La società mono-tono degli oggetti in tinta unita

Una delle mie recenti passioni è un immotivato interesse per la Storia del Colore.
Che, messo così, sembra un ambito di ricerca incredibilmente settoriale (e seguito da pochissimi fissati) – e invece, le biblioteche sono piene di saggi di tutto rispetto dedicati alla questione.

Uno tra i tanti è Cromorama di Riccardo Falcinelli, un interessante excursus di 500 pagine – a metà tra la Storia, l’Ottica e la Sociologia – dedicato a Come il colore ha cambiato il nostro sguardo col passar dei secoli.
Una delle osservazioni più sorprendenti (ma più vere!) di questo volumone è la seguente: la nostra società moderna ha inventato (e, soprattutto, trasformato in norma) il colore in tinta unita.

Probabilmente mi prenderete per matta, ma la considerazione è vera.
Se ci guardiamo attorno, dobbiamo ammettere a noi stessi che il colore in tinta unita non è la norma, in natura. Se escludiamo il cielo terso in certe giornate di sole splendente e se escludiamo i petali di alcuni fiori, ben di rado la natura ci offre allo sguardo distese di colore perfettamente uniformi. Il mare, i campi di grano, la neve, la pelle del corpo umano: non sono in tinta unita. Presentano molteplici sfumature di colore.

E invece, facciamo l’esperimento: provate a guardarvi attorno nella stanza in cui siete ora. Scommetto che la maggior parte degli oggetti che vedete sono dipinti in blocchi unici di colore, senza “se” e “ma”.
Per quanto mi riguarda, gli unici oggetti che, attorno a me, presentano sfumature di colore sono il piano in legno rustico della scrivania (e la mia lampada da tavolo, che mi rendo conto in questo momento esser sfumata di grigio per il semplice fatto che dovrei decisamente darle una spolverata). Per il resto, tutto ciò che di artificiale mi circonda è decisamente “in tinta unita”. Persino il maglione in pile con stampa a fiori che sto indossando in questo momento è dato dalla sovrapposizione di fiori rosa, in tinta unita, su sfondo nero in tinta unita – ma sono macchie di colore su altro colore, non sfumature come sarebbe la norma in natura.

***

Nel mondo antico, spiega Falcinelli (e non ci va una scienza ad arrivarci), produrre artificialmente coloranti in grado di tingere in tinta unita era una mission impossible, nella maggior parte dei casi. Ben difficile, anticamente, riuscire a tingere una stoffa, un quadro, un balocco, con una tinta in grado di conferirgli un colore unico, perfettamente omogeneo, senza profondità e senza sfumature.
E non va una scienza neppure per capire che l’industria moderna – con la sua produzione in serie e con i suoi coloranti chimici molto più efficaci – è invece in grado di riuscire con buon successo là dove i nostri antenati dovevano miseramente arrendersi.

Però, la possibilità tecnica di tingere in tinta unita non spiega l’egemonia assoluta che ha la tinta unita ai nostri giorni: se gli oggetti in tinta unita vanno così di moda, è perché rientrano nel gusto moderno. E, diciamocelo pure: se gli oggetti non in tinta unita vanno così poco di moda, è perché tendiamo istintivamente a guardarli con un po’ di sospetto.

La Coloreria Grey vende bene perché noi siamo profondamente a disagio nell’indossare quella camicetta nera ormai colorita per i lavaggi, che sa di “vecchio” e “usato”. Gli unici casi in cui apprezziamo ombreggiature e toni sfumati è quanto siamo esplicitamente alla ricerca di un effetto finto-antico (meglio ancora se veniamo rassicurati che quell’effetto è per l’appunto finto: creato ad arte in un asettico capannone industriale). Pensiamo anche solo alla moda dei mobili sgarruppati in stile shabby chic. Siamo disposti a pagarli a caro prezzo da Maison du Monde (mentre guardiamo già con maggior sospetto quella vecchia credenza rimasta in soffitta per cinquant’anni); li apprezziamo in un contesto familiare, meglio ancora se in una casa di campagna, ma inorridiremmo nel trovarceli davanti nella nostra stanza d’ospedale. O anche solo nell’aula scolastica dei nostri figli, o in ufficio.

