La vera storia di Balto e di Togo, i cani che salvarono Nome dalla difterite

Le epidemie fanno molta fatica a imprimersi nella memoria storica collettiva. Talvolta però ci riescono, soprattutto se quella specifica epidemia può vantare un eroe coraggioso o una impresa eclatante che salvano la situazione.

Ad esempio, sono convinta che molti dei miei coetanei conoscano fin nei minimi dettagli la storia di una epidemia che, nel 1925, uccise ben sette persone nella remota città di Nome, tra i ghiacci dell’Alaska. Con tutto il rispetto per le sette vittime, va da sé che quella micro-epidemia non sarebbe di certo passata agli annali se non fosse stato per l’ondata di popolarità che investì l’eroe della situazione. E cioè colui che, con una mirabile impresa, seppe salvare la situazione: un eroe coi fiocchi – anzi, col pelo.

Locandina Balto Cartone

Per chi non sapesse di cosa sto parlando, Balto è un film di animazione lanciato nel 1995 dalla Amblin Entertainement. Nella mia memoria di bambina, è stato, all’epoca, uno dei pochi cartoni non-Disney in grado di far concorrenza ai colossal – in effetti, il film è ben confezionato. La trama è grossomodo questa: nell’inverno del 1925, scoppia una epidemia di difterite nella città di Nome, spersa nel nord dell’Alaska. L’ospedale locale non ha scorte di medicine. Le normali vie di trasporto sono bloccate dalle condizioni meteo avverse. Sarà una muta di husky, capitanata dall’eroico Balto, a compiere una impresa che ha dell’incredibile, trasportando il farmaco a bordo di una slitta che sfreccia nella notte tra i ghiacci e i mille ostacoli.

La storia è vera; il cartone, però, la romanza molto e ne racconta solo una minima parte. E allora, scopriamola assieme la vera storia di Balto e dei suoi colleghi eroi a quattro zampe.

La difterite è una malattia contagiosa causata da un batterio, il Corynebacterium diphtheriae. Prima della scoperta del vaccino, che ne ha di fatto determinato la scomparsa nei Paesi occidentali, la difterite era una malattia tipica dell’infanzia.

Dopo un esordio con febbre, mal di testa, nausea e vomito, la malattia colpisce il sistema respiratorio generando una condizione che già solo dal nome dovrebbe far capire che è un bel disastro: laringotracheobronchite. In sostanza, laringe, trachea e bronchi si infiammano e si gonfiano, al punto tale da rendere difficoltoso il passaggio dell’aria. Nei casi peggiori, il piccolo paziente muore soffocato; nei casi “migliori” fa perdere ai genitori dieci anni di vita a ogni singolo respiro. Ché – costretta a passare attraverso quella che ormai è poco più che una fessura – l’aria crea un rumore che – mi informa Wikipedia – è “ spesso descritto come simile al richiamo di un pinnipede Otariidae”.

Otaria

E tu leggi e dici “ellamiseria, e che è?”.
Poi ascolti questa registrazione audio del respiro di un bambino di tredici mesi colpito da difterite, cogli improvvisamente la somiglianza e ti vengono i brividi lungo la schiena.

I bambini di Nome stavano agonizzando in questa maniera atroce, quando Balto iniziò la sua folle corsa.

***

E qui, ci sarebbe anche da aprire una parentesi. Non era normale che i bambini di Nome agonizzassero in quella maniera atroce. Nel 1925, la cura per la difterite esisteva già e ogni ospedale degno di tal nome ne teneva ampie scorte nel suo dispensario.
E infatti, pure l’ospedale di Nome ne aveva alcuni armadietti belli piedi, pronti ad ogni evenienza. Sennonché, negli ultimi mesi del 1924, il dottor Welch, medico a Nome, si era accorto con orrore che quei farmaci erano scaduti da qualche mese e nessuno se ne era reso conto facendo l’inventario.
Prontamente, il medico aveva ordinato una nuova fornitura, sentendosi però rispondere che era troppo tardi. Nome era una cittadina così sperduta nel nord dell’Alaska da non avere neppure una sua stazione ferroviaria. L’unico modo per spedire merci era inviarle via nave – ma il porto di Nome restava chiuso per tutti i mesi invernali, a causa dei ghiacci che impedivano la navigazione. Il carico di farmaci avrebbe potuto arrivare non prima della primavera.

