Gli storici negazionisti per cui la peste del ‘300 non c’è mai stata

Fa ridere, eh? Messa così, sembra follia assoluta. Chi mai potrebbe dubitare che le disastrose epidemie di peste che hanno flagellato l’Europa fossero qualcosa di diverso da – beh – epidemie di peste?

Un sacco di storici me compresa fino a qualche anno fa, quando un paio di ricerche scientifiche incontestabili hanno ufficialmente messo fine a ogni possibile forma di scetticismo. Credeteci o no: ma fino al 2010 (o giù di lì) era perfettamente possibile trovare storici di tutto rispetto capaci di sostenere tesi negazioniste.

Non “negazioniste” nel senso “non c’è mai stata alcuna epidemia” –  ci mancherebbe.
“Negazioniste” nel senso “quella brutta epidemia del 1348 è stata icuramente una cosa orribile, ma sicuramente non è stata peste nera”.

***

Chiariamoci: per uno storico, non è che sia raro nutrire dei dubbi sulle epidemie del passato.
Noi, oggi, facciamo in fretta a capire se quel tizio che tossisce l’anima ha davvero il coronavirus: tampone, laboratorio d’analisi, referto e via.

Va da sé che non è altrettanto facile tamponare retrospettivamente individui che sono morti da svariati secoli. Nella maggior parte dei casi, il povero storico deve tentare una “diagnosi” sulla base della sintomatologia che gli indicano le fonti: un’operazione già non facile di suo, che viene ulteriormente complicata dal fatto che i cronisti del passato, nel descrivere le malattie, erano soliti attingere massicciamente ai topoi letterari.
Ad esempio: a leggere le cronache di un tempo, è pieno di epidemie che sistematicamente tendevano a uccidere i tre quarti della popolazione, facevano accasciare a terra esanime gente che fino a poco prima stava benissimo e uccidevano in poco tempo con febbri elevatissime e causando strane macchie sulla pelle.

E che è?

Il problema è proprio questo: probabilmente non è niente, se non un’accozzaglia di topoi letterari che venivano usati regolarmente, anche un po’ a sproposito.
Vuol dire che i cronisti non erano in grado di descrivere i sintomi – e quindi, ai loro occhi, morbillo, vaiolo e peste erano la stessa cosa, perché facevano uscire roba strana sulla pelle?
Vuol dire che, semplicemente, non avevano interesse a fornire descrizioni accurate del quadro clinico, ritenendo più importante consegnare alla Storia altri dettagli?
Tanti dubbi, ma un unico punto fermo: quando si parla di epidemie, le cronache del passato sono tendenzialmente vaghe e inattendibili. Vanno lette con un sano scetticismo, quantomeno.

Ecco: diciamo pure che, fino a una decina d’anni fa, lo scetticismo era il sentimento prevalente dello storico che si approcciava allo studio della peste del Trecento.

***

Ma mica per altro! È che davvero le fonti fanno inarcare le sopracciglia.
Se voi pensate alla Morte Nera, quali sono le prime associazioni che vi vengono in mente?
Probabilmente, il topo infetto che ti contagia attraverso le sue pulci e il sozzo bubbone d’un livido paonazzo che si forma sui malati: dico bene?

Ecco: e se vi dicessi che la peste del Trecento s’è diffusa anche in zone dove non esistevano ratti?
Se vi dicessi che vi sono cronisti che si dilungano assai nel descrivere la sintomatologia della peste, ma non citano i bubboni?
E passi per la questione dei topi (anche se l’incongruenza è più seria di quanto potrebbe sembrare, come vedremo a breve). Ma, per l’amor del cielo: come fai a non accorgerti di un bubbone?

Un bubbone rosso che esplode secernendo pus mi sembra una sintomatologia abbastanza vistosa e sufficientemente interessante da esser consegnata alla Storia. Come diamine è possibile che esistano cronisti che glissano amabilmente sui bubboni, per scrivere che la peste uccideva in poche ore facendo tossire sangue?
Peraltro, non è manco vero che la peste uccide in poche ore. Uccide dopo una agonia straziante che può durare anche parecchi giorni, con un quadro clinico di crescente orrore che poteva anche offrire dettagli di un certo impatto, se sei un cronista con un tale gusto dello splatter da voler inventare inesistenti di fiotti sangue per impressionare il lettore dei secoli a venire.