Allo stesso modo, una parete un po’ ombreggiata dagli anni, o peggio ancora con l’intonaco “cotto” dal calore che sale dai termosifoni, ci fa orrore e ribrezzo peggio di un cartello dei NAS con la scritta “questa casa è zozza”.
Che poi, magari, invece è pulitissima. Un edificio può essere perfettamente igienico e salutare anche se le sue imposte sono tutte scolorite dal battere del sole e le ringhiere dei balconi sono state scrostate dalla salsedine. Eppure, noi tendiamo istintivamente ad associare il concetto di “sporco” e di “poco sano” a tutto ciò che non presenta superfici perfettamente uniformi.

L’igiene, la regolarità, lo standard sono alcuni dei pilastri su cui è basata la società moderna

argomenta Falcinelli nel suo libro, definendole “forme di controllo” dalla retorica potentissima, perché equiparate in sé e per sé alle magnifiche sorti del progresso.

Si tratta di una storia iniziata centocinquant’anni fa. Contro i vestiti logori e stinti del mondo contadino, contro i muri a calce delle case più povere, la cultura ottocentesca propone alle classi emergenti della piccola e media borghesia un modello alternativo, dove l’ordine è centrale.
In questo universo – raccontato come progressivo ed esteticamente inedito – le logiche del mercato invitano a buttare quello che è vecchio sostituendolo con qualcosa di nuovo. Il rinnovamento è un concetto incontestabile e chiunque vi si opponga viene bollato come reazionario.

Anche perché, in quello stesso periodo storico, con l’avanzare della scienza medica, comincia (vivaddio!) a passare il concetto che la sporcizia e la scarsa igiene domestica sono pericolose per la salute.

In breve lo sporco, il vecchio e il rovinato – che sono di fatto tre concetti distinti – finiscono per equivalersi, condividendo una medesima condanna morale. Se si vuole essere moderni, si deve ambire al nuovo e al pulito.
Eppure, se ci ragioniamo bene, è in parte un inganno: tutte le cose si rovinano e sporcano, è inevitabile; ma prima dell’Ottocento non se n’era mai fatto un dramma. È stata l’industrializzazione a metterci sotto il naso la caducità delle cose inanimate, suscitando quella nevrosi sottile e diffusa che da un piatto sbeccato o da una carrozzeria graffiata fa emergere la coscienza che tutto può morire.

La nostra macchina, ad esempio, ce li ha, alcuni inevitabili graffietti sulla carrozzeria – e vado molto fiera dell’avere un marito sufficientemente uomo da non pensare che una minuscola macchietta possa svilirlo come persona.
E io, del resto, sto per mangiarmi un risotto all’interno di un piatto leggermente sbeccato di un servizio ormai spaiato.
Qualcuno magari inorridirebbe, e lo capisco. Ma io – che, come dico spesso, sono una donna d’altri tempi finita nel nuovo millennio per un drammatico scherzo del Fato – sono invece ben lieta della mia quieta, (sfumata?), naturale normalità.

19 risposte a "La società mono-tono degli oggetti in tinta unita"

  1. marinz

    il “rustico” secondo me da qualcosa di speciale alla quotidianità… è vero ora tutto è uniforme e piatto mentre una volta era tutto un susseguirsi di sfumature… bisognerebbe tornare un po’ alle origini per riscoprire i “sapori” veri del passato e non guardare sempre ad avere il “nuovo” buttando magari qualcosa che si può ancora usa ma è “passato di moda”

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    1. Lucia

      Eh sì.
      Penso anche solo all’arredamento – l’esempio mi viene dal fatto che sono membro di un gruppo Facebook dedicato all’arredamento e all’interior design, in cui la gente pubblica le foto di casa sua chiedendo un parere su come migliorare l’estetica della stanza e bla bla bla, e gli altri danno i loro spunti.
      ‘ste case, alla fin fine, grossomodo son tutte uguali. E non è questione di comprare tutti quanti il Billy dell’Ikea o la parete attrezzata di Mondo Convenienza per andare al risparmio. Anche lo stesso mobile, in contesti diversi, può “apparire” in modo tutto differente – invece a me sembra proprio che, gira e rigira, ‘ste case siano tutte quante uguali.
      Le stesse cucine bianche shabby chic che vorrebbero essere rustiche ma alla fine son fatte in serie. Le stesse pareti verniciate con colori chiari, gli stessi quadri di paesaggi sulla testiera del letto, la stessa disposizione dei mobili nella stanza, persino gli stessi identici elettrodomestici per la cucina dello stesso identico colore che va di moda.

      Per carità, le mode sono tali proprio perché “vanno di moda”, e questo è probabilmente il tipico modello di casa anni ’10, fatto in serie non meno delle case anni ’70 che adesso ci piacciono tanto nelle fiction.

