Che cosa c’entra il maiale con sant’Antonio?

Penso che molti di noi, a un certo punto, se lo saranno chiesti: per quale diamine di ragione sant’Antonio abate se ne va in giro portandosi un maiale appresso?

Sembrerebbe una domanda uggiosa, invece l’interrogativo è degno di attenzione.
San Giorgio se ne va in giro a infilzare draghi perché, nella sua leggenda, compare effettivamente un drago. San Francesco va in giro ad ammansire lupi perché il lupo di Gubbio appare davvero nei suoi Fioretti.
Ma vi sfido a indicarmi, nella Vita di sant’Antonio, un qualsiasi passo nel quale il monaco simpatizzi coi maiali.
Non c’è. Non esistono maiali nella sua agiografia. Come direbbe il computer – Error: Not Found.

Quel che c’è nell’agiografia del nostro amico, peraltro, non è un granché. Antonio ha una vita abbastanza noiosa: rimasto orfano in giovane età, vende tutti i suoi beni e si ritira a vita eremitica nel deserto egiziano. Qui è ripetutamente tormentato dal demonio, che per farlo desistere le prova tutte: in parte, tenta di sedurlo con lascive apparizioni; in parte, tenta di terrorizzarlo con belve feroci. Ma Antonio è irremovibile, anzi raduna attorno a sé un certo numero di discepoli che instrada alla vita monastica. Dopodiché, stabilita la comunità, Antonio sente di dover ritornare alla solitudine, addentrandosi ancor più nel deserto e lì vivendo, da eremita, fino al giorno della sua morte. Era il 356.

Come vedete: di maiali, manco l’ombra.
Tutt’al più, abbiamo citato delle belve che, di tanto in tanto, tormentavano l’abate. Atanasio, primo biografo di Antonio, ne nomina alcune: leoni, tori, lupi, aspidi, scorpioni.
Tutti animali del deserto, giustamente – o animali che, in ogni caso, era plausibile incontrare nel Nord Africa.

Il problema è che, nel Medio Evo, il cittadino-medio di un qualsiasi Stato europeo aveva ben poca dimestichezza con la fauna maghrebina. Se andavi da un villico tedesco e gli parlavi dello scorpione che tormentava sant’Antonio, il povero villico ti fissava con un grosso punto interrogativo in testa e poi ti domandava “ah, perché? Fa male, uno scorpione?”.

Ed ecco la ragione per cui l’iconografia sente il bisogno di prendersi qualche libertà. Nelle chiese europee, l’eremitaggio di sant’Antonio cambia location, per così dire: il deserto africano si trasforma in un fitto bosco inospitale.
Ed essendo poco plausibile un leone in mezzo al bosco, le belve che tormentano sant’Antonio cominciano ad assumere la forma degli animali selvatici europei: lupi, ad esempio. O cinghiali.
Ecco: il cinghiale, in particolar modo, era assai gettonato nei dipinti raffiguranti il santo, anche perché – come dicevamo – era considerato, all’epoca, il “peccatore” per eccellenza tra tutti gli animali.

Resta il fatto che questo non risponde al nostro quesito sul maiale – ché il cinghiale è un suino, ma non un porcello; e comunque sant’Antonio non ce l’aveva certo in simpatia.

Sennonché, a un certo punto, succede una cosa strana.
A partire dal secolo XIII, dapprima nella valle del Rodano e in Borgogna, poi – gradualmente – in Germania e in Inghilterra, il cinghiale che tormenta sant’Antonio si trasforma in roseo porcello. Proprio così: diventa un maiale, inizialmente rappresentato come una qualsiasi bestia da fattoria e poi assurto al ruolo di animale da compagnia, amico fedele del santo monaco.

Come ha avuto luogo questa improbabile metamorfosi?
Come è stato possibile che l’attributo iconografico che fino a poco tempo prima impersonava Satana tentatore (!) si sia improvvisamente trasformato in fedele amico e compagno di vita? Un voltafaccia pure un po’ inquietante.

