercatini dell’usato, organizzati dalle varie sede locali che trovate sul suo sito Internet. Le comunità Emmaus dell’Abbé Pierre possono piacere o non piacere, ma anche loro propongono mercatini solidali in cui possono trovare meraviglie.
La lista è necessariamente incompleta, perché sicuramente anche nella vostra città ci sono mercatini benefici con prodotti di seconda mano gestiti da realtà locali che io non conosco. Vi dico solo di darci una chance e di non arrendervi al primo eventuale insuccesso, perché anche a me è capitato talvolta di imbattermi in roba zozza infeltrita e lisa… così come mi è capitato di fare ottimi acquisti, che ho poi sfoggiato in ogni contesto.

Sul versante delle vendite online, so che esistono diversi siti dedicati alla vendita (o allo scambio) di vestiti usati, ma non ne ho mai provato nessuno. Una menzione speciale però la riservo a l’Armadio Verde, che permette di acquistare/scambiare vestiti per bambini (fino ai 16 anni) a costo decisamente ridotto. Per qualche misteriosa ragione, Zuckemberg ha deciso che è una buona idea impestarmi la home di Facebook con continui banner pubblicitari di questo sito. Chiamiamolo, se volete, un segno del destino: è stato così che ho scoperto questo e-shop, assieme alle recensioni di centinaia di genitori entusiasti che ne decantano le lodi. Passaparola a tutti gli interessati.

5) Mai cestinare un vestito a cuor leggero

Sembra una banalità, ma quante di noi buttano via una maglietta non appena si slabbra, invece di tentare di recuperarla in qualche modo?
Se la maglietta l’hai pagata 5 euro, posso capire l’impulso di cestinarla e tanti saluti; però, dovremmo davvero recuperare la parsimonia delle nostre nonne, che rammendavano, rappezzavano, riutilizzavano, riadattavano…
Un vestito il cui corpetto ha cominciato a starti stretto, può facilmente essere trasformato in gonna. Un paio di pantaloni strappati sulle ginocchia dopo una caduta possono diventare un paio di deliziosi shorts estivi. Una T-Shirt rovinata può essere riciclata come canottiera, d’inverno, sotto i vestiti. Una blusa che non ti calza più a pennello dopo che hai preso quei due chili in più, si può allargare con due spacchetti laterali in maniera tale che non ti segni i fianchi.
Per chi non è in grado di fare da solo questi lavoretti, segnalo che i sarti costano molto meno di quanto comunemente si creda, e per piccole riparazioni di questo tipo chiedono una manciata di euro e poco più. Se non conoscete direttamente un sarto, provate a chiedere recapiti in merceria o in tintoria: in genere, hanno collaboratori di fiducia da cui indirizzarvi.

Se poi avete un po’ più di manualità (e/o sognate di averla), potete sempre prendere in mano ago e filo (…e, possibilmente, una macchina da cucire che sia decente) e darvi alla produzione propria. Per chi vuole imparare a cucire (o a lavorare a maglia, o all’uncinetto…) esistono un sacco di supporti in ogni edicola. Io segnalo, per i neofiti, un bel libretto intitolato La gonna che visse due volte: in questo caso, lo scopo è rinnovare il guardaroba dando nuova verve a quella maglietta messa e rimessa che ormai sta cominciando a stufarci… ma che non merita certo di essere buttata solo per questa ragione! Insomma: piccoli lavoretti per modifiche di poco conto, ma stimolanti. Un ottimo modo per cominciare a familiarizzare con ago e filo!

***

Che dite: qualcuna di queste dritte vi ispira? Se sì, non mancate di farmi conoscere gli esiti del vostro prossimo shopping!
E, soprattutto, non mancate di farmi conoscere altri siti, altri marchi, altre soluzioni a cui non ho pensato. Come vedete, non è sempre facile costituire un guardaroba a prova di… dottrina sociale della Chiesa – però, non è neanche così difficile come può sembrare!