Insomma, capite bene che una certa perplessità era giustificata.
Perché alcuni cronisti sembravano descrivere una malattia che non assomiglia manco di striscio alla peste bubbonica?
E se noi moderni avessimo preso un colossale abbaglio? Se la diagnosi fosse sbagliata? Se la peste bubbonica data da Yersinia Pestis non fosse la responsabile della grande epidemia del Trecento?

***

Ole Jørgen Benedictow – professore emerito all’Università di Oslo e grande esperto delle epidemie di peste – ha raccolto nel 2010 le perplessità di molti in un saggio che ha fatto la storia della storiografia sul tema. What Disease was Plague? si domandava il poderoso studio, tutto incentrato On the Controversy over the Microbiological Identity of Plague Epidemics of the Past.
Non si trattava di un saggio “a tesi”. Prudentemente, Benedictow si limitava a fare il punto sulle argomentazioni dei suoi colleghi “negazionisti”, non mancando di sottolinearne i punti critici.
Certo è che – punti critici o no – le argomentazioni “negazioniste” erano sorprendentemente numerose e non prive di un certo fondamento. Ad esempio:

È mai possibile che sia stato un topo a causare tutto ‘sto macello?

Com’è noto, la peste si trasmette agli uomini attraverso i topi (o meglio: attraverso il morso infetto della pulce dei topi. Ma evidentemente serve un topo per portare la pulce vicino agli insediamenti umani).
Il problema è che – per sua stessa natura – una tale modalità di trasmissione non è tra le più efficaci.
Ad esempio: le pulci dei topi proliferano con facilità nei climi caldi e umidi, che favoriscono la schiusa delle uova; ma stupisce pensare che le pulci siano state in grado di provocare un tale macello anche nei gelidi inverni del Nord Europa, dove in teoria le condizioni ambientali avrebbero dovuto limitare la diffusione dei parassiti.  Nel 1984, lo zoologo Graham Twigg espresse queste perplessità nel suo The Black Death. A Biological Reappraisal e per primo sganciò la bomba: la malattia che aveva funestato l’Europa del Trecento non poteva essere peste.
Tentò addirittura una diagnosi alternativa: secondo lui, avrebbe potuto essere antrace. L’antrace non teme il freddo, si diffonde rapidamente e in alcuni casi può effettivamente provocare la comparsa di papule edematose sulla pelle. Che fossero proprio quelle, i famosi bubboni?
Oltretutto,

La Morte Nera ha colpito anche là dove non c’erano topi!

Vi immagino ridere dall’altra parte dello schermo: “ah, nell’Europa medievale esistevano zone senza topi?”. In effetti sì, o per meglio dire: esistevano zone nelle quali non erano diffusi i topi su cui vive la pulce appestata.
Non chiedetemi i dettagli perché non li conosco, ma la pulce-untrice non ama tutti i topi indifferentemente. Lei preferisce stare addosso al rattus rattus, un grosso topastro nero che nel pieno Medioevo era diffuso in Africa, Oriente e nell’Europa meridionale.
Ma non nell’Europa settentrionale.
Non esiste un singolo ritrovamento fossile che permetta di dire il contrario: il topo nero comincia a diffondersi nell’Europa del Nord non prima del sec. XVII. Nel Medioevo, la penisola scandinava aveva a che fare col rattus norvegicus – un topo che, per misteriose ragioni, non piace alle pulci-untrici. Salvo casi veramente estremi, tendono a stargli lontane.

Nel 1986, intervenendo sul Journal of Interdisciplinary History, lo zoologo David Davies evidenziava questo problema in The Scarcity of Rats and the Black Death. Secondo lui, non era materialmente possibile che la peste bubbonica si fosse diffusa in una regione dove non esisteva una massiccia popolazione di topi neri. Ergo, si univa alle tesi di Twigg nell’affermare che nel 1348 era sicuramente successo qualcosa di molto brutto… ma sicuramente non c’era stata una epidemia di peste.  
Mi rendo conto che queste discussioni sui topi sembrino questioni di lana caprina, ma gli storici hanno messo in luce criticità anche più inquietanti. Tipo:

La questione irrisolta dell’immunità

Relitto di qualche ricordo di scuola, c’è un punto fermo sulla peste che probabilmente conosciamo tutti. E cioè, la questione dell’immunità: colui il quale contraeva la peste e poi guariva, poteva ritenersi immune per tutte le epidemie a venire.