Come scrive Michel Pastoreau nel suo Il maiale. Storia di un cugino poco amato,

la questione è tuttora controversa ma è probabile che, nell’operare il cambiamento, sia stata decisiva l’influenza dei frati dell’ordine ospedaliero degli Antoniani: qui la storia vera ha contaminato la leggenda.

***

Attorno al 1070, le reliquie di sant’Antonio vengono trasferite dalla tumultuosa Costantinopoli alla valle Rodano, ove l’arcivescovo di Vienne fa erigere un’abbazia deputata a conservare il prezioso cimelio: Saint-Antoine-en-Viennois.
Quando, nel 1090, la zona viene colpita da una epidemia, la popolazione locale, non sapendo più… a quale santo votarsi, pensa bene di chiedere l’intercessione dell’ultimo arrivato. E scopre in tal modo che, a quanto pare, sant’Antonio ci sa fare un sacco, come guaritore!

Ormai legato indissolubilmente a quella malattia che oggi conosciamo appunto come “fuoco di sant’Antonio”, l’abate egiziano comincia ad essere conosciuto come potente taumaturgo, diventando in breve tempo uno dei santi più amati nella valle del Rodano.
Vicino alla chiesa che ospitava le sue reliquie, sorge un grande ospedale affidato alle cure di un ordine creato per l’occasione: i Canonici regolari di Sant’Antonio di Vienne.

Nell’arco di pochi decenni, l’ordine registra una forte espansione. Ospedali antoniani spuntano a macchia d’olio in ogni zona d’Europa; alla fine del XIII secolo, i canonici erano presenti addirittura in Etiopia e Tartaria.
Il loro focus è sempre quello di partenza: gestire gli ospedali e curare gli ammalati (tutti; non esclusivamente quelli affetti da herpes zoster, come ogni tanto si legge in giro). Ma quest’ordine ospedaliero aveva – per così dire – una… vocazione accessoria, cioè quella di porcaro. Nell’arco dei decenni, si era consolidata per gli Antoniani l’abitudine di allevare maiali in gran quantità, sia a scopo di commercio (il ricavato delle vendite permetteva di sostenere gli ospedali) sia a scopo medico (nei centri gestiti dagli Antoniani si teneva in grande considerazione una dieta ricca di carne animale, considerata particolarmente nutriente e dunque preziosa per gli ammalati).

In numerose delle città in cui erano insediati, gli Antoniani ottennero addirittura il permesso di lasciar circolare i loro maiali nel mezzo della strada. Era un win-win: grufolando tra i rifiuti, i suini si alimentavano autonomamente e a costo zero; per contro, la municipalità poteva risparmiare sui costi della nettezza urbana affidandosi a questo spazzino a quattro zampe.
(Amici romani: la prossima volta che vedrete cinghiali aggirarsi in mezzo ai cumuli di monnezza abbandonati dall’AMA, ringraziate Iddio per la sua divina sapienza e meditate sul fatto che Egli vede e provvede).

Chiaramente, avere qualche maiale che grufola per strada può pure essere ‘na cosa bella che fa colore, ma c’era il rischio che, di punto in bianco, tutti i porcari iniziassero a imitare gli Antoniani, col risultato di trasformare piazza duomo in una giungla urbana. Sicché, si stabilì che i maiali degli Antoniani fossero contrassegnati da una sorta di collarino che ne rendeva immediato il riconoscimento: ok, lui è un maiale patentato, è autorizzato a stare in mezzo alla strada.
E fu probabilmente così che nell’immaginario popolare nacque “il maiale di sant’Antonio”. Tecnicamente, il maiale era degli Antoniani, più che del santo abate, ma insomma non andiamo troppo per il sottile.

Da lì all’inserire il maiale nell’iconografia, il passo fu breve, tantopiù che un suino (il demoniaco cinghiale) era già presente nei dintorni di sant’Antonio negli affreschi di molte chiese europee. Si tratto solo di… addomesticare Satana, trasformandolo in un simpatico animale da cortile.

