A Torino, le statue di Notre Dame piangono la sua agonia e cantano la sua rinascita

Ero lì, da sola, in quello stanzino nella penombra, a fissare corrucciata quei quattro relitti in croce che avrebbero dovuto raccontarmi qualcosa sul passato di Notre Dame. E io ero lì, faccia a faccia con un volto medievale che riusciva, tutt’al più, a raccontarmi un passato di disgrazie, e, pur con tutta la buona volontà di questo mondo, mi domandavo quale razza di messaggio avrebbe mai potuto trasmettermi, quel vecchio coccio reietto e mutilato.
Poi, d’un tratto, la stanza è sprofondata nel buio, e le campane di Notre Dame hanno risuonato forti e chiare. E il volto che fissavo ha cominciato a parlare.
Si è presentato, m’ha detto di essere un angelo, cui originariamente era stato dato il compito di accompagnare san Denis. Ma poi, le cose hanno cominciato ad andare drammaticamente male: ed eccolo qui, mutilato e abbrutito davanti ai miei occhi, quell’angelo che intanto, nostalgicamente, ricordava i fasti e le disgrazie della cattedrale di Notre Dame.

Non è un sogno, eh.
È un’esperienza che ho vissuto davvero e che potrete facilmente sperimentare anche voi, se, da qui al 30 settembre, avrete modo di fare un salto alla mostra Notre-Dame de Paris allestita nel centralissimo Palazzo Madama, a Torino.

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Che poi, con rispetto parlando, penso di non andare lontana dal vero se dico che questa piccola mostra era nata con la consapevolezza che si sarebbe svolta un po’ in sordina. Alla fin fine, i reperti occupano a stento una saletta, e (sempre con rispetto, eh) son malconci da far paura. Si tratta di quattro teste mezze maciullate, appartenute un tempo ad altrettante sculture gotiche che decoravano i portali della facciata di Notre Dame. Rimosse a colpi di martello tra il 1793 e il 1794 su ordine del Comité revolutionnaire de la Section de la Cité, perché considerate simbolo della monarchia, della religione e dell’oppressione dei poteri forti sul popolo, le statue di Notre Dame cadono a decine e vengono poi abbandonate sul sagrato della chiesa, in uno scempio di fronte al quale, francamente, l’incendio della settimana scorsa sembra robetta da nulla. Cedute a impresari edili interessati a reimpiegarle come materiale da costruzione, le statue di Notre Dame concludono così i loro giorni, in miseria, conficcate nel basamento di chissà quale edificio parigino. Dopo tutta la bagarre mediatica che c’è stata in questi giorni, senz’altro non occorre che sia io a sottolineare come molte delle attuali statue “medievali” di Notre Dame siano in realtà copie ottocentesche, riprodotte sulla base di antiche incisioni per colmare i vuoti venutisi a creare durante la Rivoluzione.

Eppure, la Storia ogni tanto sa sorprenderci, con dei coup de théâtre mica da poco. E accade così che, nel 1977, nel corso di imponenti lavori di ristrutturazione allo stabile che ospitava la Banque Française du commerce extérieur, degli stupefatti muratori scoprano, nel basamento dell’edificio, centinaia di frammenti che sembravano proprio essere dei pezzi di monumenti. E infatti lo sono: sono (parte delle) statue rimosse da Notre Dame. Ridotte a frammenti, ormai irrimediabilmente danneggiate, sono più che altro un triste cumulo di macerie… eccezion fatta per quattro volti.
Quattro volti umani malconci da far paura, come impietosamente scrivevo poco fa: eppure, quattro volti. Sopravvissuti, bene o male. In grado di raccontarci la loro storia, con l’aiuto delle pazienti ricerche degli archeologi.

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Oh, regà: la mostra di cui vi parlo è stata inaugurata il 5 aprile, dieci giorni prima dell’incendio.
Ma se non ve lo dicessi io, voi potreste tranquillamente pensare che si tratti di una sorta di instant book preparato a tempo record – perché se vi siete emozionati e commossi di fronte al rogo di Notre Dame, non potrete visitare questa mostra senza dover lottare per ricacciare indietro la lacrimuccia.

Le quattro statue ci parlano, letteralmente, grazie a un allestimento audiovisivo che, col senno di poi, non avrebbe potuto esser creato con più pathos.
Il primo a prendere parola è, giustappunto, l’angelo (custode?) che accompagnava san Denis. Quel volto in pietra deturpato dall’uomo, ma che un tempo doveva risplendere di bellezza celeste, ricorda con palpabile emozione l’orgoglio del momento in cui gli dissero che egli sarebbe stato scolpito con tale compito. E, con angelica imperturbabilità, ripercorre assieme a noi gli eventi che hanno portato i miseri mortali a compiere un tale scempio insensato.

Ancora sdegnato, a distanza di secoli, è il granitico Re Magio, che pur nella distruzione è riuscito a salvaguardare un po’ della sua dignità: la sua corona è quasi intonsa, i suoi capelli vaporosi e pettinati. Il Magio non si capacita della stupidità dei sanculotti, e lo dice più volte nel corso del suo monologo: che senso aveva accanirsi contro di lui, reo soltanto d’essere un Re Magio? Un re, senz’altro; ma senz’altro non imparentato con alcuno dei re di Francia. Eppure, un re. E, come tale, ghigliottinato.

Dolente è il lamento di una statua femminile che sa solo d’esser stata una virtù teologale, ma, a causa dello shock subito, non riesce a ricordarsi quale, e, adesso, non sa più chi è. Conserva invece ben chiara la memoria della sua identità il volto d’uomo barbuto che si presenta a noi come la copia in pietra del figlio dell’architetto di Notre Dame – quel geniale architetto medievale che mai, neppure nei suoi incubi peggiori, avrebbe potuto immaginare un tale scempio, pieno di tanta acredine, contro la creazione che con tanto amore aveva creato.