Giusto, no? A scuola l’abbiamo studiato.
Ecco: il fatto è che non è vero proprio per niente.

Yersinia Pestis, l’agente patogeno che ancor oggi dà origine a isolati casi di peste in giro per il mondo, non genera una immunità duratura negli individui che superano la malattia.
E vi dirò di più: io non sono un medico ma, a quanto leggo in giro, tendenzialmente sono le malattie di origine virale a generare una immunità che dura nel tempo. Le malattie di origine batterica – quale è appunto la peste – generano una immunità transitoria e momentanea.
Insomma: un appestato medievale in via di guarigione poteva sicuramente tirare un sospiro di sollievo e dire “evvai, per stavolta l’ho scampata”. Ma sicuramente non poteva candidarsi per il ruolo di monatto quindici anni più tardi, forte del fatto che “io la peste l’ho avuta da bambino e ormai sono immune a vita”. Un atteggiamento che invece era molto comune, stando a quanto dice la vulgata.

Nel 2002 Samuel Cohn, storico delle epidemie in servizio presso l’Università di Glasgow, usò proprio questo argomento per accusare i suoi colleghi di aver aderito aprioristicamente alla tesi “Morte Nera del Trecento = peste bubbonica” ignorando tutte le discrepanze che invece emergono evidenti dalle fonti.
Perché ostinarsi a sostenere questa tesi senza valutare ipotesi alternative?, si domandava dando alle stampe il suo The Black Death Transformed.

E se fosse stata una malattia virale? 

Un invito che Scott & Duncan non fecero passare inosservato.
Dando alle stampe nel 2004 il loro Biology of Plagues, i due studiosi – una storica e un biologo rispettivamente – tentarono una diagnosi alternativa. Secondo loro, la Morte Nera che ha flagellato l’Europa non era una malattia batterica ma bensì una malattia virale – e specificamente una malattia causata da un virus della famiglia delle Filoviridae.
Le Filoviridae causano una vasta serie di malattie agghiaccianti che uccidono con fulminanti febbri emorragiche. Tipo l’Ebola, per capirci. O la febbre di Marburg, meno famosi, che secondo i due studiosi potrebbe essere l’incriminata numero 1. Se non altro – scrivevano Scott & Duncan – questo spiegherebbe la questione dell’immunità (che questi virus effettivamente generano) e permetterebbe di dare un senso anche a tutte quelle testimonianze che, piuttosto inspiegabilmente, parlano di appestati in preda alle emorragie interne.

Ma invece, la peste era indubitabilmente peste

La notizia fu consegnata al mondo nel 2011 da un articolo eloquentemente titolato Finally, Plague is Plague.
In esso, Michel Drancourt dell’Unité de Recherche sur le Maladies Infectieuses Emergentes dell’Università di Marsiglia annunciava che un team di studiosi era riuscito a isolare tracce di Yersinia Pestis nella polpa dentale di alcuni cadaveri sepolti a Londra nel corso della grande epidemia del 1348.
E non solo: oltre ad aver indubitabilmente dimostrato che quei defunti londinesi avevano effettivamente contratto la peste, il team di ricerca era addirittura riuscito a sequenziare l’intero genoma del batterio. Dimostrando che l’agente patogeno che li aveva fatti ammalare era – né più né meno – esattamente lo stesso tipo di Yersinia Pestis che ancor oggi è in circolazione. Quindi, nessuna strana pestilenza del passato causata da un agente patogeno non più esistente, o cose simili.

E questo è un dato di fatto incontestabile, di cui non si può che prendere atto.
Ma allora, come la mettiamo con tutte le altre incongruenze? Come conciliamo la realtà dei fatti con tutti i punti critici che ci hanno fatto inarcare le sopracciglia?
Plausibilmente, con questa spiegazione:

Era indubbiamente peste. Ma peste polmonare

Spero di non scrivere imprecisioni mentre mi addentro in un discorso decisamente troppo medico per i miei gusti. Ma proviamoci, ché ce tocca.