15 risposte a "Cinque consigli per un guardaroba più etico, per sentirsi meno in colpa quando si va a far shopping"

    1. Laura

      Io più che altro avevo sentito (ed era stato anche dimostrato, se non erro) che i vestiti che finivano nei loro bidoni gialli, poi finivano nei mercati come fossero nuovi…

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      1. Lucia

        Oh! Tu ti ricordi che finivano nei mercati venduti come nuovo?
        Il “come nuovo” mi manca, e se fosse vero è molto grave, cioè, credo sia al limite della contraffazione… come facevano a vendere come nuovo vestiti palesemente usati e senza cartellino? Fabbricavano un cartellino falso col marchio del brand e glielo attaccavano?
        Se è così è piuttosto grave, concordo; io avevo sentito (ma di sfuggita, senza seguire particolarmente la vicenda) che la gente si lamentava perché i vestiti finiti nei bidoni gialli venivano poi rivenduti sul mercato punto e basta (e io davo per scontato che ci finissero come second hand).

        Se ci finivano come nuovi, è grave; se ci finivano come abiti usati secondo me è un po’ un falso problema, nel senso… ok, posso capire che sia galvanizzante pensare che in questo momento la tua vecchia maglietta copre le nude membra di una bambina africana, ma una volta che hai donato i vestiti, che ti importa di quello che ne viene fatto?
        Per quanto mi riguarda, se Humana (o qualsiasi altra associazione benefica) seleziona i capi, mettendo da parte i più belli per destinarli al mercato dell’usato qui in Italia, utilizzando i proventi delle vendite per mantenersi, e/o donando i capi a mercatali in difficoltà economiche, io personalmente non ho problemi.
        Basta che me lo dicano prima (cioè: basta che non dichiarino “il 100% dei capi andrà in Africa”, anche solo per una questione di trasparenza nei confronti di me che dono), ma a parte quello non vedo problemi.
        L’unico problema che potrei effettivamente pormi è: ok, ma il mercatale a cui Humana regala i miei vestiti usati, emette regolare scontrino o sta commerciando eludendo il fisco? Ecco, questa è l’unica preoccupazione che potrei condividere, il resto non mi turba.

        Certo, se tu invece hai letto che Humana li rivendeva sul mercato come nuovi, allora sì è grave (ma come faceva??).

        Poi, se mi dite che Humana è una specie di setta che sottopone i suoi dipendenti a sevizie psicologiche di ogni ordine e grado, ehm…

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        1. Claudia

          Potrebbero essere venduti come nuovi i vestiti effettivamente donati con ancora il cartellino attaccato. E ce ne sono! Se si considerano anche i negozi che chiudono o buttano merce inutilizzabile. Una volta comprai alcune magliette in un mercatino dell’usato ad 1€ il pezzo ancora con l’etichetta (al negozio circa 20€) perché su questa pila di magliette era caduta della polvere che è andata via al primo lavaggio. Altre volte ho comprato merce con l’etichetta attaccata a pochi euro

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      2. trasparelena

        Humana non so, ma quando vedi al mercato bancarelle di vestiti usati, e chi li vende, mi pare EVIDENTE che i proventi non vanno ad associazioni benefiche ma a beneficio dello stesso venditore.
        Per questo motivo io i vestiti usati (tipicamente quelli della BambinaGrande che le vanno piccoli) li porto ad associazioni che conosco o direttamente alla Caritas (nel mio comune c’è una associazione che li ri-destina sul territorio, per esempio, perchè purtroppo c’è molta richiesta anche qui, adesso…)

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      3. Lucia

        No, beh, certo: quando al mercato c’è un banchetto che vende vestiti usati, è ovvio che i proventi vanno al proprietario del banchetto.
        Ma io intendevo: se Humana (o qualsiasi altra associazione) decide di regalare parte dei vestiti al proprietario del banchetto (presumendo che sia un onesto mercatale in difficoltà economica, che non riesce a procurarsi in autonomia la merce da vendere e quindi la riceve gratis dall’associazione umanitaria, dopodiché va al mercato e la mette in vendita e così si guadagna di che vivere), io non ho problemi. Certo può anche esserci qualcosa che si inceppa nella catena (es. il mercatale può essere disonesto), ma in linea di massima non ho alcun problema con questo tipo di sostegno, anzi.