E tutto sommato, povero maiale, confesso d’essere felice per lui. Bistrattato in ogni dove e additato dei peggiori vizi (chi di noi sarebbe felice di sentirsi dire “ma sei un porco!”): fa piacere pensare che – seppur per vie traverse – il porcello abbia finalmente trovato un santo destinato a prenderselo a cuore.

24 risposte a "Che cosa c’entra il maiale con sant’Antonio?"

  1. nihilalieno

    Io sono cresciuta vicino alla Abbazia di Sant’Antonio di Ranverso, affrescata dal famosissimo (?) Jacopo Jacquerio (che dava il nome alla nostra scuola e fortuna che era l’unica perchè nessun bambino aveva grande fortuna a dire jacopoiaquerio senza attorcigliarsi la lingua), e nelle infinite ricerche sull’abbazia (unica attrazione del circondario, peraltro quasi abbandonata all’epoca), ci veniva spiegato che i monaci allevavano i maiali perchè col grasso curavano il “fuoco di sant’antonio”… I miei migliori amici abitavano nella cascina adiacente e passavano i pomeriggi a spiegare che a) quella era casa loro e non il convento distrutto da secoli, di cui rimaneva solo il bellissimo muro esterno b) la chiesa era chiusa e non si poteva visitare, c) il cane non morde, abbaia solo. Ora scopro che qualcuno ha tradotto in essere un mio progetto, che inutilmente avevo proposto alla mia famiglia: comprare una cadente cascina al termine del viale e farci un maneggio. Ci hanno fatto un agriturismo. Sono un imprenditore incompreso.

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  2. nihilalieno

    Jaquerio si scrive senza “c”. E’ passato troppo tempo da quando ho fatto le elementari. Ho dimenticato tutti i dieci meno presi perchè nella ricerca avevo scritto Jacopo Jacquerio invece di Jacopo Jaquerio. Maledetta C.

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  3. mariluf

    Grazie a tutti e due… a Sant’Antonio di Ranverso, molti anni fa, avevo visto volare le rondini, che in città non trovavo più, scacciate da balestrucci e rondoni… chissà se ci sono ancora?

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  5. Elisabetta

    E in effetti mi son sempre chiesta da dove saltasse fuori questo maiale! Modena è una di quelle città dove i maiali erano liberi di scorrazzare per tutte le strade. Ancora oggi, il 17 gennaio c’è una grandissima fiera che si bissa il 31, giorno del nostro patrono san Geminiano. Questo per farvi capire l’importanza che diamo ai maiali e loro santi.

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  6. klaudjia

    Mi ricordo una ragazza musulmana scandalizzata del fatto che noi cattolici il giorno di S. Antonio portiamo gli animali in chiesa per la benedizione e poi ce li mangiamo!

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      1. Lucia

        Beh, maiali in chiesa no, ma nella mia parrocchia è consuetudine portare gli animali domestici sul sagrato per farli benedire. Grazie al cielo non ci sono ancora maiali da appartamento 😅 ma quando mio padre era chierichetto e viveva in campagna effettivamente accompagnava il sacerdote a benedire tutti gli animali, stalla per stalla di cascina in cascina… 🙂

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        1. klaudjia

          Cara Lucia, so che sei molto indaffarata ma se trovassi il tempo di pubblicare il seguito dell’articolo sul matrimonio mi faresti proprio contenta😊😊

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    1. Lucia

      …ma chissà da dove spunta questa moda (recente, presumo: prima non l’avevo mai sentito) di portare gli animali IN chiesa.
      Non è che mi scandalizzi per ragioni di principio, eh, ma lo trovo proprio poco pratico per ragioni logistiche. Così tanti animali, che non si conoscono, in uno spazio ristretto: se per caso due cani decidessero di attaccar briga, sarebbe spiacevole per tutti.
      A meno che non fosse una necessità data da ragioni meterologiche, mi sembra una moda abbastanza bizzarra 🤔

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