“Vabbeh”, immagino si sia detto il dottor Welch, messo di fronte alla realtà dei fatti. “Speriamo in bene”. In fin dei conti non era mica detto che scoppiasse una epidemia di difterite proprio quell’anno.
Ma siccome la fortuna è cieca e la jella ci vede benissimo, l’epidemia scoppiò verso metà gennaio.

Nome fu messa in quarantena.
Welsh inviò telegrammi disperati a tutti i villaggi circostanti scrivendo

Una epidemia di difterite è praticamente inevitabile qui STOP Ho urgente bisogno di un milione di unità di antitossina per difterite STOP Spedizioni postali sono l’unica possibile via di consegna STOP

Tempo due giorni, e il passaparola aveva già raggiunto le autorità sanitarie, che si misero subito all’opera per correre ai ripari.

Con tutto il rispetto per i poveri bambini di Nome, il problema non era salvare qualche manciata di vite in un villaggetto sperduto. Contrariamente a quanto potremmo pensare, Nome era una specie di metropoli per l’Alaska dell’epoca: era stato un centro nevralgico negli anni della corsa all’oro; negli anni ’20, aveva ancora un significativo numero di abitanti.
Tutt’attorno a Nome, fra l’altro, vivevano popolazioni di Inuit ai quali sarebbe stato ben difficile imporre quarantene efficaci a causa del loro stile di vita. Le autorità sanitarie si resero conto che, in breve tempo, una epidemia lasciata correre in modo incontrollato avrebbe potuto contagiare fino a 10.000 persone tra quelle residenti nell’area, con un tasso di mortalità spaventosamente alto.

No, non si trattava solamente di salvare i bambini di Nome: si trattava di evitare un’ecatombe su larga scala. Con le mani che tremavano per l’angoscia, le autorità cercarono disperatamente un modo per far arrivare il carico di medicine a una cittadina così remota da sembrare irraggiungibile.
Ed è qui che i cani entrarono in gioco.

***

Nel 1925, Leonhard Seppala era considerato in Alaska poco meno che una semidivinità.

Noi, adesso, abbiamo le corse di Formula 1. Nell’Alaska degli anni ’20, avevano le corse di velocità su slitta. E con la sua leggendaria muta di husky, Seppala era il leader assoluto del settore. Aveva vinto una gara dopo l’altra, una gara dopo l’altra, re incontrastato ad ogni competizione.
Abile allevatore, oltre che sportivo talentuoso, Seppala aveva selezionato negli anni una linea di super-husky che erano caratterizzati da un’incredibile velocità unita a una ancor più impensabile resistenza alla fatica.
Nel momento in cui ci si rese conto che la città di Nome aveva bisogno di farmaci, e ne aveva bisogno urgentemente, e l’unico modo per farli arrivare a destinazione era ricorrere all’unico mezzo di trasporto praticabile in quelle circostanze (cioè, la slitta) fu chiaro a tutti che in Alaska c’era un solo uomo capace di compiere la missione: Leonhard Seppala, naturalmente.

Seppala
Leonhard Seppala

Mi direte “ma non potevano spedirle tramite aereo, ‘ste medicine?”.
Ci provarono, ma le condizioni meteo avverse rendevano impossibile volare in sicurezza; oltretutto le eliche degli aerei si ghiacciavano a causa della temperatura di 40 gradi sotto lo zero.

Si stabilì di organizzare una prima spedizione di farmaci, su rotaia, dall’ospedale di Seattle fino alla città di Nenana, ultima fermata della linea ferroviaria. Nenana si trovava a 1085 chilometri ad est di Nome (per capirci: grossomodo la distanza tra Milano e Ragusa) e i medici ritenevano che il farmaco potesse resistere per non più di sei giorni in quelle condizioni di freddo estremo prima di deteriorarsi irrimediabilmente.
Insomma, era una letterale corsa contro il tempo.

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Inizialmente, si pensò di affidare l’intero trasporto a Seppala e ai suoi super-cani.
Poi ci rese conto che quella non era una gara di velocità, che poteva essere vinta così come esser persa: far correre una muta di cani per più di 1000 chilometri sarebbe stata una pericolosa follia. Si organizzò dunque una staffetta, con musher (cioè, conducenti di cani da slitta) che si sarebbero dati il cambio ogni 50 km circa, per permettere ai cani di correre alla massima velocità per tratti relativamente brevi.