        Peraltro credo che capiti con una certa frequenza: es. quando vivevo a Pavia c’era al mercato un banchetto che vendeva spessissimo abiti usati rietichettati come second hand col cartellino della British Heart Foundation, che ho scoperto essere un’associazione caritativa inglese che, fra le altre cose, si mantiene anche con la vendita di abbigliamento usato. Escludendo che il signore pavese andasse regolarmente in Inghilterra a svaligiare i magazzini della British Heart Foundation, ho sempre dato per scontato che l’associazione destinasse parte dell’invenduto a commercianti bisognosi di aiuto, e che il signore pavese, per chissà quale strana via, ricevesse sostegno da quella specifica associazione. E se così fosse, ben venga, per come la vedo io! Peraltro quello specifico signore faceva sempre regolare scontrino etc., era un commerciante a tutti gli effetti 🙂

        Poi in realtà nemmeno io dono i miei vestiti ad Humana (conosco direttamente un paio di realtà locali che distribuiscono vestiti sul territorio e hanno sempre bisogno, quindi li porto lì). Nei bidoni lungo la strada (ma non di Humana, di un’altra associazione che opera qui a Torino e di cui adesso non ricordo il nome) in genere metto solo i vestiti da buttare, cioè quelli non riutilizzabili, perché questa specifica associazione dice che le vanno bene anche gli stracci (e/o comunque qualsiasi tipo di prodotto tessile, anche rovinato), perché in qualche modo lo riutilizza.

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  1. Elena Sidoli

    da knitter e uncinettatrice seriale posso dire che quello che si trova online è millemila volte meglio di qualsiasi rivista? primi fra tutti i video che fanno vedere certi tipi di lavorazioni,e poi infiniti modelli
    posso fornire link a go-go se servono (no, non mi pagano)

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    1. Lucia

      >.>
      A me personalmente non servono (sigh!) nel senso che non ho mai imparato né a lavorare a maglia né all’uncinetto, e ho come l’impressione che ormai (a trent’anni e con poco tempo libero per fare pratica) sia troppo tardi per partire da zero sperando di acquisire una manualità e una velocità decente.
      (Tu che dici? Secondo me è troppo tardi. Peraltro da bambina avevo anche provato con i classici primi lavoretti, ma già lì si era visto che non era my pair of shoes, come dicono gli Inglesi).

      Però cucio discretamente! E’ da anni che mi dico che prima o poi vorrò frequentare un serio corso di taglio e cucito per migliorare, ma ovviamente tra una cosa e l’altra non se ne fa mai niente… però, sì, ho deciso che punterò tutto su quello 😛

      Purtuttavia, se hai qualche link meritevole per schemi di maglioni all’uncinetto (non ai ferri), mi darai uno strumento in più per sfruttare la forza-lavoro di mia mamma ;-P ;-P

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      1. trasparelena

        Posto che secondo me non è mai troppo tardi per cimentarsi nell’uncinetto o nella maglia io mi trovo benissimo con questo sito http://www.garnstudio.com/home.php?cid=4 dove ci sono migliaia di modelli gratuiti sia all’uncinetto che a maglia sia per adulto che per bimbi.
        Vendono anche i filati, ma io quasi sempre (o comunque quando riesco) riciclo quello di vecchi maglioni che disfiamo, per cui l’e-shop non l’ho mai provato
        I modelli però sono davvero precisi e ben spiegati, e ci sono anche ottimi video a supporto

        Per il cucito ti invidio, a me non piace proprio!

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  2. lewismask

    Grazie mille per l’articolo!
    Ammetto che fino ad adesso ho sempre cercato di mettere a tacere i miei dubbi etici sui vestiti perché trovare abiti che mi piacciano, mi stiano bene e siano anche decenti è un’impresa e non volevo “complicarmi ulteriormente la vita” limitando il numero dei brand da cui comprare, però è qualcosa che va fatto.
    Per fortuna sembra che una delle mie Marche preferite sia anche rispettosa dei diritti dei lavoratori: compro spesso da Brooks Brothers, fa abiti molto belli, decorosi e sul sito afferma aderire al California Transparency in Supply Chains Act of 2010 e quindi di avere una politica di rispetto dei diritti dei lavoratori. non avendo trovato nessun articolo su internet che colleghi la marca a fabbriche fatiscenti o lavoratori sfruttati ho deciso per ora di fidarmi di quanto affermano.
    Tra le marche fair trade che mi piacciono ci sono anche People Tree e Amour Vert.
    Grazie per i tuoi articoli!
    Valeria

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