La psicosi da influenza nel ’19 e la psicosi da Covid-19

Se anche voi avete maturato la convinzione che il panico nel quale è sprofondata l’Italia sia causato dalla nefasta esistenza dei social network, temo (o sono felice?) di dovervi smentire. Se i social hanno indubbiamente dato voce alla psicosi, ritengo che la psicosi ci sarebbe stata comunque, anche in assenza di Facebook e livetweeting.
Mica per altro, eh. In questi giorni, a grande richiesta, mi sto dedicando allo studio dell’influenza spagnola – e più leggo, più scopro somiglianze sorprendenti tra l’umore di questo inverno 2020 e l’umore dell’inverno ’19.
Non ci credete? Leggete un po’ qui!

1) Il pregiudizio iniziale: è una malattia che ci hanno attaccato quegli stranieri sporchi con abitudini disgustose!

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Ecco: non proprio espresso con questi termini, ma che il focolaio di infezione andasse cercato tra le sporche baracche degli stranieri era un concetto accettato abbastanza unanimemente dai medici che per primi diagnosticarono la Spagnola.
L’epidemia esplode nella mastodontica caserma di Fort Riley, adibita all’addestramento delle truppe statunitensi che sarebbero state inviate al fronte. A onor del vero, i medici militari avevano delle valide ragioni per sospettare che il contagio fosse legato ai soldati appartenenti a minoranze razziali. Mica per altro: mentre la spagnola mieteva le sue prime vittime nel campo, balzò all’occhio che la maggior parte dei contagi si registrava tra le reclute afroamericane provenienti dal Missisipi e dalla Louisiana.
Sembrava piuttosto ragionevole pensare che la malattia fosse nata proprio da quelle parti, nelle sporche baracche sovraffollate in cui viveva, all’epoca, una buona fetta della popolazione di colore.

Non è così: Missisipi e Louisiana non c’entrano niente e, ancor oggi, resta il grande dubbio del perché mai le reclute afroamericane siano state colpite così duramente nella primissima fase del contagio. Probabilmente – ipotizzano alcuni – perché i neri che provenivano da quelle regioni erano quasi tutti ragazzi poverissimi che non si erano mai allontanati dai loro minuscoli villaggi di campagna, col risultato di essere stati meno esposti ai normali virus influenzali rispetto ai loro coetanei bianchi che vivevano nelle grandi città. Possibile che sia stato questo fattore a rendere il loro organismo particolarmente debole di fronte al virus della spagnola, di cui non avevano mai incontrato neppure i parenti più lontani.

Oh, è solo un’ipotesi, eh. Certo che la cosa è strana, anche perché, col passar del tempo, sarebbe balzato agli occhi un capovolgimento sorprendente:

2) La vendetta del karma: l’epidemia colpisce anche e soprattutto “la gente che conta”

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Il dato di fatto ha del sorprendente. Contrariamente a quanto aveva lasciato credere il caso di Fort Riley, saltò fuori che i neri furono i meno colpiti in assoluto dall’epidemia.
La gente se ne accorse già all’epoca. Il Baltimore Afro-American commentava, nel mezzo dell’epidemia: “stavolta i bianchi hanno lo spettacolo dell’influenza tutto per loro”, aggiungendo che, se la situazione fosse stata opposta, “di questa malattia non ne avremmo nemmeno sentito parlare e le istruzioni sanitarie per la gente di colore sarebbero state pubblicate sui quotidiani a caratteri cubitali una volta sola e poi basta”.

La bassa incidenza della mortalità tra gli individui di colore resta ancor oggi un grande mistero irrisolto (tantopiù che non si può certo dire che i neri godessero di condizioni di vita particolarmente agiate). Il dato è così bizzarro che alcuni scienziati hanno persino ipotizzato che potesse esistere una qualche componente genetica a influenzare, misteriosamente, il modo in cui l’organismo rispondeva al virus.

3) Svariate categorie professionali che dicono “siamo l’unica categoria professionale ad esser stata penalizzata!”

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Nei giorni dello psicodramma perché “i vescovi ci negano i sacramenti!!”, mi sono chiesta: ai tempi della spagnola, erano stati presi provvedimenti simili?
Non trovavo riscontri per i Paesi europei, ma mi è bastato spostare lo sguardo al di là dell’Oceano per rendermi conto che gli Stati Uniti posero in essere lo stesso tipo di chiusure cautelative che sono attualmente in vigore nelle nostre zone “gialle”. Furono chiusi tutti i luoghi di ritrovo nei quali potevano venirsi a creare grandi assembramenti di persone; furono sospese o chiuse al pubblico le funzioni religiose; i teatri, i cinema e i bar serrarono i battenti.

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Il provvedimento colpì insomma svariate categorie professionali, ognuna delle quali cominciò (timidamente) a lagnarsi per il fatto d’esser l’unica categoria professionale danneggiata.

Un certo don Bandeux sacerdote a New Orleans lamentò che non aveva senso chiudere le chiese lasciando aperti gli uffici, ove le persone sostavano per tempi ben più lunghi rispetto a quelli di una Messa.
I proprietari dei cinematografi si domandarono che senso avesse chiudere i cinema e lasciare aperti i teatri (sul lato sanitario, evidentemente nessuno; sul lato economico, i teatri avevano un maggior numero di dipendenti a libro paga).
Quando infine anche i teatri furono costretti a chiudere, i proprietari puntarono il dito sui ristoranti e e sui cabaret che invece erano ancora aperti (ma non lo sarebbero stati a lungo).