Rispetto al piano iniziale, questo ritocco era certamente ricco di buonsenso. Peccato che Seppala non ne fosse stato informato: prima ancora che fosse possibile comunicargli il cambiamento di programma, l’intrepido sportivo era già partito in direzione di Nenana ed era disperso in mezzo ai ghiacci alaskani.
Probabilmente avrebbe passato giorni a vagare nel nulla alla ricerca di un farmaco perduto se, a un certo punto, non fosse stato intercettato da uno dei membri della staffetta che letteralmente lo inseguì urlando “IL SIERO! IL SIERO! CE L’HO IO! FERMATI!”.

Mentre Seppala vagava a vuoto in mezzo ai ghiacci, era rimasta una sola persona a rispondere metaforicamente al telefono che ormai suonava a vuoto nella casa dell’atleta. E questa persona era Gunnar Kaasen, il giovane aiutante di Seppala, che da qualche tempo lavorava per il corridore gestendo il suo servizio di pony express. O meglio: di husky express.

Sì: perché Seppala era uno sportivo di professione, ma l’attività che materialmente gli consentiva di mandare avanti la baracca era quella di fattorino. I cani meno promettenti – quelli che Seppala, da abile allevatore, non riteneva adatti a gareggiare – facevano il loro onesto lavoro di corrieri trasportando nel circondario spedizioni varie. A gestire materialmente questa attività collaterale c’era per l’appunto il giovane Kaasen, al quale Seppala aveva lasciato ordini ben precisi, prima di partire: se qualcosa dovesse andare storto e le autorità dovessero chiedere il tuo aiuto, sentiti libero di utilizzare i cani che usiamo per le consegne, per quel poco che valgono. E mi raccomando: metti Fox come cane leader a guidare la muta.

Le cose andarono storte, Seppala era irreperibile, le autorità richiesero l’aiuto di Kaasen. E Kaasen ubbidì alle istruzioni del suo datore di lavoro, tranne che per un punto: non mise Fox a capo della muta. Ci mise Balto.

Kaasen Balto
Balto in compagnia di Gunnar Kaasen, dopo l’impresa

Balto non era un cane di cui Seppala avesse particolare stima.
Un bel cagnolone, per carità. Un fisico imponente, una bella muscolatura, un portamento elegante, due zampette bianche su un pelo marrone scurissimo: erano deliziosamente simili a due calzini, uno dei quali scivolato giù fino alla caviglia. Era un husky di razza purissima (non un mezzo lupo, come invece racconta il cartone), ma non era particolarmente veloce nella corsa e – a giudizio di Seppala – era troppo testardo per poter essere realmente affidabile in condizioni in cui anche la minima esitazione conta.

Fu proprio quella testardaggine a convincere Kaseen che, invece, Balto sarebbe stato un ottimo leader per la muta. Da sempre, Balto era il cane preferito del giovanotto: c’era, fra di loro, una particolare intesa. E così, il giovane aiutante di Seppala preparò la muta e si preparò per svolgere la sua parte nella staffetta.

***

Il povero Seppala, intanto, vagava ai ghiacci dell’Alaska, aggrappato anima e corpo alla sua muta di cani, capitanata dal fedele Togo.

Oh, Seppala amava Togo. Era il più veloce di tutti i suoi cani, il prediletto tra tutte le sue cucciolate: sulle piste, gli aveva fatto vincere così tante gare e così tanta gloria. Per Seppala, Togo non era solamente un cane attraverso il quale lavorare: era IL cane, il cane del cuore, quello da far accoccolare la sera, vicino alla poltrona, davanti al caminetto.

Leonhard Seppala in compagna del fido Togo

Come vi accennavo, Seppala, disperso in mezzo ai ghiacci e ignaro del cambio di programma, fu miracolosamente intercettato da una delle altre staffette che cominciò a urlare “FERMO! FERMO! IL SIERO È QUI!” mentre la slitta sfrecciava davanti a lui a folle velocità.