Yersinia Pestis è un batterio eclettico, che ha la capacità di uccidere in tre modi diversi.
Nella maggior parte dei casi, colpisce dando il via alla cosiddetta “peste bubbonica”: una volta entrato nel corpo umano attraverso il morso della pulce, il batterio si sposta attraverso il sistema linfatico. Le ghiandole linfatiche, gonfiandosi, danno origine ai bubboni che tutti noi abbiamo in mente… e da lì, la malattia segue il suo corso.

Ma se, in qualche modo, Yersinia Pestis riesce ad entrare in circolo nel sangue (ad esempio, perché un linfonodo “cede”), ecco che si instaura nel paziente la cosiddetta “peste setticemica secondaria”.
Pericolosissima ancor oggi a causa del suo rapido decorso, questa complicazione uccide nell’arco di poche ore attraverso violente emorragie interne che, quando capita, possono colpire anche i polmoni. Dando così origine a una polmonite secondaria che si rende evidente attraverso manifestazioni cliniche non poi così diverse da quel “vomito di sangue” che frequentemente veniva descritto dalle fonti medievali.

È una evenienza molto rara (secondo la moderna letteratura scientifica, meno del 25% dei malati riscontra questa complicazione) ma è una evenienza che non dà scampo.
E non solo per chi ha la jella di avere questa complicazione, ma anche per chi ha la jella di stargli intorno. Sì, perché il povero appestato che tossisce l’anima e vomita sangue sta, di fatto, espettorando materiale infetto. E sappiamo tutti fin troppo bene cosa succede quando una persona tossisce robe infette addosso agli altri.

Proprio così: in alcuni (rari) casi, la peste può trasmettersi alla pari di un’influenza, attraverso droplets emessi dai malati. Quando si registra questo tipo di contagio, si parla – a livello clinico – di peste polmonare. E la peste polmonare

è una delle malattie più virulente ad oggi conosciute. È altamente dubbio che un paziente possa guarire dalla peste polmonare primaria senza la somministrazione di antibiotici. La durata media della malattia è di 1,8 giorni, con le prime manifestazioni di tosse dopo circa ventiquattr’ore dal contagio.

…che messa così sembra una cosa terrificante, ma in realtà è il tallone d’Achille della malattia. Un’incubazione così breve e un decorso così rapido tendono inevitabilmente a ridurre le occasioni di contagio.

La peste polmonare, di conseguenza, è caratterizzata da un basso potere di diffusione. Tende a dare vita a piccoli focolai episodici, che spesso colpiscono singoli nuclei familiari o comunque individui che vivevano in prossimità del malato. Raramente, un singolo focolaio riesce a produrre più di dieci vittime.

Non dimentichiamo però che la peste polmonare non colpisce mai da sola.

Poiché i casi di peste polmonare si sviluppano nel contesto di una più ampia epidemia di peste bubbonica, va detto che costituiscono in media una piccola percentuale delle vittime di una epidemia di peste.

Ad esempio,

studi sulle ondate di epidemie di peste registratesi in Svezia tra il 1710 e il 1713 suggeriscono che all’epoca siano esistite numerose piccole epidemie locali, generatesi a partire da focolai distinti, nei quali si verificò una percentuale significativa di manifestazioni di peste polmonare. Le evidenze suggeriscono persino che – nel contesto di una più ampia ondata di peste bubbonica – siano esistiti piccoli focolai che hanno dato origine a localizzate epidemie di peste esclusivamente polmonare.

Le citazioni di cui sopra sono tratte da Medieval Scandinavia. An Ecyclopedia, un’opera un po’ datata (risale al 1993, quando molti degli studi che ho citato non erano nemmeno ancora stati scritti), ma interessante per il modo in cui tenta di spiegare la grande anomalia del Nord Europa: la zona fu duramente colpita dalla peste, nonostante le condizioni ambientali che in teoria avrebbero dovuto preservarla a causa della ridotta circolazione di topi e pulci annesse.
È possibile che, per qualche misteriosa ragione, la Scandinavia sia stata colpito da epidemie di peste che erano però prevalentemente peste polmonare?
Forse sì, dicono i curatori di Medieval Scandinavia.