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Rispetto alla verve con quale le stesse lamentele si levano ai nostri giorni, va detto che, nel 1919, le proteste furono decisamente più timide e pacate. Come fa notare Laura Spinney in 1918. L’infuenza spagnola, queste misure erano tendenzialmente “considerate accettabili, soprattutto nel clima patriottico generato dalla guerra. In America, per esempio, nell’autunno 1918 non erano soltanto gli obiettori di coscienza ad essere definitivi «lavativi» ma anche coloro che si rifiutavano di mettere in pratica i provvedimenti anticontagio”.

4) L’assalto ai farmaci

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All’epoca non esisteva ancora l’Oro Liquido dei nostri tempi, cioè l’Amuchina Gel. In compenso, esisteva già il Vick’s Vaporub, nei confronti del quale si verificò un vero e proprio assalto, costringendo la ditta a far stampare avvisi pubblici volti ad informare gli stockisti che tutte le scorte erano esaurite.

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Sparito dalla circolazione il Vick’s Vaporub, la gente ripiegò sul chinino, noto per le sue proprietà antifebbrili, e su qualsiasi farmaco a base di chinino. Jennifer Wright, in Get Well Soon, riporta il caso di un farmacista statunitense che dichiarò di aver venduto in un solo giorno più chinino di quanto se ne vendesse normalmente in tre anni.

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Il whiskey, che in molti Paesi era tradizionalmente considerato un rimedio casalingo per attenuare i sintomi delle malattie bronchiali, vide il suo prezzo impennarsi a dismisura.

Insomma, la corsa ai farmaci non è cosa nuova. E sorprendentemente non è nuova neppure lei:

5) La corsa alle mascherine

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Questa cosa delle mascherine fu un fenomeno curiosissimo per l’epoca. Mai nessuno, fino a quel momento storico, si sarebbe sognato di andare in giro indossando un elemento che veniva utilizzato solo dai chirurghi in sala operatoria.

Pare che la scintilla che fece scoppiare la corsa alla mascherina sia da far risalire a un volantino per uso interno emesso nel settembre 1918 dall’Ufficio di Sanità Pubblica degli USA. In esso, si suggeriva al personale medico-infermieristico di indossare la mascherina chirurgica non solo in sala operatoria, ma anche in corsia, se ci si stava occupando dei malati di influenza. Il volantino era destinato a un uso interno, ma in qualche modo cominciò a circolare tra la popolazione. La quale, comprensibilmente, fece due più due: se la mascherina offre protezione ai medici, allora proteggerà anche noialtri.

Scoppiò così la caccia alla mascherina, che però non causò i sold out verificatisi con i farmaci. E questo, per una semplice ragione: le mascherine, all’epoca, potevano essere prodotte in casa (o comunque da un qualsiasi sarto) sovrapponendo l’un sull’altro diversi strati di garza. O di stoffa sottile, tipo seta o tulle. Alla peggio, potevano andar bene anche “quattro o cinque fogli di carta asciutta”, come suggeriva alle massaie italiane la rivista L’igiene e la vita nel 1918.

Oltre ad essere indubbiamente efficace sotto il piano sanitario, la corsa alle mascherine non danneggiava nessuno e anzi favoriva il commercio. Di conseguenza, fu largamente incoraggiata dalle autorità fin dalle prime fasi dell’epidemia, quando ancora la mascherina non era obbligatoria per legge. Nel dicembre 1918 la commissione sanitaria della città di Logan, nello Utah, scriveva che “noi crediamo che nelle comunità in cui l’epidemia è in corso e il commercio è crollato non ci sia nulla che possa stimolare gli affari e rianimarli rapidamente quanto l’uso universale delle mascherine”, aggiungendo che, nel momento in cui l’uso delle mascherine fu reso obbligatorio per legge, “le vendite hanno avuto un picco immediato per tutti gli operatori coinvolti”.

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Ecco cosa succede quando dici a tua moglie “preparami una mascherina” e lei è una ricamatrice provetta con molto senso dell’umorismo

6) Quelli che guardano alle scene di panico e dicono “naaaa, è tutta una psicosi montata ad arte”

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Col passar del tempo, l’uso di mascherine fu reso obbligatorio.
Dopo qualche studio sul campo, i medici afferrarono quel concetto che oggi ci stiamo sentendo ripetere fino alla nausea: le normali mascherine chirurgiche non proteggono i sani dal contagio, ma sono utili per ridurre il rischio di contagiare. Se ne rese conto, per primo, negli USA, il medico di bordo A. J. Minaker, dopo un esperimento durato tre mesi durante il quale costrinse interi equipaggi a indossare la mascherina con regolarità. Il medico giunse alla conclusione che, se l’intera popolazione indossa una mascherina, la precauzione ha un’efficacia pari al 99% nell’impedire la diffusione del contagio. La percentuale era decisamente troppo ottimistica, ma fu la percentuale che Minaker si sentì di dare.