L’eroe delle piste fece dietrofront, prese in consegna il prezioso carico e cominciò la più eroica e dimenticata di tutte le sue imprese. Mentre si levava una tempesta di neve, lui viaggiò imperterrito percorrendo, in poche ore, non una, non due, ma ben tre tappe della staffetta: quasi 150 km.
Soffiava un vento di tempesta, a -30 gradi. Nella notte cupa, la visibilità era nulla. Seppala si rese conto di star viaggiando a velocità molto più bassa di quella che avrebbe voluto e, nella disperazione, tentò il tutto e per tutto. Arrivato nei pressi della baia di Norton, il musher calcolò che costeggiarla gli avrebbe portato via altre ore preziose: si affidò mentalmente a Dio e ordinò ai cani di tirare di dritto, facendo scivolare la slitta sulle acque ghiacciate. Per più di trenta chilometri Seppala sfrecciò su quel sottile strato di ghiaccio, nelle tenebre della notte, senza nessuna garanzia di poter arrivare indenne dall’altro lato della baia.
Verrebbe da dire che Iddio ascoltò le sue preghiere. Dopo una corsa che parve lunga un’eternità, la slitta sussultò toccando di nuovo la terra ferma. Seppala intravvide in lontananza un igloo e, stremato, ci cercò rifugio per un paio d’ore, durante le quali accese un fuoco nel tentativo disperato di scaldare…
…no: non se stesso e i cani. Cercò di scaldare il farmaco, che si stava cristallizzando.

Dopo quella breve pausa, ripartì. In quelle poche ore, se possibile, la tempesta era peggiorata ancora. Stremato, Seppala arrivò alle luci dell’alba alla piccola città di Golovin: mancavano 126 chilometri alla meta finale.
Esausto, consegnò la scatola con farmaco alla staffetta che lo aspettava. Lui e i suoi cani non sarebbero riusciti a fare un passo in più.

***

I cani della staffetta successiva si congelarono strada facendo. Letteralmente. Due di loro riportarono gravi danni da congelamento, mentre la tempesta di neve si faceva ancor più violenta e il vento soffiava gelido a 40 nodi. Impiegarono quasi una giornata a percorrere i 40 km di distanza che li separavano dal punto in cui la staffetta successiva – Gunnar Kaasen – stava aspettando per prendere in consegna il carico.

E, credetemi amici: quello di Gunnar fu letteralmente un viaggio della speranza.

Il sole era ormai tramontato. La tempesta infuriava senza sosta. La slitta guidata da Balto avanzava a fatica in mezzo a cumuli di neve così alti da sfiorare il busto del guidatore. La visibilità era totalmente azzerata. Il sentiero era ricoperto dalla neve. Fu esclusivamente il senso di orientamento dei cani a permettere a Kaasen di mantenere, grossomodo, la rotta stabilita.
Dico “grossomodo” perché Kaasen non attraversò mai il piccolo villaggio nel quale il sindaco lo aspettava spasmodicamente. Il primo cittadino aveva ricevuto ordini ben chiari: avrebbe dovuto dire a Kaasen di fermarsi, per l’amor del cielo – troppo pericoloso portare avanti l’impresa in quelle condizioni.
Il che, peraltro, era vero. Kaasen non ricevette mai il messaggio, dunque proseguì. Ma le condizioni meteo peggiorarono ancora, al punto tale che una folata di vento improvvisa fece ribaltare la sua slitta. Mentre i cani guaivano terrorizzati, il guidatore si mise a gattonare nella neve, sotto la tempesta, al buio, a mani nude, cercando a tentoni la scatola delle medicine che era stata sbalzata via dall’urto.

Più morto che vivo, Kaasen arrivò alle due di notte al punto in cui avrebbe dovuto passare il carico all’ultima staffetta, quella incaricata di percorrere l’ultimo tratto verso Nome. Ma la staffetta dormiva. Di certo, non immaginava che Kaasen potesse raggiungerlo raggiungesse così presto e a quell’ora di notte (tantopiù che in teoria avrebbe dovuto ricevere ordini che lo istruivano a fare il contrario!).

Kaasen prese un respiro profondo, decise che non c’era tempo da perdere.
Non si poteva aspettare che la staffetta si svegliasse, si vestisse, preparasse i cani, li legasse alla slitta: ogni minuto era prezioso. Così, Kaasen decise di fare da sé. Sarebbe stato lui a consegnare la medicina.

Per più di altre tre ore, Balto e gli altri cani lottarono contro il gelo, la neve, i cristalli di giacchio, la stanchezza e le piaghe aperte dal ghiaccio sotto le zampe. Lottarono, e vinsero. Quando Kaasen arrivò a Nome pochi minuti prima delle luci dell’alba, trovò ad attenderlo una città deserta e un comitato di accoglienza fatto da una desolante serie di imposte serrate. Nessuno lo aspettava così presto.

