L’abito da medico della peste? Incredibilmente, funzionava per davvero

Per capire qualcosa di più sul famoso abito del medico della peste (quello con la maschera a forma di becco che associamo al Carnevale veneziano, per capirci) bisogna necessariamente fare una premessa e scrivere due parole sulla teoria medica che, fino all’800, veniva usata per spiegare la diffusione del contagio. E cioè, la teoria dei miasmi.

Ne ho già scritto in questo articolo, ma non farà male una ripetizione. Secondo la teoria miasmatico-umorale, le malattie infettive si diffondevano attraverso la propagazione dei miasmi di aria fetida, contenenti “particelle velenose”.

Quando parlo di miasmi, parlo letteralmente di miasmi, cioè zaffate di aria infetta che si riteneva potessero esalare dalle fogne, dalle paludi, dai cumuli di spazzatura, dai tuguri ammuffiti che facevano da casa ai poveri. Questi miasmi, invisibili e impalpabili, erano però estremamente “appiccicosi”: sicché, si posavano sugli oggetti e sulle persone con cui venivano in contatto, trasformandoli così in veicolo di infezione. Unico modo per proteggersi dal contagio era areare frequentemente i locali sottoponendoli a fumigazioni di sostanze disinfettanti e impedire in ogni modo il transito di oggetti provenienti da luoghi infetti.

Può far sorridere e me ne rendo conto, ma che vi posso dire? All’epoca, le convinzioni mediche erano queste.

E sono convinzioni da tenere ben in conto, se si vuole capire la ratio dietro all’inquietante maschera a becco con la quale andavano in giro i medici della peste.
A noi, oggi, sembra un’assurdità folklorista degna tutt’al più di diventare una maschera di Carnevale. All’epoca, questo dispositivo di protezione individuale aveva una sua logica (…e, sorprendentemente, persino una sua efficacia).

Il-CERUSICO

La maschera del medico della peste, come tutti sanno, si compone di due elementi.

Il primo e più vistoso – il mascherone a forma di becco – è paradossalmente quello meno interessante. Se non altro, perché sul tema sono già state scritte molte pagine. Molti di voi sapranno già che la funzione di quel trabiccolo era di proteggere il volto del dottore permettendogli di inserire, nella punta del becco ricurvo, una miscela di erbe e spezie che si riteneva potesse “filtrare” l’aria esterna, annullando gli effetti dei miasmi in essa contenuti.
Insomma: nulla più e nulla meno di una delle nostre mascherine col filtro. La forma a becco – incredibile ma vero – aveva ragioni funzionali, più che estetiche. In primo luogo, serviva a tener fermo il “filtro” erboristico evitando che finisse in bocca al medico a ogni movimento. In secondo luogo, permetteva di incanalare l’aria filtrata, costringendola a percorrere ancora alcuni centimetri prima di arrivare alle narici del dottore (una precauzione extra che si riteneva potesse purificarla ulteriormente).
Insomma, un modo come un altro per proteggere le vie respiratorie (temo, non meno inefficace rispetto alle mascherine fai-da-te che stanno spopolando in questi giorni).

Sennonché, ben di rado la peste si trasmette attraverso le vie respiratorie (lo fa solo se si manifesta come peste polmonare). Nella maggior parte dei casi, come ben sappiamo, la peste si trasmette attraverso il morso di una pulce infetta.

E se una pulce non si turba un granché di fronte a una maschera da uccello, vi sorprenderà sapere che decisamente più efficace nel tener lontani gli insettini si mostrò la seconda componente dell’abito da medico della peste. E cioè, giustappunto l’abito.

plague

A guardare le illustrazioni d’epoca, potrebbe sembrarci un vestito come tanti: una palandrana nera vagamente monacale, comoda e senza troppe pretese.

In realtà, dietro a questa palandrana c’era uno studio medico mica da poco. Pare che sia stato il chirurgo francese Charles de Lorme, sul finire del ‘500, a suggerire che i medici in servizio presso i lazzaretti si proteggessero indossando una palandrana di toile-cirée – cioè, tela cerata.
All’atto pratico, la palandrana era confezionata con una sottile stoffa di lino che veniva periodicamente imbevuta in una miscela di cera liquida mescolata a sostanze aromatiche. Solidificandosi sulla stoffa, la cera creava un rivestimento protettivo simile a quello dei nostri impermeabili: un rivestimento che – secondo i medici dell’epoca – avrebbe impedito alle “particelle velenose” contenute nei “miasmi infetti” di posarsi sulla stoffa del vestito.