Ergo: nel dicembre 1918, gli Stati Uniti resero obbligatorio per legge l’utilizzo di massa della mascherina. Suscitando… ci credereste? Le proteste di quella parte di popolazione che non voleva piegarsi all’ordinanza.

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Coloro i quali, fino a quel momento, avevano conservato la tranquillità e irriso l’inutile corsa ai farmaci e alle mascherine, a quel punto cominciarono a criticare il governo perché la scelta di imporre l’uso la mascherina avrebbe inutilmente accresciuto la psicosi. Per far capire la vivacità delle proteste, vi dirò che, il 18 dicembre 1918, l’ufficiale di sanità di San Francisco, William Hassler, si vide recapitare in ufficio un pacco bomba da parte di un cittadino evidentemente molto tranquillo che criticava queste precauzioni capaci solamente di fomentare la psicosi.

Anche perché. Ehm. Non prendetela male e non fate paragoni con la cronaca recente, ma: il tasso di mortalità dell’influenza spagnola non era poi così tanto alto.
La spagnola è stata una malattia spaventosa perché, diffondendosi incontrollabilmente sull’intero pianeta (oltretutto provato da cinque anni di guerra) ha contagiato un enorme numero di persone facendo di conseguenza un alto numero di vittime. Peggio ancora: la spagnola aveva la tendenza agghiacciante di risparmiare i vecchi per uccidere chi era nel fiore degli anni.
Però, la spagnola non era un virus letale da apocalisse. Era pieno di gente che si ammalava e, grazie al cielo, guariva senza problemi.

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Sicché, furono numerose – anche tra i politici – le voci che si levarono per criticare provvedimenti giudicati eccessivamente rigidi. Come scrive Laura Spinney, “uno studio del 2007 ha dimostrato che alcune misure di sanità pubblica come il divieto dei raduni di massa e l’obbligo di indossare le mascherine ridussero, in alcune città americane, il tasso di mortalità fino al 50% (gli Stati Uniti furono molto più bravi dell’Europa a imporre provvedimenti di questo tipo). Il problema principale era il tempismo: tali misure dovevano essere introdotte in fretta e mantenute finché il pericolo non fosse passato. Se venivano tolte troppo presto, il virus aveva a disposizione una fornitura fresca di ospiti immunologicamente naïfs e la città andava incontro a un secondo picco di mortalità”.

7) Un operato quantomeno discutibile da parte dei mass media 

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A scuola ci insegnano che “l’influenza fu chiamata spagnola perché la Spagna era stato neutrale e quindi i giornali potevano parlarne, mentre nei Paesi belligeranti la notizia era secretata in base alla censura di guerra”.
Beh, non è esattamente così: la censura di guerra impedisce ai giornali di riportare notizie sull’epidemia che sta sterminando battaglioni al fronte, ma teoricamente non dovrebbe impedire di descrivere l’epidemia che sta uccidendo i civili a casa loro.

Il problema non era in sé la censura di guerra: il problema erano i provvedimenti accessori.
Negli Stati Uniti, ad esempio, era considerata un’infrazione grave allo Espionage Act il diffondere a mezzo stampa posizioni critiche nei confronti del governo.
Scrivere “una epidemia mortale si sta diffondendo a macchia d’olio” è da considerarsi una critica al governo, evidentemente incapace di contenerla? Nel dubbio, i giornalisti avevano paura di farlo, visto che le infrazioni erano punite con vent’anni di carcere.
Peggio di loro, stavano messi solo i giornalisti del Regno Unito, i quali dovevano sottostare al Defence of the Realm Act che mandava direttamente al patibolo chiunque avesse diffuso a mezzo stampa notizie capaci di allarmare i civili.

Ergo, non è che fosse esplicitamente vietato ai giornalisti parlare dell’epidemia. Sarebbe stato controproducente e, soprattutto, assurdo: la sua avanzata era sotto gli occhi di tutti. Ciò che i giornalisti furono costretti a fare fu… trattare la notizia, ma in modo molto rassicurante. Generando così tragicomici paradossi come quello per cui, a Philadephia, i giornali diedero notizia dell’ordinanza che chiudeva i luoghi di ritrovo, ma si affannarono a sottolineare che il provvedimento non era certamente motivato da timori per la salute pubblica, non c’è nessun problema di salute pubblica! Si vede che Philadelphia sprangava teatri, ristoranti e chiese per spezzare la monotonia della vita quotidiana.

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Al termine dell’epidemia, il Guardian si concesse di scrivere: “che senso ha suggerire a una moderna popolazione urbana di non prendere il treno o il tram, chiedere alle giovani generazioni di non andare al cinema e ammonire i disoccupati di mangiare tanto e bene, assicurando allo stesso tempo che non c’è niente di cui preoccuparsi?”.
Curiosamente, la studiosa britannica Laura Spinney cita il caso di Milano come esempio di mala gestio della comunicazione pubblica. Il Corriere della Sera riportò quotidianamente i numeri dei decessi per influenza finché le autorità non lo costrinsero a smettere perché la cosa suscitava agitazione tra la cittadinanza. Peccato che questa censura ebbe come unico risultato l’accrescere il panico della popolazione, la quale cominciò a maturare la non irragionevole convinzione che il governo stesse tenendo nascosto chissà quale drammatico aggravamento della situazione.