Nome 1916
Balto e gli altri cani nella strada principale di Nome

Percorrendo nella notte 85 km in mezzo a una tempesta violentissima, Kasen aveva compiuto l’incredibile. Ma, complessivamente, lo avevano compiuto tutti i membri della staffetta: la squadra aveva percorso 1085 km in 127 ore e mezza, viaggiando in condizioni climatiche avverse. Fu, per l’epoca, un primato mondiale.
Del quale fu Kaasen a prendersi tutto il merito.

***

Mi piacerebbe concludere questo articolo con un happy ending, ma temo che il modo migliore per dargli un quid in più sia raccontare la triste storia di quanto accadde dopo (amanti degli animali, preparatevi: non vi piacerà).

Alle prime luci dell’alba, la città di Nome si svegliò con una notizia meravigliosa. Il farmaco era arrivato in perfette condizioni! I piccoli malati stavano già mostrando i primi segni di miglioramento! La quarantena sarebbe finita presto! Il pericolo di una epidemia su larga scala era scongiurato!

Giornalisti e fotografi sommersero di domande l’eroe che aveva percorso l’ultimo tratto. Una piccola troupe cinematografica che si trovava a Nome per altre ragioni domandò a Kaasen se fosse possibile ricreare la scena del suo arrivo. Il musher acconsentì e, all’ora stabilita, attraversò di corsa le vie della città trasportando sulla slitta una scatola vuota, in mezzo ad ali di folla ovante. Le fotografie scattate in quell’occasione fecero il giro dell’Alaska e degli Stati Uniti.
Kaasen e Balto erano diventati gli eroi della situazione. Quando Seppala fece ritorno a Nome, scoprì con una certa incredulità che nessuno se lo filava manco di striscio.

Capiamoci: Kaasen aveva sicuramente dei meriti. Come ce li avevano tutti gli altri musher che avevano gestito l’intera staffetta, e in particolar modo coloro i quali avevano percorso l’ultimo tratto sotto la tempesta.
In virtù di ciò, era – come dire – poco carino che l’attenzione mediatica fosse totalmente incentrata su Kaasen. Con tutto il rispetto, ma il ragazzo non era l’unico a meritarsi tanti onori.
Se proprio vogliamo essere pignoli, era Seppala quello che aveva affrontato il tratto più lungo del percorso. Era Seppala che aveva messo a disposizione della comunità i suoi preziosissimi cani da corsa, ivi compreso il più veloce di tutti: Togo. Ed era proprio Seppala ad essersi reso conto che, nella corsa notturna, il suo amatissimo Togo si era azzoppato, senza peraltro concedersi di mostrare segni di sofferenza durante la corsa. Era probabile che la tenacia nell’andare avanti nonostante il dolore avesse ulteriormente aggravato la ferita. Un cane perfettamente sano, vincitore di tutti i record, con una carriera agonistica i fronte a sé: azzoppato irrimediabilmente. Per non aver voluto mollare.

Ma allora, chi era il vero eroe della situazione?
Seppala (che, consapevole dei rischi, aveva messo a repentaglio la salute dei suoi cani da corsa e la sua stessa vita) oppure Kaasen (che aveva sicuramente rischiato, ma non aveva nemmeno “sacrificato” animali suoi)?
E chi era davvero l’eroe a quattro zampe che meriterebbe di essere ricordato? Balto (che, per carità, ha avuto un comportamento esemplare) o Togo (che, per salvare vite umane, aveva sacrificato se stesso senza nemmeno l’ombra di un guaito)?

Kaasen, decise l’opinione pubblica.
Kaasen e Balto, senza “se” e senza “ma”.

E mentre Seppala confessava ad alcuni amici di sospettare che il ragazzo avesse progettato tutto fin dall’inizio (ricordiamoci che non avrebbe dovuto essere Kaasen a percorrere l’ultimo tratto della staffetta: fu lui a decidere di proseguire il viaggio senza svegliare chi avrebbe dovuto dargli il cambio)… ecco: mentre Seppala si amareggiava in questi pensieri, Kaasen fu contattato dall’industria cinematografica. La Sol Lesser Productions (la stessa che avrebbe firmato la celebre serie di film su Tarzan) era intenzionata a creare un cortometraggio sull’avventura di Balto.
Seppala – che era pur sempre il proprietario dei cani – malvolentieri acconsentì a metterli a disposizione, teoricamente per un periodo di dieci settimane.