Nonostante l’origine francese, fu in Italia che l’abito del medico della peste si diffuse in modo particolare. Testato in Emilia e Toscana durante la grande epidemia del 1630, si mostrò stranamente efficace nel proteggere il personale sanitario – sicché, quando la peste tornò a colpire nel 1656, numerose città italiane decisero di adottarlo.

Fortemente criticato dalle autorità che tentavano di tenere alto il morale della popolazione (le quali sostenevano, probabilmente non a torto, che la vista di dottori così agghindati non facesse altro che alimentare il clima da apocalisse), l’abito del medico della peste raccolse invece un crescente consenso da parte delle autorità sanitarie.
Anche perché, ripeto: incredibilmente, sembrava funzionare.

Poche le voci critiche che si levarono contro questo abito, tra chi lottava contro la peste in prima persona.
Tra di esse, risalta quella di padre Antero Maria di san Bonaventura, un frate che, durante l’epidemia del 1657, aveva prestato servizio presso il lazzaretto di Genova. Nel suo libro dedicato a Il pestifero e contagioso morbo, Carlo Maria Cipolla sorride di gran gusto nel riportare le parole del religioso – un uomo che, in virtù dell’esperienza maturata in prima linea, era fortemente scettico riguardo a tutti gli stratagemmi via via messi in atto nel tentativo di evitare il contagio.
Sul tema, fra’ Antero era abbastanza fatalista. L’esperienza gli insegnava che non esisteva modo per evitare il contagio, e che gli unici in grado di scamparla erano quelli che avevano già contratto la malattia trent’anni prima e si erano immunizzati. Sicché, il nostro frate guardava con una certa commiserazione alle ridicole palandrane dei medici della peste, commentando sarcasticamente che

la tonica incerata in un Lazzaretto non ha altro buon effetto: solo che le pulci non si facilmente vi s’annidano.

… e dici poco!
Ci eri andato vicino, fra’!

14 risposte a "L’abito da medico della peste? Incredibilmente, funzionava per davvero"

  1. klaudjia

    Non è neppure priva di pregio la teoria dei “miasmi”. Avevano capito che nella sporcizia, nei annidava il male…poi essendo sprovvisti di microscopio lo identificavano dell’odore . A proposito della scarsa memoria sulle epidemie, spesso sento la gente lamentarsi che non viene data l’abitabilità a scantinati/soffitte ( magari in prossimità del centro). Allora gli ricordo che una volta c’era una cosa chiamata tubercolosi che prolifica proprio negli spazi non arieggati e sovraffollati ….ci sarà un motivo se in 25 mq sottoterra non puoi fare un appartamento!!

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    1. Lucia

      Ma in effetti la teoria dei miasmi aveva una sua logica. Anzi, io trovo che fosse già abbastanza “avanti” per l’epoca, i medici avevano una buona osservazione.
      Anche il fatto stesso che la malattia proliferasse in quel luoghi ammuffiti, bui e poco areati come le case sovraffollate dei quartieri poveri: era una osservazione epidemiologica interessante. Non avevano capito perché, ma di fatto avevano intuito come si propagava il contagio.

      In virtù di questa teoria si è perso un sacco di tempo a fare cose totalmente inutili ai fini della prevenzione, ma al tempo stesso sono stati messi in atto provvedimenti (tipo le quarantene, il distanziamento sociale, il frequente lavaggio delle superfici) che invece funzionavano eccome!

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  2. Frabo

    Ma i virus *sono* “particelle velenose” (da cui il nome virus), invisibili e impalpabili e “appiccicosi”, si posano sugli oggetti e sulle persone con cui vengono in contatto, trasformandoli così in veicolo di infezione. Un modo per proteggersi dal contagio *è* areare frequentemente i locali e impedire in ogni modo il transito di oggetti provenienti da luoghi infetti. Ed è il motivo per cui i contagi avvengono soprattutto in casa, sui mezzi di trasporto e negli spazi ristretti.