Gli Scandinavi si sono distrutti con le loro stesse mani

Prendiamo il caso delle violente epidemie di peste che hanno decimato la Svezia all’inizio del Settecento. In quel caso, la maggior parte dei contagi attribuibili a peste polmonare ha avuto luogo in quelle aree rurali in cui era frequente che tutti gli abitanti di una cascina dormissero in un’unica grande camerata. Una circostanza che ha senz’altro aumentato esponenzialmente le possibilità di contrarre la malattia attraverso droplets, nel pur breve lasso di tempo dell’incubazione.

Secondo gli autori di Medieval Scandinavia, un altro fattore di accresciuto rischio potrebbe risiedere nelle abitudini singolarmente imprudenti adottate dalle popolazioni locali nel corso delle epidemie. Costrette a condizioni di vita estreme, in lande gelide e piuttosto disabitate, le popolazioni scandinave avevano sviluppato, nel corso dei secoli, un fortissimo spirito di interdipendenza e di mutuo soccorso. Lo stesso che, al diffondersi del morbo, li aveva portati a fare la cosa più scema in assoluto che si possa fare durante una epidemia – cioè, prestare soccorso ai malati.
Un singolo caso eclatante vale più di mille parole: in una fonte trecentesca,

un prete norvegese testimonia di essere stato presente al trapasso di Anund Helgason, morto durante la Grande Peste, e ricorda che al momento del decesso erano presenti pure “Ragndid Simonadottir e Alvald Sveinkason e molte altre buone persone

Ora: capite che bene che – peste polmonare o bubbonica che fosse – chiamare a raccolta molte buone persone per farle assembrare attorno al letto di un appestato non è esattamente la migliore idea che si possa avere.  
Le pulci che si annidano tra le lenzuola del moribondo non hanno granché bisogno dell’intermediazione dei topi, se seduto su quelle stesse lenzuola c’è un tizio che carezza affettuosamente la fronte del malato.
La peste polmonare ben poco si cale di aver poco tempo per diffondere il contagio, se le droplets di un malato che tossisce hanno modo di diffondersi in una stanza piena di molte brave persone che vegliano il morente in segno di amicizia.
E non pensate che Anund Helgason fosse l’unico scandinavo ad avere amici singolarmente scemi.

Lo stesso pattern comportamentale si ritrova anche nelle epidemie di peste del 1710-1713 in Svezia, dove nelle campagne vi furono numerose proteste, e persino alcune rivolte, in reazione alle leggi governative con cui si tentava di evitare una interazione sociale tra i malati e gli individui sani.

Insomma, ‘sti benedetti svedesi sono storicamente incapaci di sopportare un briciolo di lockdown.

Aggiungete poi questo ulteriore dettaglio: nella Scandinavia del Trecento esisteva un sistema economico per il quale era frequente che i contadini lavorassero a giornata (o, comunque, per brevi lassi di tempo) in cascine che erano proprietà di terzi. Questo dava origine a un “pendolarismo” di breve raggio che non esisteva (in maniera così marcata) in altre zone d’Europa. Anche questo è un elemento che può moltiplicare il rischio di contagio: è effettivamente plausibile che un numero relativamente basso di topi appestati (presumibilmente arrivati in quelle terre viaggiando a bordo delle navi) siano riusciti, pur con le loro poche forze, a diffondere la malattia a macchia d’olio.

E la tanto osannata immunità che, a dar retta ai cronisti, avrebbe dovuto proteggere i guariti da qualsiasi epidemia futura?
Quella in effetti non ha ancora spiegazione. Ma (opinione mia personale) è pur vero che non hanno spiegazione tante convinzioni irrazionali che pure capita di leggere riguardo all’epidemia dei nostri giorni. E chi le scrive è probabilmente più istruito di un villico medievale: ciò nonostante…
Potremmo forse derubricare la questione immunità a “confortante boiata aiuto-illusoria, falsa ma tenuta in gran credito della popolazione dell’epoca”?

