Un anno dopo la mia #FashionRevolution

Esattamente un anno fa, davo la mia adesione, con questo post, alla Fashion Revolution. Se non avete idea di che cosa stia parlando, andatevi a leggere l’articolo incriminato, ché il discorso è lungo e complesso, e facciamo senz’altro prima. Un riassunto molto sintetico per chi non ha voglia di pigiare sul link: la Fashion Revolution è un movimento internazionale che vuole combattere quella che è una vera e propria schiavitù di ritorno, particolarmente viva nel mondo della moda.
Avete presente le magliettine da 3 euro al pezzo che troviamo nei grandi magazzini, confezionate in chissà quali condizioni di miseria per poter mantenere il prezzo così basso? Avete presente il continuo avvicendarsi sulle vetrine dei marchi low cost di modelli sempre nuovi, sfornati a cadenza bisettimanale e con chissà quanti sprechi e quante lacrime e sangue alle loro spalle?
Ecco: tutte queste belle cose, la Fashion Revolution vuole combatterle.
Il problema del “Made in China” (e quindi, dei lavoratori sottopagati nelle aree povere del mondo per permettere a noi ricchi di riempirci casa con roba superflua, epperò a prezzo stracciato) riguarda, purtroppo, moltissimi settori produttivi. Diciamo che quello del fashion mi tocca in modo particolare, perché… beh… un guardaroba sei stagioni pieno di vestitini bellini è un lusso superfluo, una vanteria vezzosa; è vanità, non bisogno. E io – da sempre così attenta a ciò che si trasmette di sè con la scelta dei propri abiti – non me la sento proprio di misurare la “cristianità” del mio guardaroba usando come unica dirimente i centimetri di pelle scoperta. Se uno schiavo bambino muore di cancro in Pakistan per tingere, in condizioni non protette, la mia accollatissima e castissima maglietta nuova a soli € 2,99… allora no, non ci sto. Quella maglietta non entrerà nel mio guardaroba.

Sarà ormai da un paio d’annetti che, comprando i miei vestiti, cerco sempre di dedicare un occhio di riguardo al “come” e al “dove” il mio capo è stato prodotto. Oggi, però, non ho intenzione di fornire consigli operativi a chi volesse intraprendere la mia stessa strada: più che altro, trovo interessante approfondire il modo in cui la mia vita di consumatrice è cambiata dal giorno della Grande Scelta.

Sono stata oggetto di parecchie critiche online, soprattutto dopo che una mia amica, convinta di far cosa gradita, ha spammato più o meno in ogni dove questo mio post con consigli per gli acquisti. Sono stata ricoperta da un’ondata di contumelie, anche molto divertenti e bizzarre, sulla linea di “radical-chic comunista arricchita”. È un po’ lo stesso atteggiamento mentale che ho notato, qualche giorno fa, nei commenti allo status con cui le Edizioni Piemme annunciavano su Facebook la pubblicazione di un libro dedicato proprio a questo tema. Se molti utenti comprendevano il nocciolo del discorso e molti altri, seppur da posizioni critiche, ponevano osservazioni degne di interesse (tipo la signora che faceva notare: “il discorso però dovrebbe essere più ampio: sono i nostri stipendi low cost che ci costringono a comprare low cost volenti o nolenti”), nella stessa pagina fioccavano commenti di ben altro tenore. “Ridicoli”, “vamp griffate che vivono fuori dal mondo”, “vorrei vedere voi col mio stipendio”, “per cortesia abbindolate qualcun altro perché io non ci casco”.
Lo trovo un dato estremamente significativo, perché mi pare indubitabile che sul tema vi sia un problema di comunicazione, come se non si riuscisse a far intendere che questa scelta di azione è motivata, il più delle volte, da una questione di etica e morale. Persino di fronte a un pubblico (come quello che legge il mio blog o i libri Piemme) che, di per sé, non dovrebbe essere poco avvezzo a boicottaggi e obiezioni di coscienza in vista d’un bene morale, non ci si riesce a spiegare.
Temo che tutti noi si stia adottando una strategia comunicativa evidentemente inefficace, e questa cosa andrebbe rivista. Per capire quali sono le motivazioni che spingono me a compiere certe scelte: di nuovo, leggete qui il mio papiello d’un anno fa.