8) Le massaie che giocano a fare il piccolo chimico improvvisando rimedi fai-da-te

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Una popolazione nel panico che non riesce più a procurarsi farmaci ha un’unica chance per tranquillarsi: ricorrere al fai-da-te.
Se noi oggi ci improvvisiamo piccoli chimici miscelando candeggina e acqua per creare una simil-Amuchina che non serve a un tubo, le massaie del ’19 preparavano strane misure a base di acido borico e bicarbonato.
Alcuni speravano di proteggersi dal contagio infilandosi sale grosso su per il naso. Altri – rispolverando curiosamente una convinzione medievale originatasi all’epoca della peste nera – suggerivano di mangiare aglio (o cipolla) ad ogni pasto, tenersi nella camera delle grosse teste d’aglio (o cipolla) e, possibilmente, andare in giro portandosi appresso i bulbi preziosi, manco fossero in un film di vampiri. Catharine Arnold riporta in Pandemic 1918 la storia di una mamma americana che curò la figlia malata alimentandola esclusivamente ad aglio e avvolgendola in stoffe imbottite d’aglio. Vi stupirà sapere che la bimba guarì.

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9) Il richiamo alle più basilari norme di igiene

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Si dice che l’influenza spagnola aiutò a diffondere tra la popolazione quelle basilari norme di igiene minima (tipo “lavati le mani”) che, a partire dagli anni Venti, cominciarono effettivamente ad essere osservate comunemente. Curiosamente, è stata la spagnola a scolpire nella mente dei Giapponesi l’abitudine di indossare una mascherina quando si viaggia sui mezzi pubblici: una legge impose questo comportamento ai tempi dell’epidemia e i solerti nipponici stanno ubbidendo ancora adesso.

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Alcune delle norme emanate a tutela della salute pubblica erano, per contro, decisamente assai curiose.

Il commissario per la salute di New York sentì il dovere di vietare per legge l’utilizzo di piatti o tazze precedentemente usati da altri e poi non lavati. Una visita degli ispettori di sanità a un luogo di lavoro determinò la condanna di quattordici impiegati rei di avere le lenti degli occhiali visibilmente sporche e piene di ditate. Fu emanata un’ordinanza che vietava di sputare in luogo pubblico (il che fa sorridere); nell’arco di pochi giorni, furono arrestati cinquecento sputatori (il che fa sorridere un po’ di meno).
Nell’ottobre 1918, il Washington Times scriveva che “baciarsi è un altro fertile veicolo d’infezione e questa pratica dovrebbe essere fermata”, concedendo una deroga “nei casi in cui tale pratica sia assolutamente indispensabile alla felicità”. Meno attenta alla felicità dei suoi cittadini fu la città di Chicago, che i baci li vietò per legge.
Bizzarrie italiane? Ne conosco solo una, legata a Mussolini, che nel 1918 scriveva sul Popolo d’Italia: “che si impedisca a ogni italiano la sudicia abitudine di stringere la mano e la pandemia scomparirà nel corso della notte”. Va detto che Benito restò fedele a se stesso: la stretta di mano la abolì per davvero quando, di lì a poco, diventò dittatore.

10) L’Aperivirus

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I locali pubblici (quando ancora potevano restare aperti) seppero ironizzare sulla situazione. L’epidemia di spagnola determinò una rapida crescita di popolarità per quei cocktail alcolici che, all’epoca, erano chiamati Corpse Reviver. La loro fama di “rianimare persino i cadaveri” li rendeva particolarmente adatti come rimedio dopo-sbornia (?!) o per tutti quei clienti che si fossero sentiti “un po’ giù”.
Mentre giungevano da ogni dove notizie di una epidemia che stava cominciando a mietere vittime, parve appropriato a molti bartender rielaborare la ricetta dei Corpse Reviver aggiungendo scherzosamente generose quantità di whiskey (che, come vi dicevo, era ritenuto particolarmente utile nel combattere i sintomi influenzali).

Molte delle ricette dell’epoca sono andate perse, ma ne ho trovata una che millanta di essere simile a quelle originali… e, comunque, anche se è inventata, male non farà.
Se in questi giorni di panico volete provare l’ebbrezza di vivere come un uomo ai tempi della Spagnola, sedetevi in un fumoso locale e meditate sulla caducità umana sorseggiando questa roba:

Mescolate in parti uguali whiskey, succo di limone, curaçao Cointreau, Kina Lillet (oppure Americano Cocchi). Aggiungete ghiaccio a piacere e un pizzico di assenzio.

Per questo pezzo, ho attinto in ordine sparso da:

Laura Spinney, 1918. L’influenza spagnola, Marsilio Nodi
Jennifer Wright, Get Well Soon, Henry Holt and Company
Riccardo Chiaberge, 1918. La grande epidemia, UTET
Catharine Arnold, Pandemic 1918, St. Martin’s Press

Come nota di colore, la biblioteca sotto casa possiede altri due libri che avrei voluto consultare, ma non ci posso accedere perché è chiusa causa epidemia.

