Quando andava di moda coprirsi il volto con la mascherina

Fu probabilmente un’epidemia a far nascere la moda, ma non nel senso che pensate voi.

L’epidemia in questione era quella di vaiolo, malattia temutissima che fu endemica in Europa finché il vaccino non riuscì a debellarla. E il vaiolo – badate bene – era una di quelle malattie che, quando scopri di averla contratta, non sai se augurarti di guarire o cosa.
Perché “cosa” è evidentemente una tragedia – ma anche la prospettiva di superare la malattia non era un granché confortante nel passato, tenuto conto che qualcosa tipo il 70% dei guariti sviluppava agghiaccianti e vistose cicatrici che lasciavano il volto completamente sfigurato.

Va anche detto che bisogna contestualizzare. Se oggi noi proviamo un enorme orrore nel vedere foto tipo questa

nei secoli passati lo spettacolo doveva essere, culturalmente, un po’ meno agghiacciante. Se non altro per una questione di statistica: di individui col volto butterato dal vaiolo erano, ahimè, piene le strade.

Però insomma, diciamo che non fa piacere ritrovarsi con la faccia conciata così, specie se sei una dama in cerca di marito. E questa è probabilmente la ragione che sta dietro alla singolare moda dei visard, cioè piccole mascherine (tipo quelle di Carnevale) che le donne indossavano… a scopo di bellezza.

English Lady in Winter Costume, Wenceslaus Hollar, 1643, British Museum

Pare che questi bizarri arnesi nascano in Italia alla metà del Cinquecento. Da lì si diffondono in Francia e, arrivati a Calais, attraversano la Manica per invadere l’Inghilterra – dove davvero fanno il boom.

Come fa notare Karen Bowman nel suo Corset and Codpieces: A Social History of Outrageous Fashion, le dame dell’Inghilterra elisabettiana avevano abitudine di spalmarsi in faccia intere manate di biacca per schiarire la loro carnagione. Da parte di gente che ha già l’abitudine di andare in giro per il mondo con la faccia ricoperta di una roba con la stessa resa estetica del calcestruzzo, può forse stupire l’improvvisa passione per una mascherina che copre interamente il volto?

Effettivamente, no.

Illustrazione da un “Album amicorum”, 1595

In primo luogo, il visard si indossava in pochi secondi, permettendo alla dama di bypassare le lunghe sedute di trucco.
In secondo luogo, era indubitabilmente efficace nel coprire ogni tipo di inestetismo: rughe, brufoli, cicatrici da vaiolo, pelle cadente della terza età – tutto questo veniva occultato eccellentemente!
In terzo luogo proteggeva il viso dai raggi solari, temutissimi dalle dame dell’epoca perché (gasp!) rischiavano di abbronzare la pelle dandole uno sgradevole colore bronzato.
In quarto luogo, questi trabiccoli riuscivano a garantire un po’ di privacy alle dame: costantemente oggetto di sguardi curiosi, pettegolezzi e gelosie coniugali, le donne di un tempo non disdegnavano gli artifici in grado di farle sparire nell’anonimato. Almeno per il tempo di una passeggiata o di una serata a teatro.

Illustrazione tratta da “Habits de France”, 1581

E così – verso la fine del Cinquecento – le mascherine visard fecero il boom.

Ne esistevano di diversi tipi: alcuni erano semplici rettangoli di stoffa pregiata che venivano allacciati dietro la nuca; sostanzialmente, la versione cinquecentesca delle nostre mascherine, con l’unica differenza che quelle coprivano anche gli occhi (ma lasciavano scoperto il mento).
Altri tipi di visard erano confezionati a partire da materiali solidi come la cartapesta o la tela rigida, foderati con uno strato interno di stoffa morbida per rendere più gradevole il contatto col viso. In quest’ultimo caso, era possibile che le mascherine non fossero tecnicamente indossate ma bensì sorrette con fare civettuolo, mediante una stanghetta in legno che la dama teneva in mano.

Ritratto della Baronessa di Neubourg-Cromiere (Alexander Roslin, 1756)

Excamotage non privo di un suo fascino (…ma decisamente scomodo, e dunque adatto tutt’al più al breve lasso di tempo di un ballo) questo modo di indossare le mascherine era particolarmente vivo quaggiù in Italia. E, in effetti, in Italia vive ancora: nelle feste in maschera del Carnevale veneziano, la nera mascherina che copre il volto delle dame è elemento caratteristico e inconfondibile.