      Però sì, è un po’ tutto fatto in serie e con lo stampino.
      Probabilmente, la possibilità di buttare via ciò che “è vecchio” sostituendolo con un oggetto nuovo e low-cost ha reso le mode… particolarmente invasive, diciamo così!

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  2. Laurie

    Ho cominciato a pensare alle sfumature quando, molti anni or sono, mi hanno regalato un libro, la cui protagonista è una tessitrice di tappeti di una tribù nomade della Persia alla fine dell’ ‘800. Il romanzo è “Anahita e l’enigma del tappeto” di Meghan Nuttal Sayres. Non so quanto sia storicamente accurato, soprattutto nella psicologa dei personaggi, ma è stata una lettura piacevole. Anahita (la protagonista) è una vera artista, che parte dalla tosatura delle pecore del gregge della sua famiglia e finisce con la tessitura, passando per la filatura e la tintura dei filati: il mastro tintore della tribù è suo zio, ma lei insiste per farsi insegnare i segreti della tintura della lana con i pigmenti naturali (della tradizione della sua tribù), dice che conferiscono ai filati un carattere particolare, vivo, con le sfumature che inevitabilmente prende la lana (che hanno anche un nome in farsi: “abrash”) e inveisce contro le nuove tinture sintetiche che stanno iniziando a diffondersi perchè sono piatte… Da quel momento ho iniziato ad osservare con attenzione tutti i tappeti che mi capitavano e devo dire che concordo con Anahita!
    p.s. anch’io mi sento un po’ una donna d’altri tempi…

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  3. Claudia

    Io mi chiedo quanto paghiamo, in termini di inquinamento, per le tinture perfette. So che non possiamo tornare alla porpora fatta con le conchiglie, ma qualcosa di meno tossico….un giorno ho portato mio figlio di sei anni dal medico perché si era ricoperto di bolle su tutto il busto. Pensavo che, nonostante i vaccini, avesse preso una malattia esantematica. Il medico mi disse che era un’irritazione dovuta alla tintura della sua maglietta di un bel colore rosso e mi diceva che non era un caso raro.

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    1. Lucia

      Io questa storia tendo a prenderla un po’ con le pinze perché ha alcuni elementi da leggenda metropolitana, ma ecco come mi è stata raccontata: il fratello di un signore di mia conoscenza riceve improvvisamente la telefonata con cui la moglie lo avvisa di aver avuto un leggero incidente e di essere ricoverata. Il marito stacca dal lavoro, si precipita in ospedale, e strada facendo compra al mercato una camicia da notte per la malata, che la donna indossa subito (dunque senza manco lavarla).
      Poco tempo dopo i medici portano la donna in radiologia per farle dei raggi, e la macchina non funziona. Invece di restituire una immagine decente, restituisce tutta una roba sfocata che non si capisce perché. Dopo un po’ il medico ha una idea e chiede alla signora di togliersi la camicia da notte e indossare un camice da ospedale: e la radiografia riesce perfettamente.
      Apparentemente, “qualcosa” sul tessuto della camicia da notte (o a livello di coloranti, o a livello di… boh? Sporcizia e resti di produzione, che non erano neppure stati lavati via in lavatrice) interferiva col macchinario impedendogli di lavorare a dovere.
      Se è una storia vera, c’è di che inquietarsi…

      Detto ciò: come sapete, mi interesso di moda etica (il che spesso va a braccetto con “moda bio” etc). In una intervista, Marina Spadafora (ideatrice e designer della collezione Auteurs du Monde in vendita presso i negozi Altromercato) diceva che l’organo più grande del nostro corpo è la pelle, ed è davvero sorprendente secondo lei la facilità con cui lo facciamo venire a contatto, senza manco porci delle domande, con sostanze potenzialmente dannose.
      Io, dal canto mio, sono rimasta estefferatta quando quest’estate ho volutamente comprato una magliettina nera da poco, a 2 euro, al mercato, perché ero in vacanza al mare per dieci giorni e mi ero dimenticata di mettere in valigia la T-Shirt nera senza la quale non potevo indossare le gonne che invece m’ero portata dietro. Vabbeh: comprata ‘sta magliettina da poco di recupero, e se mi si distrugge dopo pochi lavaggi pace così.