24 risposte a "La psicosi da influenza nel ’19 e la psicosi da Covid-19"

  1. Celia

    Molto interessante, come sempre, e quasi quasi mi cucio una pezza con teschio ed ossa incrociate sulla mia, di mascherina… ma ti prego, non ripetere anche tu come tanti medici imbecilli in tv che la mascherina non serve a proteggersi, ma SOLO a proteggere gli altri quando già si è contagiati. Non è vero.
    Serve ad entrambe le cose, non bisogna dare informazioni errate anche qualora il nostro scopo sia di definire le priorità e tentare di arginare l’ansia. Poi la gente non si fida: per forza, non parliamo di un dispositivo essenziale, quando ne parliamo aspettiamo settimane per precisare come debba essere fatto, e a quel punto invitiamo in studio un medico prezzolato per dire che la mascherina non ci protegge. Roba da matti! (E qui mi sto riferendo ai giornalisti, non a te, ma ti suggerisco comunque di parlare di priorità, non di inutilità 😉 )

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    1. Lucia

      🤔

      Grazie per la correzione che accetto molto volentieri anche perché ovviamente non so nulla di mascherine… ma, giusto per capire bene io (e anche per capire come correggere 🤣) di quali mascherine stiamo parlando?
      Ovvero: quali sono le mascherine di cui parli, che possono servire anche come protezione?

      Da quello che ho capito io ascoltando la televisione, le mascherine chirurgiche “normali” evitano di contagiare ma non di essere contagiati. Quelle che potrebbero servire come protezione a chi le indossa sono le mascherine col filtro FFP2 o FFP3. E’ giusto?

      Perché se è così mi sono espressa male io (quando scrivevo, avevo in mente ovviamente le mascherine normali, se non altro perché quelle col filtro non esistevano all’epoca 😅 ma in effetti sì, non avevo specificato bene).
      Se invece sono io che ho capito male a monte la questione, a questo punto sono curiosa di sapere come stanno davvero le cose :-O

      Piace a 1 persona

      1. Celia

        Diciamo “quasi” 😉
        In sala operatoria sono sufficienti quelle chirurgiche perché filtrano l’aria espirata, e proteggono il campo sterile – questo, però, in condizioni normali: dei quattri tipi esistenti sono le II e le IIR, a tre / quattro strati, ad essere utilizzate in ospedale, perché hanno maggiore capacità filtrante – però le mascherine chirurgiche non proteggono MAI dai virus, solo da alcuni batteri e dall’aerosol.
        Se ti trovi in una metro affollata e magari surriscaldata, tempo cinque minuti e la mascherina è umidiccia, così invece di impedire il passaggio delle particelle batteriche o di smog… lo facilita.

        Le FFP2 e 3 filtrano invece l’aria inspirata, perciò sono protettive di chi le indossa, ma al tempo stesso trattengono batteri e virus del soggetto dal diffondersi all’esterno, perciò chi è contagiato (o sospetta di esserlo) dovrebbe indossare queste.
        Precisando ancora, però, che la FFP2 filtra circa il 92% delle particelle fino ai batteri, la FFP3 invece il 98% includendo anche i virus, più piccoli dei batteri.
        In realtà, dal momento che parliamo di droplets o gocce aerosol che dir si voglia, anche la FFP2 fa già un lavoro sufficientemente egregio.
        Entrambe, comunque, vanno cambiate dopo 6/8 ore di impiego continuativo, cosa che non auguro a nessuno dato che dopo un paio d’ore più o meno anche una persona sana respira con più sforzo; anche prima se l’ambiente è particolarmente umido.

        Ti lascio un solo link, perché davvero qui il lavoro d’archivio sarebbe infinito… ma mi pare abbastanza ben fatto:

        Fai clic per accedere a C_17_pubblicazioni_1034_allegato.pdf

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        1. Ubi Deus ibi pax

          Addirittura l’OMS consiglia di cambiarle dopo 4 ore, per l’affaticamento che causano, e per le ragioni da te esposte fa riferimento solo alle FFP2, che considera il PPE raccomandato per gli operatori sanitari nel contesto del corona virus 2019 (tabella a pag. 3 del documento linkato).

          Fai clic per accedere a WHO-2019-nCov-IPCPPE_use-2020.1-eng.pdf

          “Respirators (e.g., N95, FFP2 or equivalent standard) have been used for an extended time during previous public health emergencies involving acute respiratory
          illness when PPE was in short supply. This refers to wearing the same respirator while caring for multiple patients who have the same diagnosis without removing it, and evidence indicates that respirators maintain their protection when used for extended periods. However, using one respirator for longer than 4 hours can lead to discomfort and should be avoided (4−6).

          Le efficienze di filtraggio dei respiratori (della categoria Filtering FacePiece di classe 2 e 3 – FFP2 e FFP3), sempre stando a quanto dichiarato dall’OMS; sono invece rispettivamente del 95% e 99,7%, e sono tra le più alte del pianeta (superate solo da quelle usate in Giappone e Corea):

          https://apps.who.int/iris/bitstream/handle/10665/112656/9789241507134_eng.pdf;jsessionid=BE25F8EAA4F631126E78390906

          “Examples of acceptable disposable particulate respirators in use in various parts of the world include:
          :
          – Australia/New Zealand: P2 (94%), P3 (99.95%)
          – China: II (95%), I (99%)
          European Union: Conformité Européenne-certified filtering facepiece class 2 (FFP2) (95%), or class 3 (FFP3) (99.7%)
          – Japan: 2nd class (95%), 3rd class (99.9%)
          – Republic of Korea: 1st class (94%), special (99.95%)
          – US: National Institute for Occupational Safety and Health (NIOSH)-certified
          N95 (95%), N99 (99%), N100 (99.7%)

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          1. Ubi Deus ibi pax

            Comunque i medici che dicono che le mascherine non servono lo fanno quasi sempre esplicitando che parlano solo di quelle comunemente acquistabili in farmacia, di semplice garza, senza alcun filtro brevettato.