Non ho speso poi così tanto! Comprare etico, evidentemente, ha un suo certo costo. Non così alto come potreste pensare (ci sono brand che mantengono prezzi grossomodo in linea con quelli di Zara)… però, indubitabilmente, a comprare low cost si risparmia. (E grazie al cavolo).
E allora qual è il mio segreto per comprare bene senza sbancarmi?
Fondamentalmente: comprare poco, comprare meglio, comprare in saldo, comprare agli outlet. Non solo in quelli fisici, ma anche in quelli online, che ormai ho testato e stra-testato fino al punto di consigliarveli a cuor leggero. Privalia, Saldiprivati e Vente Privee sono quelli che conosco io: lì si fanno spesso affari veri, con sconti reali (ho controllato!) fino al 70%.
In questo istante, per dire, è attiva su Saldiprivati una svendita della Timberland, un’azienda con un codice etico che lèvate… e prezzi a partire da 32 euro per un paio di sneakers, se sapete dove comprare.

Ci ho speso bei soldi, comunque, sentendomi anche scema. Perché magari non sempre ti capita di poter fare l’affarone in saldo, e, nell’urgenza di quella certa maglietta nera, ti senti anche un po’ scema a comprarne una a 30 euro se sai benissimo che da H&M la potresti trovare a 5.
Il che, sotto sotto, è paradossalmente una bellissima cosa: perché, ferita su quanto hai di più caro al mondo (ovvero, sul portafoglio), compri solo quello che ti serve. E, prima di toglierti uno sfizio, ci pensi non una, ma dieci volte.

(C’è anche da fare un’altra considerazione, se mi permettete. È ovvio che se tu mi scuci 30, 40, 50 euro per un vestito, non puoi vendermi ‘na ciofeca che si slabbra dopo un mese e mezzo – come, in un paio di occasioni, m’è tristemente capitato con vestiti di Mango e Camaieu, che non mi son durati manco una stagione. Non posso fare valutazioni sulla durata nel lungo periodo dei miei “nuovi” capi etici, perché è da relativamente poco tempo che li indosso; ma posso assicurarvi che, dopo due anni, sono ancora come nuovi. Insomma, soldi ben spesi).

Ho cominciato a comprare con criterio, sempre per il simpatico concetto di cui sopra: se spendi 20, 30, 40 euro a capo, o sei miliardaria per davvero, o devi fare una selezione.
Il vecchio “wow, fantastica la stampa a fiori di questa giacchetta: compriamola subito, così particolare quando la ritrovo?” è diventato “ok, mi serve una giacchetta: di che colore mi conviene prenderla, perché si possa abbinare ai vestiti già ho già?”.

Ho cominciato a considerare i miei capi come un qualcosa che auspicabilmente mi durerà per parecchi anni, invece di dar per scontato che di qui a poche stagioni saranno da buttare, e/o che, nel caso, li cederei alla Caritas a cuor leggero se mi rendessi conto che non li uso più.
Ai capi stretti come un guanto che cominciano a tirare se solo prendi due chili, sto preferendo dei tagli un po’ più morbidi, ché non si sa mai (soprattutto se compro a prezzo pieno, e non all’outlet di turno, giusto per ottimizzar la spesa).
Alle stampe giovanili, tipo la borsetta con Topolino, sto preferendo motivi più discreti: ché se Topolino mi diverte adesso, magari a quarant’anni no.
Non sono mai stata una che segue le mode, ma, ora come ora, eviterei di spendere soldi in capi che non abbiano un taglio senza tempo. I pantapalazzo, per quanto ne so, potrebbero balzare all’occhio come vistosamente strani nell’arco di due-tre anni; un pantalone dal taglio classico, invece, lo puoi sfruttare a vita.