Ebbene: quella mascherina non nasce di per sé come parte di un costume carnascialesco. Tecnicamente, comincia a essere associata alle feste in maschera dopo esser diventata un must di tutte le feste della Venezia bene.
Nota, all’epoca, col nome di moretta (e speriamo che non si offendano gli amici del Black Lives Matter), la tipica mascherina nera era considerata dai Veneziani come uno dei più efficaci strumenti di seduzione. Durante i primi approcci con una dama nel corso di una festa galante, lo spasimante doveva sfoderare tutte le armi in suo possesso per indurre la donna ad abbassare la mascherina, svelandogli così – fugace, per pochi istanti – una bellezza così intrigantemente celata.

Ragazza con una maschera (Charles-Antoine Coypel, 1745)

Vi sembra strano che un oggetto nato per celare il volto finisca col diventare una specie di accessorio sexy? A me effettivamente no: se ci pensiamo bene, è proprio ciò che viene celato alla vista a diventare oggetto di desiderio.

E infatti, col passar del tempo, i visard iniziano ad essere usati sempre più da quelle professioniste che, col desiderio altrui, sbarcavano il lunario.
Sì insomma: le prostitute. Donne che, ovviamente, avevano tutto l’interesse a celare la loro identità a chi non era già diventato loro cliente.

Verso la fine del Seicento, ci spiega Karen Bowman,

i visard erano ormai diventati un accessorio standard per le prostitute […] sicché le dame col volto ricoperto da un visard correvano il rischio di apparire qualcosa che non erano.

Non a caso,

le Regole di Buona Creanza di Antoine de Courtin (1671) raccomandavano ai lettori di “mostrare maggiore cortesia” verso coloro i quali indossano un visard, “giacché molto di frequente sotto a questo artifizio si nascondono individui di onore che si fregiano della più alta dignità”.

Ma evidentemente non bastava. L’autore inglese Samuel Pepsy

ricorda un episodio durante il quale lui ed alcune famiglie amiche stavano aspettando una carrozza per rientrare da una serata fuori: poco ci mancò che sua moglie, leggermente distanziatasi dal gruppetto, venisse caricata sulla carrozza di un gentiluomo

che non era il cocchiere della famiglia Pepsy ma bensì un tizio alla ricerca di piacere, che aveva scambiato la signora per una prostituta alla ricerca di clienti.

Al chiudersi del secolo, la situazione era degenerata al punto che le dame si videro costrette a rinunciare ai loro amatissimi visard. Si tentò una via intermedia creando modelli a mezza faccia, davvero molto simili alle mascherine che indossiamo noi in tempo di pandemia, capaci di conciliare moda e rispettabilità (ché la dama, pur indossandole, restava comunque riconoscibile. Come a dire: “qui non abbiamo niente da nascondere”).  

Ma un simile espediente non poteva funzionare – non nel lungo periodo, quantomeno. Nell’arco di pochi anni, le mascherine scomparvero dalla circolazione (spingendo le dame a ripiegare su un altro accessorio fashion perfetto per chi voleva sedurre col vedo-e-non-vedo: il ventaglio aperto).
Restò un unico contesto nel quale ancora fu possibile avvistare le mascherine sul volto di dame rispettabili – e cioè nelle feste in maschera, durante le quali era concesso e desiderabile occultare la propria identità.

Ma fu in ben altro modo e per ben altre ragioni, che nacque quell’accessorio che oggi associamo al Carnevale.

Incisione di Nicolas Arnoult (1650 – 1722)

36 risposte a "Quando andava di moda coprirsi il volto con la mascherina"

    1. Lucia

      E che questi cappellini siano completamente fuori moda è un mio grande cruccio, perché… ma quanto sono belli?! 😍🤣

      Io detesto i matrimoni eccessivamente fastosi, ma sogno in segreto di essere invitata prima o poi a un matrimonio VERAMENTE elegante nel quale tutte le invitate indossano cappellini da cerimonia, per il solo gusto di poterne provare uno 😂

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      1. blogdibarbara

        Ti faccio una proposta: ce ne facciamo fare uno per ciascuna e poi andiamo insieme per la strada. Da sola magari non me la sentirei, ma in due… Tanto più che la moda è l’ultima cosa al mondo a interessarmi, figurati che ho ancora la gonna che ho comprato coi soldi che mi ha regalato mia nonna per la laurea, nel marzo del ’76, quindi vedi un po’ tu. Hanno veramente un fascino unico.