      O.o

      Non solo, quando la ho messa a mollo per il primo lavaggio a mano d’ordinanza, ha scolorito così tanto da lasciarmi l’acqua completamente NERA e da lasciarmi persino aloni scuri nel lavandino (!!).
      Ha continuato a perdere colore, lavaggio dopo lavaggio, per tutti i giorni della vacanza – non in modo così marcato come la prima volta, ma ‘nsomma.
      E onestamente la cosa mi ha inquietata non poco: se ‘sto coso perde coloranti chimici mentre è in acqua, chissà cosa ha fatto assorbire alla mia pelle (oltretutto d’estate,col sudore e tutto) mentre la indossavo.

      L’avevo presa andando volutamente al risparmio, e volutamente dopo quella vacanza l’ho destinata a straccio per casa, però cavolo… inquietante sì!

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    1. Lucia

      “Poco spendi poco vale”, secondo me, in certi settori ormai non è neanche più veritiero. Mi vengono in mente certi miei vestitacci in poliestere che ho comprato quando ero al ginnasio e che resistono ostinatamente nei miei attaccapanni, nonostante macchie, lavaggi ripetuti e quant’altro. Valgono poco eh, però che buon servizio mi hanno fatto.

      Esempio due: ho uno scatolino per portare il pranzo in ufficio che avevo comprato per 1 euro e 99 all’Ikea quando ho iniziato a lavorare per la prima volta cioè nel 2013 e che è ancora perfettamente integro e funzionale come se l’avessi appena messo nel carrello, a differenza della non economica bento box comprata alla Rinascente sotto Natale e che adesso ha già una crepa dopo essere scivolata una volta giù dalla scrivania >.>

      Secondo me con i nuovi materiali non è nemmeno più così tanto vero che “poco spendi poco vale”, quantomeno per chi compra, ma se il valore di oggetto si misura (come io fortemente credo) anche in base alla storia che può raccontare, alle condizioni di lavoro di chi l’ha creato, alla sua qualità oggettiva (e penso ad esempio a vestiti, cibi, etc)… allora sì. Solo che forse oggi è un po’ meno immediato rendersene conto.

      P.S. URL curioso 😉

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  4. Claudia

    Degli oggetti paghiamo molto il logo e l’essere di moda. Io sono molto rompiscatole guardo le etichette per vedere materiale lavaggio, luogo di fabbricazione ecc. In un grande magazzino ho visto un vestito della Liu Jo (400€) modello fit & flare ed era 100% poliestere. Pochi metri c’era un vestito “anonimo” identico modello, stampa floreale molto simile e 100% poliestere a 40 €!

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    1. Lucia

      Leggo e rispondo in leggero ritardo, ma: eh.

      Ché poi, in linea teorica, io non disdegno a priori l’idea di pagare il marchio. Se tu sei un marchio di lusso, mi sta pure bene che tu decida di operare un leggero rincaro sui prezzi al solo scopo di rendere più attraente il prodotto a chi smania per avere un prodotto “esclusivo”. Alla fin fine è una strategia di marketing.

      Però, sì, sarebbe auspicabile che il consumatore si rendesse conto che, molto spesso, quando paga “il marchio”, sta pagando proprio solo l’illusione di star comprando un prodotto di alta qualità. Basta anche solo pensare agli outlet che svendono prodotti di lusso a prezzi ultra-dimezzati… di fronte a certi cartellini, a rigor di logica, dovremmo pensare che o la ditta è sull’orlo del tracollo… o che era un tantinello esagerata nel fissare i prezzi prima dei saldi 😉

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  5. blogdibarbara

    Nei trent’anni e passa in cui, essendo imbiancata molto presto, ho tinto i capelli, facevo la tinta da me, e non passavo il pennello ciocca per ciocca come fa il parrucchiere, bensì me la sparpagliavo con le mani, come si fa con lo sciampo, per non avere quel terribile colore tutto uniforme che, oltre a essere proprio brutto, denuncia la chioma tinta lontano un chilometro, e avevo il piacere di vedermi tutte le sfumature che hanno i capelli naturali.
    PS: raggi con la camicia da notte addosso?! Ma quando mai! Se non è una bufala questa non so davvero cos’altro lo sia. Con l’aggiunta del marito che correndo all’ospedale si ferma al mercato per comprare la camicia da notte…

