La Seconda Guerra Mondiale e la polinesificazione delle nostre estati

Qualche tempo fa, su Instagram, ho indetto un sondaggio: ho chiesto ai miei lettori di pensare ad alcune coppie di elementi tipicamente estivi (acqua di cocco / limonata ghiacciata; scogliere rocciose / sabbia dorata) e di indicare quale, secondo loro, corrispondeva di più alla loro idea mentale di estate.
Non sorprendentemente, l’elemento esotico ha avuto la maggior quantità di voti. Per la maggior parte di noi, “estate” è una distesa di palme (non di pini marittimi) e l’abito estivo per eccellenza è la camicia hawaiana (non l’abitino bianco di sangallo).

Esattamente il tipo di risposta che mi aspettavo di ricevere; ma verrebbe da chiedersi perché.
Perché, in una nazione in cui non si coltiva affatto il cocco, noi associamo il cocco all’idea di estate? Perché, in zone in cui buona parte delle coste è composta da sassi e scogliere, paghiamo somme considerevoli per importare sabbia da buttare a terra?
È come se la nostra personale idea di estate si modellasse più sul concetto di “estate alle Seychelles” che sul concetto di “estate italiana”; il che sarebbe anche comprensibile all’epoca dei voli low cost… ma la cosa strana è che pure i nostri nonni, negli anni Cinquanta, volevano il cocco, la sabbia e le palme sul lungomare.
E che incredibile prodigio è mai questo?

Non è un prodigio ma è un dato storico, noto come il fenomeno di polinesificazione delle estati europee. Ne parla bene, e a lungo, Orlav Löfgren nel suo interessante Storia delle vacanze, concludendo che, se noi viviamo l’estate come la viviamo oggi, la causa è… Hitler. O, quantomeno, la Seconda Guerra Mondiale.

***

In fin dei conti, Löfgren parte da una profonda verità: è da mo’ che i turismo balneare esiste in Occidente. È almeno da metà ‘800 che la gente europea va in vacanza al mare. Nella prima metà del ‘900, cominciano pian piano a ritagliarsi qualche giorno in spiaggia anche le famiglie meno benestanti. Ma, all’epoca, le vacanze estive erano fatte di mari, spiagge, stabilimenti molto diversi da quelli odierni: con una allure molto più “europea” e molto meno caraibica, se mi capite. E quindi che caspita succede, nell’arco di pochi anni, per far venire voglia di Caraibi a cittadini europei che comunque ai Caraibi non c’erano mai stati?

Molto facile, dice Löfgren: succede che scoppia la seconda guerra mondiale: una guerra che vede molti soldati statunitensi essere messi di stanza nelle isole Hawai.

Le isole Hawai, fino a quel momento, avevano sì tentato di puntare sul turismo, ma senza risultati particolarmente efficaci. Il primo albergo sulla spiaggia di Waikiki era stato costruito nel 1901, ma prima degli anni del boom ospitava non più di centomila turisti l’anno; certo non pochi, ma neanche poi tantissimi.
Si trattava perlopiù di turisti d’élite: gli attori di Hollywood, le grandi famiglie imprenditoriali newyorkesi e poco altro. Un’attenta campagna pubblicitaria aveva sì contribuito a diffondere negli Stati Uniti il “culto” delle Hawai come meta da sogno… ma giustappunto si trattava per i più di un sogno: la gente normale vagheggiava degli amori sulla spiaggia di Waikiki, investiva qualche dollaro per comprare un disco di musica hawaiana da far suonare sul grammofono durante la festa a tema, ma nulla più. L’idea di andare davvero alle Hawai restava di fuori delle possibilità economiche, ma soprattutto al di fuori degli orizzonti mentali, della brava gente.

Brava gente che, con lo scoppio della guerra, si trovò improvvisamente catapultata alle Hawai. In quella che certo non era una vacanza, ma che è pur sempre stato un punto di svolta; per dirla con le parole di Löfgren, “le masse di persone appartenenti alla classe operaia sperimentarono per la prima volta l’esotico durante la guerra, seppure in circostanze piuttosto strane”.