            E così ha fatto pure Walter Ricciardi dell’OMS nella conferenza stampa: https://www.corriere.it/salute/malattie_infettive/20_febbraio_25/coronavirus-punto-mascherine-chi-servono-quali-sono-come-indossarle-57e03d7e-57c3-11ea-a2d7-f1bec9902bd3.shtml

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      2. Celia

        p.s.: ovviamente parliamo di virus in generale.
        Il Covid-19 non è l’AH1N1, ma sempre di un virus influenzale si tratta, e le interessate sono sempre le vie respiratorie: le regole generali son quelle.

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  2. zimisce

    Sempre molto interessante!
    Mi hai incuriosito e ho fatto una breve ricerca sull’archivio online de “La Stampa” (non sono piemontese, ma per accedere all’archivio del Corriere e del Messaggero bisogna essere abbonati).
    Ho trovato pochissimi articoli sull’influenza spagnola (oltre alle pubblicità di una certa “pozione Arnaldi” che millantava di curare “Febbre Spagnola e Tutte le Malattie Acute”); ma uno aveva dei paralleli davvero inaspettati. Difficilissimo da leggere perché la pagina è sbiadita ma comunque, un po’ a occhio un po’ con l’OCR del sito, è venuto fuori questo:

    Il termometro dell’influenza
    (da “La Stampa” di martedì 8 ottobre 1918)

    “La quotidiana lista dello Stato Civile che con le nascite ed i pochi matrimoni reca i nomi e il numero dei morti in città nelle 24 ore precedenti, gode purtroppo, da qualche tempo, nei giornali cittadini, di un’attualità inconsueta. È divenuta un po’ come l’articolo di fondo. Tutti la cercano, tutti la leggono, tutti la commentano. E oggi quanti morti? Ah, più di ieri. Morti di influenza, beninteso. Perchè è impossibile morire altrimenti, al giorno d’oggi. L’influenza, i morti d’influenza, l’epidemia fanno le spese di tutti i discorsi, di tutte le curiosità, nelle famiglie, nei negozi, sul tram, e dappertutto, e sempre in base ad una sola cifra: il totale dei decessi annunciato dallo Stato Civile. È questo il termometro aritmetico su cui la cittadinanza regola il suo stato d’animo clinico, ogni mattina all’uscita del giornale; e pochi riflettono che quel terrnonietro è unilaterale, non regolato, insufficiente, a dare una idea esatta dell’aumento della mortalità per questa malattia del giorno.
    Sappiamo, infatti, quotidianamente, il numero rlel morti, ma non conosciamo il numero degli ammalati d’influenza. Manca perciò, al retto giudìzio, il rapporto necessario tra lo sviluppo della malattia e la mortalità, da essa determinata. Che la cifra ilei decessi cresca è doloroso, ma per assumerla a… segnale d’allarme bisognerebbe sapere anche la cifra dei degenti. Si vedrebbe, allora, che se l’influenza è una malattia, a larga diffusione, la mortalità relativa, è nient’altro che allarmante, si mantiene fortunatamente assai bassa, non cresce in ragione aritmetica, e tanto meno geometrica, al numero degli ammalati.
    Non fosse che, per tranquillizzare il pubblico, per dimostrargli che i casi letali si mantengono in proporzione minima, rispetto al numero dei colpiti da questa forma epidemica crediaimo che sarebbe opportuno che il nostro Ufficio municipale d’igiene,— come si fa altrove — notificasse al pubblico quotidianamente la cifra degli ammalati d’influenza de[?] così, col rapporto tra ammalati e morti, un indice esatto della situazione sanitaria di Torino. […]”

    Troppo ottimista mi sa… E all’epoca la psicosi era abbastanza giustificata.

    Ma degna di attenzione è anche la lettera di un lettore (“Voci del pubblico”) pubblicata nella stessa colonna:

    “La Commissione municipale di Sa[?] nel suo decalogo, pubblicato da tutti i giornali cittadini, ha raccomandato, fra l’altro di evitare agglomeramenti [sic] di persone; ed il prefetto, con recentissimo suo decreto, ha sospeso l’esercizio, durante il presente periodo di epidemia, dei cinematografi, dei teatri, ecc., ma ha anche, portato restrizione atto funzioni religiose. Ora, perchè il Municipio, tutore naturale e principale della pubblica salute della città, perché permette che sui trams, nelle ore in cui gli operai si recano o ritornano dal lavoro, si pigi una folla enorme di persone che, oltre ad essere di gravissimo pericolo, in questi giorni, alla salute pubblica, è altresì di pericolo alla stessa integrità personale per chi si trova costretto a rimanere letteralmente schiacciato dagli altri passeggeri ? Perchè non provvede, ad aumentare, nelle ore suindicate, il numero, ora troppo ridotto doi treni tramviari, o quanto meno, a fare aggiungere una seconda carrozza ai trams ordinari, il che porterebbe ad un notevole sfollamento?”.