E qui la storia di Balto prende una brutta piega: una piega strana e incredibile a credersi, per noi, uomini moderni, tanto amanti degli animali.

Balto e gli altri suoi compagni di impresa furono portati a Hollywood. Il che comportò un piccolo problema: le assolate estati della California non sono esattamente l’habitat più ospitale per una muta di husky, i quali – tra una ripresa e l’altra – furono costretti a interminabili parate tra le strade della città, sessioni fotografiche assieme alle star dell’epoca, incontri con i politici locali (!), visite alle scuole elementari del circondario.
Balto’s Race to Nome, il cortometraggio frutto di tanto lavoro, fu un successo strabiliante. Ricostruiva una versione decisamente romanzata della storia, nella quale Kaasen e Balto erano gli eroi incontrastati della situazione. Al pubblico interessava assai poco la verità storica dei fatti, sicché il corto sbancò tutti i botteghini, consacrando Balto alla fama eterna.
La muta di husky, a quel punto, avrebbe finalmente potuto tornare alle sconfinate e familiari distese di neve dell’Alaska, ma invece no: una agenzia teatrale manifestò interesse per gli eroici cani e ottenne di poterli rappresentare.

Dal 1925 al 1926, Balto e i suoi compagni furono occupati in un tour per tutte le maggiori città statunitensi. Posarono per opere d’arte, si fecero fotografare con le grandi star dello spettacolo, ricevettero la cittadinanza onoraria di svariate città, visitarono innumerevoli canili (!) quasi a rallegrare i cani meno fortunati e apparvero al fianco di Santa Claus in un parco giochi allestito a Kansas City. Quando il tour di Balto arrivò a Washington D.C., il Senato degli Stati Uniti d’America sospese le sue attività per un giorno, in modo tale da consentire a tutti i dipendenti di godere dello spettacolo. Furono bagni di folla senza precedenti, nei quali fu sommerso di lodi e di onori…
…indovinate chi? Ovviamente, Kaasen.

Attorno alla fine del tour, il giovanotto si sentì far presente da un amico che, alla scadenza del contratto con l’agenzia teatrale, decenza morale avrebbe suggerito di tornare a vita privata smettendo di lucrare sulla situazione.

In fin dei conti, Kaasen era un brav’uomo: capì e fece in modo di uscire dai riflettori.
Il problema è che sotto i riflettori rimasero questi benedetti cani. Che – arrivati a questo punto della storia – non è nemmeno chiaro a chi appartenessero. Vien da pensare che, a un certo punto, Seppala li avesse venduti: forse, a quella stessa agenzia teatrale che li aveva rappresentati.
Di certo, i cani non tornarono a Nome. In un momento imprecisato di questa storia, furono venduti a un certo Sam Houston di Los Angeles il quale li affittò a un dime museum, uno di quei “musei delle stranezze” che, all’epoca, attiravano le masse popolari a suon di freak show.

Avrebbero meritato un destino ben diverso, il povero Balto e i suoi compagni di avventura. Eppure, fu quello il destino che toccò loro: nei locali bollenti di quell’asfittico museo, i poveri husky se ne stettero per mesi chiusi in gabbie neanche troppo spaziose. Ansimavano visibilmente, il pelo non era più lucido: le bestiole non erano che l’ombra di ciò che erano state.

Ma non temete: a suo modo, questa storia ha un happy ending. Sollecitato dalla lettera di un lettore che aveva visitato il museo di Los Angeles ed era rimasto orripilato di fronte allo spettacolo, il quotidiano Cleveland Plain Dealer organizzò una raccolta fondi per riscattare i cani. Sam Houston acconsentì a vendere i cani alla città di Cleveland per 2000 dollari (grossomodo, 20.000 dollari attuali) a patto che l’intera somma gli fosse bonificata entro una settimana.
Balto si trovò così, inconsapevolmente, protagonista di una nuova gara contro il tempo. Le radio di Cleveland trasmisero appelli continui per promuovere la raccolta fondi, le istituzioni locali si mobilitarono, i quotidiani fecero titoli di prima pagina sulle linee di BALTO HA BISOGNO DI ALTRI 500 DOLLARI ENTRO STASERA.
E anche in questo caso, Balto vinse quella lotta. Alla fine della settimana, la città di Cleveland aveva raccolto e persino superato la cifra di 2000 dollari pattuita per la compravendita.