E seppure le circostanze fossero piuttosto strane, per utilizzare l’eufemismo del secolo, la popolazione locale  ebbe comunque la prontezza di far fruttare l’improvvisa presenza di tutta ‘sta massa di gente a spasso per le isole Hawai.
Nei momenti di quiete, i soldati avevano l’opportunità di sorseggiare qualche buona bibita in localini creati appositamente per loro, con tanto di sorridenti cameriere che, per l’occasione, avevano tirato fuori dall’armadio le gonne hula delle loro bisnonne. Nacquero e si diffusero addirittura set fotografici, con tanto di fondali per ricreare in studio il ricercato effetto “spiaggia tropicale”, nei quali i soldati potevano farsi scattare a 75 cent due fotografie in compagnia delle ragazze hula, da tenere come ricordo o da spedire a casa per strappare un sorriso alle mamme angosciate.

Hula Girl Soldato
Una cartolina vintage in vendita su Ebay

Ciliegina sulla torta, queste ragazze hula non erano davvero ragazze hula: erano portoricane fatte venire sulle Hawai appositamente per l’occasione, assunte con regolare contratto dagli esercenti alla ricerca di fotomodelle pronte all’uso. La fisicità delle vere donne hawaiane non corrispondeva all’ideale di corpo snello e abbronzato che i marines avevano portato con sé.

Hula Girl Soldati
Il sorriso più forzato della storia, poraccia

‘nsomma: a parte quel piccolo dettaglio di essere uno scenario di guerra dal quale molti soldati tornarono in una cassa da morto, le Hawai seppero sfruttare relativamente bene la presenza di tutti quei giovanotti sull’isola. Molti di loro, a distanza di cinque o dieci anni, decisero di abbandonarsi alla “nostalgia” tornando sulle spiagge di Waikiki in viaggio di nozze, o in compagnia della famiglia. Una operazione agevolata dalla diffusione dei voli charter, ma soprattutto dal fatto che ormai le isole tropicali non erano più percepite come una meta lontana e irraggiungibile, spersa nel mezzo di mari misteriosi.
Macché: erano quel posto in cui il babbo era già stato da ragazzo e che conosceva come le sue tasche! E allora, se ci è andato lui, possiamo di certo farlo anche noi.

Insomma: tra gli anni ’50 e ’60, complice la maggiore facilità di trasporti e l’accresciuto benessere economico, le Hawai divennero la meta prediletta dai turisti statunitensi (Löfgren, ad esempio, evidenzia come in quel periodo il primo premio di molti quiz televisivi fosse immancabilmente il viaggio romantico per due alle Hawai).

E l’Europa, che negli anni del Dopoguerra assorbì come una spugna tutto ciò che odorava di Stati Uniti, non riuscì a restare immune al trend. E se (com’è ovvio) non era agevole per gli Europei anni ’50 spostarsi in massa verso le lontane Hawai, ecco che il settore turistico locale cavalcò il desiderio della popolazione, trasformando le sue spiagge in una sorta di Hawai nostrana. Ebbe inizio, insomma, quel fenomeno di “polinesificazione” della vacanza europea che citavo in apertura, facendo mio un termine coniato per la prima volta dal sociologo francese Jean-Didier Urbain.

La “vacanza tropicale” propagandata dai film hollywoodiani prevedeva distese di esotici palmizi, su modello dei boschetti di palme da cocco di Waikiki? I litorali europei si riempirono improvvisamente di palme; e non appena l’importazione di cocco divenne economicamente sostenibile anche il frutto esotico entrò nei menù estivi dei resort.

L’occhio si era abituato alla vista di distese dorate di sabbia finissima, come quelle che si potevano ammirare in certi scatti dai Tropici? Le località europee che non avevano litorali naturalmente sabbiosi iniziarono a importare sabbia da spargere per terra (‘na cosa assurda, se ci pensate, calcolato che ‘sta polverina comprata a caro prezzo sarà inevitabilmente destinata ad essere portata via dal mare. Ma niente da fare: Cannes lanciò per prima la moda, e tutte le altre località balneari la seguirono a ruota).

La pelle bronzata dal sole cominciava a essere percepita come qualcosa di esteticamente desiderabile? Le donne cominciarono ad abbronzarsi con passione – ed erano passati solamente pochissimi anni dal periodo in cui le riviste femminili suggerivano mille trucchi per schiarire la pelle di chi, disgraziatamente, non fosse riuscita a proteggerla dal dardeggiar del sole. E Löfgren ha ragione nel far notare che il giusto livello di abbronzatura cui gli Europei iniziarono ad aspirare non era quello della pelle mulatta delle popolazioni del Maghreb o quello della pelle scurita dal sole del contadino. No: era esattamente quella la gradevole tonalità dorata propria delle popolazioni hawaiane.