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    1. Lucia

      Beh, sì… diciamo che la teoria dei miasmi era a suo modo efficace per combattere le malattie che si trasmettono attraverso le particelle di saliva. Per altri tipi di epidemie, era inutile se non controproducente.

      Per tutte le malattie che vengono trasmesse attraverso i parassiti, è abbastanza inutile fumigare le merci che arrivano da luoghi infetti sperando di “decontaminarle” in quel modo (le fumigazioni sembrarono efficaci, ma per puro caso: in realtà servivano perché duravano talmente tanto a lungo da far morire il parassita).
      Nel caso di malattie a trasmissione orofecale, tipo il colera, areare i locali era del tutto inutile e anzi la teoria dei miasmi portava i medici sulla strada sbagliata: ci volle un bel po’ prima di capire che la malattia si trasmetteva in tutt’altro modo.

      Però, sì: per le malattie che si trasmettono attraverso tosse e sternuti, a suo modo era efficace 😉

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  3. Esperanto

    A proposito del naso, ricordiamo che i bubboni della peste _puzzano_, non era solo per filtrare l’aria dagli agenti patogeni veri o presunti, ma perchè a stare vicino ad un malato significava sopportarne l’odore, per cui le erbe aromatiche ma anche i profumi messi dentro proteggevano almeno parzialmente dall’odore.
    Da questo punto di vista il naso era quasi indispensabile.

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    1. Lucia

      Ah, sicuramente sì, c’era anche quell’aspetto. Un piacevolissimo effetto collaterale dell’impacco di erbe aromatiche.

      Peraltro, sì: tutte le fonti sono concordi nel descrivere i bubboni come qualcosa di orribilmente puzzolente, anche in un periodo storico in cui immagino che di odori sgradevoli se ne sentissero a iosa in ogni dove. Chissà che razza di odore hanno, per disgustare persino i medici medievali 😯

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  4. Manculicani

    Articolo scritto di venerdì 17, ed ecco che a luglio in Cina e Mongolia arrivano i primi casi di peste.
    Coincidenze? Non so, ma ricordiamoci che di venerdì 17 meglio scrivere solo di cose belle o non scrivere.

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    1. Lucia

      😂😂😂

      Oh no!
      Dite che è colpa mia? 😱

      A me però sembra strano, non ne sono convinta.
      Ho deciso! Tra due settimane (è di nuovo venerdì 17) proverò a scrivere qualcosa su, boh, il colera, il colera è una epidemia che mi manca qui sul blog.

      Se poi scoppia davvero una epidemia di colera, vorrà dire che due indizi fanno una prova 😂😂😜

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  5. Claudio Maria Maffei

    Dell’abito del medico della peste colpisce la somiglianza con “i dispositivi” (come vengono chiamati) che il cronavirus ha imposto non solo ai medici, ma a tutti. Ma le somiglianze tra le misure contro la vecchia peste e quelle contro il nuovo coronavirus non finiscono qui. Ecco cosa c’era scritto in un bando del 16 aprile 1630 dei Provisori di sanità di Ancona in occasione della grande epidemai di peste di quell’anno: viene bandita “ogni persona, animale, mercantia, lettere, fagotti, dennari, et ogn’altra cosa” proveniente da una serie di città, tra le quali figurano come luoghi “suspesi”la città di Milano, con tutto il suo distretto, Parma, Lodi, Bergamo, Codogno; Retegno, Casal Pusterlengo, Verona, Piacenza, Cremona”. Rileggete pure: Codogno, Bergamo … in anticipo di 390 anni rispetto alle misure prese per il coronavirus. Fonte: Archivio di Stato di Ancona.

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    1. Lucia

      😱

      Questa cosa è così curiosa che mi son presa la briga di andare a cercare conferma, perché il riferimento a Codogno, Bergamo e Casalpusterlengo era così attuale da sembrar fatto apposta.
      E invece è proprio vero!

      Per chi fosse curioso il documento è visibile qui, anche digitalizzato:

      http://www.archiviodistatoancona.beniculturali.it/index.php?id=506

      Ma guarda un po’ le coincidenze!
      Grazie per la segnalazione, curiosissima! 😀

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