Nel marzo 1927, Balto e i suoi compagni di avventura fecero il loro ingresso trionfale allo zoo di Cleveland, dove furono alloggiati con le migliori cure in un ambiente adatto ai loro bisogni. Patricia Chargot, autrice di The Adventures of Balto. The Untold Story of Alaska’ Famous Idiratod Dog, dal quale ho tratto la maggior parte delle informazioni per questo articolo, ritiene che Balto abbia costituito un unicuum nella storia universale degli zoo: lui e gli altri husky che fecero l’impresa furono gli unici animali domestici ad essere mai ospitati in uno zoo (luogo che, per definizione, è dedicato a fauna di ben altro tipo).

Balto morì il 14 marzo 1933, alla ragguardevole età di quattordici anni.
Togo, il cane da corsa di Seppala, restò al fianco del suo padrone per qualche tempo ancora. Poi – essendo ormai azzoppato e impossibilitato a lavorare – fu ceduto a Elizabeth Ricker, una allevatrice di husky cara amica di Seppala. Nei verdi pascoli di Poland Spring, nel Maine, il cane-eroe visse i migliori anni della sua vita passando il suo tempo a ingravidare con dedizione tutte le husky dell’allevamento. Morì, decisamente felice, nel 1929: aveva più di sedici anni.

Togo Elizabeth
Togo ed Elizabeth Ricker nel 1928


Pochi mesi prima, Elizabeth Ricker aveva dato alle stampe un libro intitolato Togo’s Fireside Reflections, nel quale l’anziano cane meditava sulla sua vita avventurosa e offriva perle di saggezza ai lettori. Ma, a quanto pare, la storia di Togo non finisce qui: la Disney ha appena lanciato un film dedicato proprio al nostro intrepido amico.
Non l’ho ancora visto (lo trovate su Disney Plus), ma il solo pensiero mi entusiasma. Che questo film sia finalmente destinato a dare al povero Togo la gloria che si merita?

5 risposte a "La vera storia di Balto e di Togo, i cani che salvarono Nome dalla difterite"

  1. blogdibarbara

    Io l’ho avuta la laringo-tracheo-bronchite, e no, non facevo così. Durante gli attacchi di tosse l’aria usciva tutta e poi non riusciva più a entrare perché il canale era interamente chiuso e tentando di inspirare avevo un vero e proprio risucchio con l’urlo, tipo il vento durante le bufere nelle gole di montagna.
    PS: la differenza fra adesso e quando fumavo le mie 60-70-80 (qualche volta anche di più) sigarette al giorno è che adesso è solo bronchite. In compenso prima veniva una volta all’anno e durava due giorni, adesso viene almeno due volte all’anno e dura da due a tre mesi.

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    1. Lucia

      😨
      Aiuto, da come la descrivi tu sembra peggio ancora!

      Per curiosità: se non sono indiscreta, come si cura adesso? Più che altro, son curiosa di sapere se esiste un farmaco che ti toglie l’infiammazione in poche ore/giorni/boh, o se è una cosa che si trascina nel tempo. Sembra spaventosa davvero!

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      1. blogdibarbara

        Sì, erano vere e proprie crisi di soffocamento. Una volta c’erano le meravigliose iniezioni di glicocinnamina, oltretutto per niente dolorose, tanto che me le facevo da sola, che in due tre giorni calmavano la tosse più feroce. Poi sono sparite, e quindi bisogna accontentarsi delle solite cosettine, sciroppo eccetera. Volendo ci sarebbe il cortisone come potente antiinfiammatorio, che però ha le sue pesanti controindicazioni, e io ne so qualcosa. Quando ho fatto la prima paresi, nel ’64, lo avevano appena scoperto, ne conoscevano le prodigiose proprietà ma ancora non tutte le controindicazioni. Oggi una dose di 100 mg al giorno viene considerata una dose da cavallo, a me ne facevano prendere 300 mg, e in un mese sono passata da 35 a 50 chili: mezzo chilo al giorno, il che, oltretutto, ha talmente affaticato il cuore che da allora non è più stato del tutto a posto. Tornando alla tosse, c’è da dire che comunque, anche con la sola bronchite, o al massimo tracheobronchite, ho comunque attacchi convulsivi con occasionali crisi di soffocamento: e niente, io sono una donna decisa, le cose a metà non fanno per me.

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