La moda mare? Messo da parte l’immancabile vestito bianco che per decenni aveva composto il guardaroba estivo degli europei, il gusto si spostò sempre più verso i colori accesi e le stampe ardite delle camicie hawaiane.

Lo sport estivo per eccellenza? Abbandonata la pesca e il velismo, i giovani europei si lasciarono catturare dalle emozioni del surf californiano… che californiano a dire il vero non è, perché la tradizione del surfismo nasce nelle Hawai (e nelle Hawai era anche morta e finita nel dimenticatoio, fin quando la popolazione locale ebbe l’idea di rispolverarla a vantaggio dei turisti).

photo-1495819427834-1954f20ebb97

Eh sì: le nostre spiagge, le nostre vacanze estive, la nostra stessa idea d’estate sono radicalmente cambiate e nell’arco di pochi anni. Io devo dire che, a mio gusto personale, sono più incline ad apprezzare la cara vecchia estate europea (a patto che non mi togliate il cocco. Amo il cocco). E voi che tipo di estate preferite?

19 risposte a "La Seconda Guerra Mondiale e la polinesificazione delle nostre estati"

  1. Celia

    Per la cronaca: l’estate “europea” old-style me la posso solo immaginare, e pure vagamente, dunque una vera scelta non sono in grado di farla… ma volendo rispondere anche un po’ a istinto dirò che preferisco effettivamente la versione hawaiana di tutto il baraccone 🙂
    L’unico fattore che pretendo e che credo a suo modo accomuni entrambe le possibilità è il “non sovraffollamento”, certo più difficile da perseguire oggi di una volta, ma presente come problema in tutte le epoche.

    "Mi piace"

    1. Lucia

      Il “non sovraffollamento”, almeno al mare, lo si può ottenere andandoci in bassa stagione, a patto che il piano ferie dell’ufficio e gli impegni scolastici di eventuali figli lo permettano, ovviamente.
      Io ultimamente ho preso l’abitudine di andare al mare a maggio e/o dalla seconda metà di settembre. Se sei fortunato, trovi ancora un bel caldo che non ha niente da invidiare a quello da piena estate (anzi, è un po’ più tollerabile), e in compenso gli stabilimenti balneari sono già aperti ma mezzi vuoti, i prezzi sono più che dimezzati, e davvero hai la spiaggia e il lungomare tutti per te.

      Onestamente non capisco come mai ci sia così poca gente in quei periodi.

      Sì ok, chi ha bambini in età scolara deve ovviamente mandarli a scuola, e non tutti al lavoro hanno la possibilità di prendersi ferie al di fuori del mese di agosto.
      Ma sarà mai possibile che sia giusto la mia famiglia, quella che riesce a farlo? 😀
      Secondo me, tante volte, è che siamo legati all’idea di ferie estive rigorosamente a luglio/agosto cascasse il mondo, e non pensiamo nemmeno alle alternative possibili. E invece…!

      Comunque devo dire: per mia inclinazione e per mio gusto, io preferisco (almeno per me) il mare vecchio stampo fatto di carrugi, pini marittimi, entroterra da esplorare eccetera eccetera eccetera, ma la versione hawaiana non mi dispiace. Fa colore. Ormai ci siamo così abituati che un mare sembra ombrelloni probabilmente ci sembrerebbe tristo e spoglio… no? 😉

      Piace a 1 persona

      1. Celia

        Sottoscrivo tutto, sono anch’io una fan della bassa stagione.
        E diciamo che il “vecchio stampo” lo apprezzo, anche molto, ma lo considererei magari più per un lungo periodo di stacco (e di lavoro in totale solitudine, fantastichiamo un po’) che per delle ferie canoniche.

        "Mi piace"

  2. blogdibarbara

    Per me estate è sole sabbia caldo. E come sabbia è perfetta quella che sta a poche centinaia di metri da casa mia. Quanto al cocco, dopo avere scoperto di che cosa sa il cocco tirato giù dall’albero, spaccato, bevuta la dissetantissima acqua e poi mangiato, non sono più riuscita a mangiare quello che viene spacciato qui. Anche le banane, dopo avere mangiato per un anno quelle che dodici ore prima erano sull’albero, mi sono resa conto che quelle che arrivano qui un mese dopo essere state raccolte verdissime e conservate in cella frigorifera, sembrano torsoli – ma rende molto di più l’idea il termine veneto: un scatarón.