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    1. Lucia

      Partendo dalla fine e cioè dalla camicia da notte schermata dai raggi X: eh, infatti, anche io ho seri dubbi. Più che altro quella che me lo raccontava si è già mostrata una propagatrice di bufale inconsapevole 😛
      Per dare un po’ più di contesto (sennò sembro scema pure io), l’infortunata non stava lottando tra la vita e la morte dopo un incidente grave, aveva avuto un incidente sul lavoro e c’era il dubbio che si fosse, appunto, rotta qualcosa. In questo contesto, tutto sommato tranquillo, il marito avrebbe trovato il tempo e la serenità mentale di andare a comprare una camicia da notte a un mercatino che effettivamente c’è, vicino a quello specifico ospedale, su richiesta della moglie stessa che gli aveva parlato per telefono.
      Specifico, perché sennò sembrava che ‘sto matto andasse a fare shopping mentre la moglie lottava tra la vita e la morte XD
      Più che altro… i raggi non si fanno con la camicia da notte? In effetti non ho mai fatto una radiografia, adesso che ci penso. Panoramiche dentali, TAC, risonanze magnetiche sì, ma radiografie no. Ti mettono loro un camice apposta?
      Comunque al di là di tutto a me sembra piuttosto esagerato che una camicia da notte non lavata, per quanto di bassa qualità, possa addirittura schermare i raggi X, e che è? Con la kriptonite, l’han tinta? XD

      Quanto ai capelli: è vero, soprattutto anni fa si vedevano certe di quelle cofane inguardabili sulla testa delle ragazzine… proprio piatte e monocolore. Devo dire che ultimamente non ne vedo più in giro, però: deve essere migliorata la qualità, anche nelle tinte da supermercato.
      Io, per coprire i capelli bianchi, mi faccio l’hennè o (se non ho tempo) quelle tinte riflessanti che vanno via pian piano con i lavaggi, quindi in questo senso non ho problemi 😉

      (In compenso, a proposito di capelli, una cosa che proprio non capisco invece è la moda moderna dei capelli vistosamente bicolore con le meches, il degradè e compagnia cantante. Ma anche lì, ogni tanto si vedono in giro donne con dei capelli dai colori innaturalissimi, non è normale in natura avere dieci centimetri abbondanti di ricrescita castana sotto a dei capelli biondi. Sarà pure una moda, ma lo trovo così tanto artificioso…)

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      1. blogdibarbara

        I raggi, a differenza della risonanza, non si fanno neanche con il camice dell’ospedale (io purtroppo sono molto ricca di esperienza in questo campo) (ma anche in tutti i campi limitrofi, se è per quello). Il reggiseno va tolto per via dei gancetti, se hai una canottiera (o, in estate, una canotta, purché rigorosamente priva di bottoni e di qualunque altro ammennicolo) la puoi tenere, altrimenti li fai a torso nudo. Quindi l’aggiunta del camice dell’ospedale con cui la radiografia sarebbe riuscita a differenza della camicia da notte del mercato, è un’ulteriore conferma della bufala. Più precisamente, la signora non ha mai fatto radiografie nella sua vita, perché chi ne ha fatta anche una sola lo sa.
        I capelli bicolore, già, metà blu elettrico e metà fucsia. E ti chiedi cosa possa avere portato certe donne a odiare tanto se stesse. Per non parlare di quelle con un lato completamente rasato e l’altro coi ciuffi che spenzolano giù. Mah. Quando ai capelli bianchi, io ho cominciato a venticinque anni. All’inizio mi piacevano molto perché mi davano luce al viso, ma quando sono stati circa un terzo mi davano un’aria terribilmente sciatta, trasandata, e sembravano sempre sporchi, anche il giorno dopo averli lavati. Così li ho tinti per una trentina abbondante di anni, poi ho deciso che poteva bastare e adesso sfoggio la mia splendida chioma d’argento – sì, vabbè, i miei sedici capelli e mezzo, però uno più splendido dell’altro.

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  6. Celia

    Falcinelli riposa sul mio scaffale in attesa di lettura ❤
    Come l'ho sfogliato tra le novità in biblioteca me ne sono innamorata e l'ho preso subito in prestito 😉
    Ora che mi ci fai pensare, è vero, i tre quarti del nostro mondo sintetico (o forse più) sono in tinta unita… che non mi dispiace ma, in effetti, l'oggetto "vissuto" (ma vissuto realmente) ha uno charme che lèvati.

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    1. Lucia

      Talmente tanto charme che adesso vanno per la maggiore le imitazioni del vissuto, con gli armadi sgarruppati ad arte e i piatti finto-arrugginiti XD
      Sarà che per lavoro sono circondata tutto il tempo da roba vecchia (e pure malconcia e sporca), ma a me fa molto ridere questa nuova moda. Però è pur sempre una moda su cui riflettere…

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