E chi può dirlo. Ai posteri – forse – l’ardua sentenza.  

13 risposte a "Gli storici negazionisti per cui la peste del ‘300 non c’è mai stata"

  1. Gianluca di Castri

    Articolo molto interessante, tuttavia credo che dopo l’esame della polpa dentaria il problema si risolto a favore di Yersinia, mentre forse è ancora aperto il problema dell’identificazione della “peste di Giustiniano”, mentre la “peste di Marco Aurelio” è quasi sicuro non sia da attribuire alla nostra amica Yersinia ma a morbillo o vaiolo. Vi sono però ancora interessanti argomenti di riflessione: (1) il “sudor anglicus” del XVI secolo; (2) la peste di Atene, senz’altro una brutta malattia ma dalla descrizione di Tucidide non si capisce gran che; (3) la peste descritta in 2Re 19-35 o peste di Sennacherib e….(4) molti altri.

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    1. Lucia

      Sissì, assolutamente, dopo il ritrovamento di Yersinia Pestis nella polpa dentaria dei cadaveri londinesi il problema si è assolutamente risolto. Era chiaramente peste, peraltro causato da un biotipo di Yersinia Pestis che era già noto e studiato.

      E per ragioni analoghe dovrebbe essere risolto anche il dibattito su che cosa fosse la peste di Atene: è una epidemia di cui non so quasi nulla (troppo antica per i miei gusti 😅) ma leggevo che in una fossa comune risalente grossomodo a quel periodo sono state recuperate tracce di DNA simili a quelle dell’organismo che causa la febbre tifoife (che coincide abbastanza con i sintomi descritti da Tucidide).

      Anche per la peste di Giustiniano dovrebbero esserci pochi dubbi, sono state trovate tracce di Yersinia Pestis in alcune sepolture dell’epoca, e se non ricordo male c’era addirittura un cronista che (en passant, senza tracciare collegamenti con la pestilenza) narrava di una spaventosa invasione di ratti proprio durante l’epidemia, a mo’ di ciliegina sulla torta per gente già così tanto disgraziata.

      Per tutte le altre epidemie che citi: sì, si brancola nel buio.

      L’unica cosa: il morbillo, che per anni è stato additato come sospetto di alcune epidemie di età antica, sembrerebbe esser scagionato da alcuni studi recenti di biologia molecolare, che “datano” la nascita del virus al 500 d.C. e non prima. (Non chiedetemi dettagli perché non ho assolutamente idea di come sia possibile stabilire l’età di un virus, ma tant’è).
      Quindi, tutte le epidemie di età antica che William McNeill e gli storici della sua scuola avevano definito come “di morbillo o di vaiolo”… di morbillo non dovrebbero essere.
      Il che non vuol necessariamente dire che fossero di vaiolo 😆

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      1. ago86

        Strano, perché “il sozzo bubbone d’un livido paonazzo” è un passaggio della canzone “Dagli all’untore!”, di CapaRezza (che non linko perché contiene alcune parolacce).

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  2. Umberta Mesina

    Ho infine compreso come mai, secondo Hilaire Belloc, la peste del Trecento si portò via i migliori. Dev’essere perché i migliori cercavano di aiutarsi, mentre i peggiori se ne stavano rintanati. Io comunque non ho mai avuto idea di come apparisse la Peste Nera: i bubboni vengono dai “Promessi Sposi”, potenza della fiction. Invece capisco bene che i cronisti registrassero solo il 25% dei sintomi (il vomito di sangue). Vuoi mettere una fontana di sangue contro un bubbone? Non c’è storia.

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    1. Lucia

      E infatti hai evidenziato un’altra grande fonte di perplessità degli storici.

      Manzoni non era un testimone oculare, e ok, ma nelle epidemie più tarde (quelle del ‘600 e ‘700) i sozzi bubboni sono descritti con grande frequenza e dovizia di particolari, li si direbbe il sintomo prevalente.
      Invece nelle cronache trecentesche non sono descritti con altrettanta enfasi (o non in tutte le cronache, quantomeno).