    Piace a 1 persona

    1. Lucia

      Da amante del cocco, non so se invidiarti per la tua esperienza con il cocco vero appena raccolto, o se tirare un sospiro di sollievo, perché, essendo a me state preclusi certi piaceri, continuo a trovare gustosissimo il cocco a pochi euro del supermercato.

      Qualcuno direbbe: il segreto per una vita felice è non avere aspirazioni troppo alte, o meglio ancora non sapere nemmeno che si potrebbe aspirare a qualcosa di più XDD

      "Mi piace"

  3. Lidia

    Ciao Lucia, io ho vissuto nove mesi su un’isola tropicale in Papua Nuova Guinea quando ho fatto lavoro sul campo per studiare la lingua di cui sto scrivendo la grammatica, vivevo proprio sull’oceano con i cocchi e la barriera corallina (ma senza acqua corrente, elettricità e bagno). Devo dire che sì ogni giorno pensavo “mamma che bello” ma oramai per me l’idea di vacanza è tutto tranne cocchi e oceano! Lol 🙂

    Piace a 2 people

  4. Elisabetta

    Niente,io sono del partito estate-montagna. Il mare in Riviera romagnola , dopo averci trascorso le ferie da bambina, non mi attrae. Per me la vera spiaggia italiana è quella rocciosa con qualche libgua di sabbia, non certo quelle stile Hawaii..Più che prendere il sole, mi divertono le attività che si possono fare e soprattutto l’abbinamento con le gite culturali in luoghi d’arte.
    Quelle fotografie sono adorabili. Ne ho trovate di simili nel sito Fedora lounge.. show us your family photos.

    "Mi piace"

    1. Lucia

      Io, dopo aver passato Ferragosto facendo una gita in montagna in un paesino semi-deserto, ho realizzato che in effetti, probabilmente, sono un tipo da montagna anch’io 😀
      Vado al mare perché ci sono affezionata, è il paesino in cui ho passato tutte le mie estati da sempre, mi fa piacere tornare in quella casa… ma, fosse per me, probabilmente sarei un tipo da montagna anch’io 😛

      (E comunque, sì: per me, la vacanza perfetta è composta da passeggiate nel paesello che mi ospita, brevi gite nei borghi medievali nelle vicinanze, attività culturali e/o visita a qualche museo della zona, etc. Più che “vacanza pre-poliesificazione”, il mio concetto di vacanza al mare ricorda molto da vicino quello della villeggiatura la mare nel Sette-Ottocento 😉 )

      Piace a 1 persona

  5. mariluf

    Io sono come Elisabetta: montagna d’estate, for ever. Però, una volta ogni 2,3,…. 15 anni,sono andata/vado al mare anch’io, a respirare l’aria salsa, a camminare nell’acqua al mattino presto (non so nuotare, e a quell’ora la spiaggia è deserta), a farmi lunghe dormite in amaca o passeggiate assortite dovunque ci sia qualcosa da vedere. Per questo, mi piace il mare d’inverno: a parte le camminate in acqua, tutto il resto va bene in qualunque stagione. Ciao!

    "Mi piace"

  6. Laurie

    per me ogni posto ha le sue caratteristiche: se vado al mare mi aspetto la spiaggia/costa che ci dev’essere lì, così come le caratteristiche culturali.
    per me le vacanze migliori sono quelle dove un po’ si sta in spiaggia e un po’ si esplorano i dintorni e si fanno passeggiate: non potrei mai stare spiaggiata due settimane di fila (anche se un paio di giorni di relax così non li disdegno affatto!) e fuggo dai posti sovraffollati perchè se voglio rilassarmi voglio starmene in santa pace (e, ancora peggio, mi fanno ribrezzo i posti per turisti, tipo la spiaggia con la musica et similia… brrr!)
    il trauma maggiore dell’università è stato quello di passare dalle vacanze fatte a giugno o a settembre (a ridosso della fine o dell’inizio anno scolastico) a quelle in agosto (unico mese veramente libero)…

    "Mi piace"

  7. Mercuriade

    Estate, almeno nel Medioevo, significava lavoro: mietitura, trebbiatura del grano, vendemmia.
    Anche le “vacanze” che erano concesse agli studenti universitari non erano certo perché andassero al mare: era per concedere a quelli tra loro che erano figli di contadini di aiutare le famiglie nei lavori dei campi.

    "Mi piace"

  8. Pingback: Il caffè a colazione? Un’abitudine nata con la Grande Guerra – Una penna spuntata

Lascia un commento