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  3. Elisabetta

    I corsi e ricorsi storici. Questa “epandemia” ci sta insegnando molto a livello antropologico.
    A mio avviso l’unica differenza è che nel 2020 non possiamo rallentare il lavoro 7 giorni senza mandar all’aria il baraccone dell’economia e quindi il nosto sostentameto. Nel 1919 questo non mi risulta sia successo così rapidamente!

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    1. Lucia

      In effetti, mi sa di no. Oltretutto, va anche detto che nel 1919 il mondo si trovava in condizioni problematiche già di suo 😅 diciamo che la Spagnola ha prolungato di un anno, seppur per altri motivi, una situazione di eccezionalità che esisteva già da prima.
      A causa della Spagnola hanno sicuramente avuto grossi danni le “piccole imprese” di cui si parla tanto in questi giorni, per non parlare di ristoranti, teatri etc. Però sì, erano problemi generalizzati ma ristretti a certe categorie professionali. Non so se esistano studi sulle conseguenze economiche della Spagnola in riferimento all’andamento delle Borse etc., ma – ovviamente – erano altri tempi, sì

      😞

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  4. Murasaki Shikibu

    Questa serie di post sulle epidemie sono davvero eccellenti e di grande aiuto. In particolare quelli storici sulla signora Ersinia li riciclerò nin appena mi ritroverò a fare storia medievale (non tutti gli anni mi capita): tutti i libri ti parlano della storia dei topi che sbarcano dalle navi, ma in questi i casi i ragazzi fanno sempre un sacco di domande, lasciando il povero insegnante di Lettere piuttosto arreso… 😥

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    1. klaudjia

      Soprattutto di’ ai ragazzi che, nel 1348, non c’erano i laboratori dai quali fuggivano i virus costruiti a tavolino dai servizi segreti che cercavano di eliminare la sovrappopolazione mondiale e/o distruggere l’economia asiatica…..eppure le epidemie giravano lo stesso!!! Scherzo ovviamente, ma queste sono le principali tesi complottistiche che girano ora!!!

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  7. Ubi Deus ibi pax

    Comunicato della Diocesi di Roma del 5 marzo 2020

    Vicariato di Roma
    Ufficio stampa e comunicazioni sociali
    COMUNICATO STAMPA

    COMUNICAZIONE DELLA DIOCESI DI ROMA IN SEGUITO AL DECRETO DELLA PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI DEL 4 MARZO 2020

    Sospese le attività pastorali non sacramentali fino al 15 marzo; consentite le celebrazioni liturgiche feriali e festive, purché il luogo di culto consenta di rispettare le misure di precauzione ritenute fondamentali dalle Autorità competenti

    Di seguito la comunicazione di monsignor PIERANGELO PEDRETTI, prelato segretario del Vicariato, per i sacerdoti e i fedeli della diocesi di Roma.

    «Il cammino spirituale della Quaresima 2020 ha assunto una forma inedita a causa dell’emergenza sanitaria internazionale legata al CoViD-19. La Chiesa di Roma risponde con fede, riproponendo i mezzi tradizionali della lotta spirituale: preghiera, digiuno, carità.
    I presenti orientamenti vogliono dare forma concreta al modo di vivere questi strumenti ordinari dell’itinerario quaresimale nell’attuale contesto, richiamando a una particolare responsabilità tutti i sacerdoti e i diaconi coinvolti a diverso titolo nella pastorale diocesana (parroci, rettori di chiese, cappellani), le comunità religiose e tutti i fedeli.

    In data 4 marzo 2020 la Presidenza del Consiglio dei Ministri ha emanato un Decreto che contiene disposizioni puntuali atte a fronteggiare l’emergenza su tutto il territorio nazionale. La comunità diocesana di Roma accoglie con fiducia tali indicazioni, a tutela del bene comune e della salute pubblica. In particolare, ci viene chiesto di collaborare per evitare un ulteriore incremento del numero dei contagiati, che potrebbe portare le strutture ospedaliere al collasso.

    Ciò detto, ci richiamiamo all’indicazione di carattere generale dell’art. 1, comma 1, lettera b) del predetto Decreto della Presidenza del Consiglio dei Ministri: “sono sospese le manifestazioni e gli eventi di qualsiasi natura, svolti in ogni luogo, sia pubblico sia privato, che comportano affollamento di persone tale da non consentire il rispetto della distanza di sicurezza interpersonale di almeno un metro (…)”.

    In data 5 marzo 2020, l’Ufficio nazionale per le comunicazioni sociali della Conferenza Episcopale Italiana ha emanato un comunicato stampa nel quale prende atto che “le misure adottate mettono in crisi le abituali dinamiche relazionali e sociali. La Chiesa che è in Italia condivide questa situazione di disagio e sofferenza del Paese e assume in maniera corresponsabile iniziative con cui contenere il diffondersi del virus.”