Mi sono resa conto che, porca miseria, sto meglio e mi vesto meglio. Eshakti, di cui ho già parlato e parlerò ancora, è il caso più eclatante: se ti fai fare vestiti su misura da una sarta, è ovvio che l’abito ti starà divinamente bene. Ma anche senza arrivare a questi estremi: oh, ragazzi, la qualità superiore c’è, e si vede!
Le cuciture non tirano, la maglina non si slabbra, le stoffe cadono bene, le T-shirt non stingono in lavatrice scolorendosi. Erano difetti minimi che non notavo, prima, (e sui cui, tutto sommato, si potrebbe anche sorvolare), ma che adesso mi balzano all’occhio se faccio il confronto tra “vecchio” e “nuovo” guardaroba. Per l’appunto: la qualità superiore c’è, e si vede.

Ho smesso di usare lo shopping come passatempo, e questo è forse il risultato di cui vado più fiera. Se sai già che non ti va di spendere soldi da Mango o Zara, non ti viene manco la curiosità di entrarci “per vedere che novità ci sono”. Quello che prima per me era un’attività ricreativa (“sono uscita dal lavoro, voglio staccare, mi svago un po’ guardando le vetrine”), adesso è diventata una passeggiata senza scopo, così inutile che manco mi viene più in mente di farla.
(Mi piacerebbe dire che, in tal modo, ho risparmiato molto. La dura verità è che, adesso, se voglio svagarmi dopo il lavoro, butto soldi alla Feltrinelli. Ma voglio illudermi che questo accresca la mia crescita culturale).

Ho cominciato a ragionare come una donna d’altri tempi, di quelle che rammendavano i calzini invece di gettarli al primo buco, e che, se c’era da mettere mano a un capo rovinato o fuori moda, erano in grado di farlo. Insomma, è cambiato in generale il mio approccio al vestire, che si è svincolato da quello di una trentenne cresciuta a suon di Zara ed H&M, per virare verso quello di una donna anni ’50 abituata a comprare bene, a lottare per far quadrare i conti, a ottimizzare quanto già ha. Alla faccia della “vamp griffata”: semmai, mi sto involvendo (…evolvendo?) in angelo del focolare, sempre lì con ago e filo in mano per riparare questo e quest’altro e sistemarsi il vestitino buono per la domenica.
E forse, in effetti, è proprio verso questa strada che dovrebbe vertere la campagna di comunicazione della Fashion Revolution, per risultare più genuina e per catturare i più diffidenti.

4 risposte a "Un anno dopo la mia #FashionRevolution"

  1. Michele

    Per fortuna in Italia c’è chi prende in considerazione questo tema. Non sono una donna (nemmeno una santa!)… ma sono un uomo che sa apprezzare questi discorsi, e soprattutto stimo tanto le donne che trovano un certo gusto nel parlarne. Ricordo di aver commentato altri tuoi articoli sulla modest fashion. Potresti seriamente dare il via a un blog o pagina Fb sull’argomento!

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  2. claudia

    Mi fa piacere aver trovato finalmente un blog che parli di moda etica. Il discorso del costo del vestito è relativo. Mia madre e mia nonna (che non erano esattamente benestanti) non avrebbero mai comprato uno “straccio” come lo chiamavano loro. Un capo anche di discreta qualità che durasse e “vestisse” nel tempo era un piccolo investimento di economia domestica. Nel mio piccolo, quando ho avuto una limitata disponibilità economica, ho scoperto il mercatino dell’usato. Con 4 € comprai un vestito di un noto marchio (non so se le regole del blog mi permettono di dire le marche) in ottime condizioni e tutti mi facevano i complimenti per quanto era carino. Comprai un cappotto con 50 € di un’altra griffe che al negozio costava 400€, ovviamente in ottimo stato. In questo modo si ha anche un riciclo ecologico dei vestiti (l’industria dell’abbigliamento è al secondo posto come tasso di inquinamento dopo quella petrolifera).

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  3. Pingback: Ecco perché il tema della moda etica dovrebbe interessare soprattutto i credenti (secondo me) – Una penna spuntata

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