      Eppure la malattia dovrebbe essere la stessa…

      Infatti numerosi storici hanno ipotizzato che le epidemie di peste del ‘600 e ‘700 fossero effettivamente peste bubbonica, a differenza della grande epidemia di metà ‘300.
      Alcuni scienziati avevano anche ipotizzato l’esistenza di biotipi diversi di Yersinia Pestis, capaci di dare origini a quadri clinici diversificati. Ipotizzavano che la peste del ‘300 fosse stata causata da un biotipo di Yersinia Pestis che evolveva più facilmente in peste polmonare e che le epidemie successive fossero state causate da un biotipo leggermente meno aggressivo, che più frequentemente dava origine alla sindrome “classica” con bubboni.

      Sembrava una spiegazione abbastanza ragionevole ma apparentemente nemmeno questa è vera: nella polpa dentale dei morti londinesi del 1348 è stato ritrovato esattamente lo stesso identico biotipo di Yersinia Pestis che è stato collegato ad altre epidemie più “blande”. Quindi, boh?

      Però una grande perplessità era proprio quella che evidenzi: epidemie diverse, identica malattia, ma descrizioni che non combaciano perfettamente.

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      1. Umberta Mesina

        Forse in seguito i sintomi sono cambiati perché sono intervenuti altri fattori (anche se non saprei immaginare quali, visto che il tipo e l’entità dell’inquinamento dal Trecento al Settecento non dovrebbero essere mutati di molto).
        In alternativa, potrebbe davvero essere un problema “narrativo”: forse nel Trecento faceva più effetto il sangue, mentre nel Seicento il bubbone. Potrebbe essere collegato a un modo di considerare il corpo dell’uomo, per esempio.

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        1. Lucia

          A suo tempo, devo essermi persa questo commento; lo vedo adesso e rispondo a distanza di mesi… meglio tardi che mai 😀
          In effetti, la tua è una osservazione che mi ha fatto riflettere e che mi ha fatto tornare in mente un capitoletto eloquentemente titolato “Desacralizzare il sangue” che si trova in La religiosità della medicina dall’antichità a oggi, un (gran bel) libro di Giorgio Cosmacini. E in effetti l’autore fa notare che con gradualità, a partire dal Cinquecento, il modo di guardare al sangue cambia leggermente: prima era considerato il liquido vitale e “sacro” per eccellenza; gradualmente comincia invece a essere guardato come a uno dei tanti fluidi presenti nel corpo umano, né più né meno.
          Quindi in effetti la tua ipotesi potrebbe avere molto senso!

          Io ne avanzo anche un’altra: e cioè, che nel 1348 la peste era una malattia completamente nuova, mai vista prima a memoria d’uomo, che probabilmente risultò molto destabilizzante perché era diversa da tutte le altre malattie epidemiche note fino a quel momento.
          Un paio di secoli dopo, era diventata una malattia tristemente nota di cui tutti conoscevano benissimo i sintomi e di cui tutti avevano già sentito parlare.
          Quindi non mi stupisce che i cronisti “della prima ondata” abbiano descritto la malattia in toni molto diversi rispetto a quelli usati a distanza di secoli. Questo non spiega come mai si ricorresse a certe immagini nella prima ondata e a certe altre nella seconda, però quantomeno giustifica la differenza di toni usati, secondo me.

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  5. Anonimo

    Da medico posso solo farti tanti complimenti per la tua impeccabile analisi.
    Un solo appunto: “pneumonia” in italiano si traduce “polmonite”.
    Annalisa Neviani

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    1. Lucia

      Ops, mi ero persa questo commento e lo recupero solo adesso: grazie mille Annalisa! 😍
      E grazie anche per la noticina: ho corretto!

      Domanda (non retorica): ma da quant’è che “pneumonia” si traduce in “polmonite”? 😯
      Io ero convinta che fossero due termini intercambiabili, quantomeno nel linguaggio medico, perché mi è capitato di sentir parlare di “pneumonia” leggendo testi medici composti in Italia tra fine Ottocento e inizio Novecento. Immaginavo che il termine fosse ancora in uso anche adesso, tra gli addetti ai lavori. E invece no?!

      Che strano, chissà quand’è che ha smesso di essere utilizzato esattamente (e soprattutto perché!).

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