    Pertanto, si dispone che nella nostra Diocesi le attività pastorali non sacramentali rivolte a gruppi di fedeli (per esempio, i catechismi dei sacramenti dell’iniziazione cristiana, i corsi di preparazione al matrimonio e di accompagnamento delle coppie, i ritiri e gli esercizi spirituali, i pellegrinaggi, le attività associative e oratoriali, i percorsi di fede di giovani adolescenti e adulti, e in generale tutte le attività di gruppo) siano sospese fino al 15 marzo p.v., così come le Autorità hanno disposto per le Istituzioni Scolastiche di ogni ordine e grado e per le Università.

    Invece, sono consentite le celebrazioni liturgiche feriali e festive, purché il luogo di culto consenta di rispettare le misure di precauzione ritenute fondamentali dalle Autorità competenti, in particolare quella di mantenere almeno un metro di distanza tra le persone.

    Valgono altresì le indicazioni già fornite nella Comunicazione della Segreteria Generale del Vicariato di Roma del 3 marzo u.s.: “omissione del segno dello scambio di pace, ricezione della Santa Comunione sulla mano e svuotamento delle acquasantiere”.

    Chi avesse difficoltà o comunque lo ritenesse più opportuno, potrà predisporre delle celebrazioni all’aperto. Soprattutto nel Settore Centro, si invitino i fedeli a partecipare alle celebrazioni nelle chiese più grandi.

    Particolare attenzione andrà riservata alle categorie più deboli, per le quali nel predetto Decreto della Presidenza del Consiglio dei Ministri all’art. 2, lettera b) si suggerisce: “è fatta espressa raccomandazione a tutte le persone anziane o affette da patologie croniche o con multimorbilità, ovvero con stati di immunodepressione congenita o acquisita, di evitare di uscire dalla propria abitazione o dimora fuori dai casi di stretta necessità e di evitare comunque luoghi
    affollati nei quali non sia possibile mantenere la distanza di sicurezza interpersonale di almeno un metro”.

    Pertanto, si dispone che le visite ai malati siano effettuate rispettando ancor più rigorosamente le condizioni di carattere generale di cui sopra (distanza minima e igiene), utilizzando per quanto possibile le apposite mascherine e limitando le occasioni di interazione con i medesimi soggetti deboli all’amministrazione di Sacramenti e Sacramentali.
    Si consiglia altresì che siano rinviate a dopo Pasqua le benedizioni delle famiglie, se le circostanze – da valutarsi – lo permetteranno.

    Le comunità parrocchiali, in particolare, sono invitate a non interrompere le attività dei servizi caritativi, coordinandosi con la Caritas diocesana, che è a completa disposizione per fornire tutte le necessarie indicazioni del caso (Area Promozione Umana: tel. 06.88815130; e-mail: promozioneumana@caritasroma.it).

    In particolare, si invitano le Caritas parrocchiali e tutti i gruppi di volontariato presenti nelle parrocchie a promuovere iniziative di vicinanza agli anziani soli che vivono nel loro territorio perlomeno attraverso contatti telefonici. Le attività dei Centri di Ascolto parrocchiali potranno continuare laddove il servizio si riesca a svolgere in locali caratterizzati da ampi spazi, ben areati ed igienizzati, evitando in ogni caso assembramenti di persone. Per questo si
    raccomanda di fissare appuntamenti con le persone assistite e di non incentivare l’apertura indiscriminata, onde evitare assembramenti. Gli stessi criteri dovranno essere usati per l’apertura degli Empori della Solidarietà e per i centri di distribuzione degli alimenti.

    Si consiglia invece la sospensione dell’attività dei centri di distribuzione del vestiario,
    soprattutto per quello che riguarda la raccolta di abiti usati.

    Le parrocchie, le rettorie e gli altri soggetti ecclesiali che hanno attivato una mensa sociale sono invitati a non interrompere il servizio e ad attenersi alle indicazioni che la Caritas diocesana predisporrà, ricevute le opportune indicazioni da Roma Capitale; in particolare, in ogni caso, si invita a favorire la distribuzione di alimenti da asporto da non consumarsi nei locali parrocchiali.

    Le parrocchie che svolgono attività di accoglienza, con ospitalità di senza dimora e di richiedenti asilo, possono continuare senza problemi tale iniziativa cercando di favorire la permanenza degli ospiti nella struttura anche durante le ore diurne.

    Dove sussistano servizi docce e cambio biancheria si richiede massima attenzione per operatori e volontari; anche qui si raccomanda di svolgere il servizio in ampi spazi, ben areati e igienizzati, evitando assembramenti di persone.

    In spirito di comunione, la comunità diocesana di Roma, per il bene di tutti i cittadini ed in particolare delle categorie più deboli, affida alla Salus Populi Romani il cammino verso la Pasqua di Nostro Signore Gesù Cristo».

    5 marzo 2020

    Sito attualmente non accessibile, non posso riportare il link diretto al documento.

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  8. Ilaria

    Ecco, mi chiedevo se fosse mai capitato in passato che a causa di epidemie fossero state chiuse le chiese e interdette le messe (pensavo di no) e ho trovato la risposta. Davvero, cambiano tante cose intorno a noi ma l’umanità e le sue reazioni restano molto simili nel tempo!

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  9. carlascione

    Salve. Interessante e appassionante lavoro. Una curiosità: parli di aglio come rimedio, ma metti la foto di una locandina d’epoca che inneggia alla cipolla. Onion. Entrambi in generale aiutano…
    Grazie

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