…e, onestamente: non saprei dire quale scempio sia stato il più doloroso e grave, per la cattedrale parigina. Quello della settimana scorsa ha fatto scalpore perché lo abbiamo seguito in diretta Internet, ma ho l’impressione che se andaste a parlarle con quel Re Magio, lui (rimpiangendo di non avere più le braccia, perché, nel caso, v’avrebbe tirato qualcosa in testa) vi direbbe che quello del 2019, almeno, è stato un incidente (e, oltretutto, meno grave di quanto si profetizzava sui social con crescente angoscia). Quello del 1793, invece, è stato un attacco deliberato causato dalla pochezza umana, quindi poche storie, niente pianti, e tiriamoci su le maniche.
Impressione mia, eh. Ma a me, quel tipo ha dato proprio quest’impressione.

Proprio per questo consiglio a tutti la visione di questa mostra, in questo breve pezzo che non era nemmeno in programma ma che ho avuto voglia di buttar giù su due piedi: si sa mai che, con tutti i “ponti” in arrivo, qualcuno abbia in progetto una gita a Torino.
Perché parlare, dialogare con i cocci delle statue che, un tempo, hanno reso grande Notre Dame, e che, adesso, non sono più, è qualcosa che secondo me ti aiuta a mettere in prospettiva l’incendio della settimana scorsa.
Notre Dame è già morta ed è già rinata. E quelle quattro statue sopravvissute alla distruzione sono lì, per ricordarcelo. E per raccontarcelo.

È la statua che, un tempo, fu l’angelo di san Denis a tenere il filo del discorso e a consegnarci le battute più significative, forte di quell’intelligenza angelica che, nei secoli, deve aver in qualche modo impregnato il sasso. E infatti, mentre la statua che fu una virtù teologale condivide con noi il suo ultimo ricordo – lei che cade giù dal transetto, tra le urla – e geme per la disperazione di non saper più chi è, è l’angelo a interrompere dolcemente il suo pianto: “ma che importa? Adesso, siamo memoria”.

Echi lontani e frammenti scheggiati della gloria di un tempo che fu, benedetti dal privilegio di aver potuto assistere alla rinascita di Notre Dame.
Gli anni sono passati. A Notre Dame e nel mondo la bellezza s’è alternata alla distruzione, e la distruzione è sembrata vincere, salvo esser poi vinta dalla bellezza di nuovo  – e chissà quante altre volte succederà, ancora e ancora. Ma intanto, i nostri quattro amici di pietra sono lì, ricchi del privilegio di aver potuto assistere all’agonia di Notre Dame e poi alla sua rinascita.

E forse il loro compito è proprio quello, spiega l’angelo di san Denis ai suoi compagni di avventura. Essere memoria e testimoni, per ricordare a tutti noi umani “quanta fatica ha fatto sempre l’uomo – e  quanta ne farà sempre – per innalzarsi verso Dio”.

Testa d'Angelo

L’angelo di San Denis (1210-1215 ca.; Photo (C) RMN-Grand Palais, Franck Raux). Nell’immagine di apertura: il Re Magio (1250-1258; Photo (C) RMN-Grand Palais, Michel Urtaldo)

10 risposte a "A Torino, le statue di Notre Dame piangono la sua agonia e cantano la sua rinascita"

  1. Celia

    Pure la guglia era piuttosto recente.
    Non so se è più questo tipo d’ignoranza oppure la corsa agli armamenti (con un preteso piano salva-chiese, al solito immaginato soltanto dopo aver subìto il danno), a lasciarmi di sasso.

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    1. Lucia

      Io, che per ovvie ragioni professionali seguo diverse pagine, anche abbastanza specialistiche, dedicate al Medioevo e ai beni culturali, ho all’attivo anche l’atteggiamento uguale e opposto, che trovo ugualmente curiosissimo: appassionati di Storia e studiosi (!) che schifano qualsiasi elemento non fosse originale, liquidando i danni dell’incendio con un “bah, tanto è stata toccata solo arte neogotica, puah, robaccia”.

      😐

      Eh ma la miseria, povera arte neogotica, pure quella ha una sua dignità, no?
      Io ho apprezzato moltissimo Sgarbi che, nel delirio generalizzato di quel lunedì sera con Notre Dame ancora in fiamma, cercava di calmare gli animi dicendo “comunque per adesso l’incendio sta toccando solo una ricostruzione ottocentesca, la vera arte medievale non è stata toccata”. Questa è una riflessione tranquillizzante, e ha senso; vedere appassionati di storia dell’arte che liquidano il tutto con “puah, eran solo copie”, invece, mi fa un po’ specie.
      Ho come l’impressione che questo incendio abbia fatto riversare su Internet il peggio di tutti noi XD

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    2. Lucia

      E a proposito di guglia, ti dirò: a me non dispiace nemmeno l’idea (di fronte alla quale molti si stanno strappando le vesti) di un progetto innovativo che porti a ricostruire la guglia non come una copia, ma come una struttura nuova.
      Chiaramente deve essere ‘na struttura che non sia un pugno in un occhio col resto dell’edificio, ma, vabbeh, direi che questo potremmo anche darlo per scontato (spero). Ma a me non dispiace il pensiero che, di fronte a un evento così disastroso come il rogo che ha tenuto col fiato sospeso tutto il mondo, anche l’architettura dell’edificio mostri – con discrezione – un “prima” e un “dopo”.

      Ovviamente è necessario che l’insieme sia armonico, ma… perché no? Perché no a priori, insomma. Alla fin fine, le cicatrici servono a raccontare una storia. Un bravo architetto potrebbe riuscire a cavarne qualcosa di bello e di significativo.

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