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        1. Lucia

          🤣🤣

          La soluzione perfetta sarebbe: due donne col cappello con la veletta E una terza parte compiacente armata di macchina fotografica per dare l’impressione di fare foto.
          In tal modo potrebbero scambiarci per testimonial di qualche cosa che si stanno recando sul set 😆

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          1. blogdibarbara

            Se tu hai bisogno della messinscena ok, ma io ci andrei anche così e basta: sono i vantaggi della vecchiaia: non c’è più niente da dover difendere, tanto meno una reputazione. Mi viene in mente quando Paola Borboni, novantenne col bastone, è andata in scena nella parte di una quindicenne. Le hanno chiesto: ma se lo può permettere? E lei ha risposto: alla mia età posso permettermi qualunque cosa. A cinquant’anni sarei stata ridicola a fare una quindicenne, ma a novanta posso fare tutto quello che voglio. Quanto alla messinscena invece mi ricorda la volta che ero andata a studiare da un compagno di liceo, e al momento di andarmene si era messo a piovere. Allora sua madre mi ha prestato il suo ombrello, raccomandandomi di riportarlo il giorno dopo perché aveva solo quello. E il giorno dopo l’ho portato a scuola per darlo al compagno. E tu immaginati questo, con un sole che spaccava e con l’ombrellino rosa a fiorellini bianchi e con la balza. Allora, per non fare la figura del fesso e magari anche altro – che oggi non farebbe specie a nessuno, ma oltre mezzo secolo fa quasi sempre si mimetizzavano anche quelli che lo erano davvero – ritmicamente apriva l’ombrello e dopo qualche secondo esclamava a voce alta: “Oh, non piove più!” e lo chiudeva, per poi riaprirlo e ripartire da capo, in modo che chi lo incontrava pensasse che stesse recitando chissà quale sceneggiata.
            Ma magari se ci andassimo qualcuno si fermerebbe davvero a riprenderci e poi metterebbe foto e video su youtube, facebook, instagram eccetera e noi diventeremmo famose e il cappellino con la veletta tornerebbe di moda.

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          2. Elisabetta

            L’episodio dell’ombrello è divertentissimo. Tempo fa, una persona molto distinta guardò passare un ragazzo con un cagnolino, credo pechinese o barboncino, e commentò:”ai miei tempi ci faceva la figura del…”
            Non posso credere quanto i tempi siano cambiati.
            Oggi guardavo passare ragazzotte con jeans mutanda ma non credo siano gli stessi degli anni ’70. Poi ci sono quelle con minkgonne pantalone di tessuto sintetico tipo voile a fantasie, tipo negligè anni 30 per intenderci. E gli anfibi.
            E voi vi mettete dei problemi per i cappellini, mah. O tempora o mores.

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          3. blogdibarbara

            @Elisabetta: giusto oggi ho visto una con stivaloni di pelle invernali al ginocchio (non vorrei trovarmi col naso in prossimità dei suoi piedi quando li toglierà) e canotta con le bretelle che scendevano fino a scoprire più di mezzo seno. Sono misteri che noi comuni mortali non arriveremo mai a penetrare.

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        2. Elisabetta

          Le gonne strutturate degli anni’ 70 quanto a tessuti naturali e manifattura danno dei punti a quanto è seguito, io ne ho usato una di mia nonna per anni.
          Mi diceva una ragazza che ha un negozio vintage di Trieste che non essendoci più il denim di una volta, i suoi jeans anni 80, pur con la vita alta, vanno a ruba.

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      2. Elisabetta

        Certo come una mia amica che si presentò col fascinator a un matrimonio in Francia ed erano in due ad averlo :-/
        Per quanto riguarda il cappello , ci sono precise regole ai matrimoni. Se la madre della sposa non ce l’ha, non è il caso metterlo. Regola vissuta in prima persona. Va usato solo per la celebrazione in Chiesa, non al ricevimento e solo al mattino, ma su questo ho dei dubbi (Fonte: Enzo Miccio, vabbè adesso potete dirmi tutto, lo accetto). Poi io a matrimoni sempre calza velata e scarpa chiusa, ma sono un caso limite…ci trovammo in due al ricevimento a tolgierle nella ritirata per signore dopo la celebrazione, 35 gradi.

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        1. blogdibarbara

          Se si fosse presentata con questo

          sicuramente non ce ne sarebbe stato un altro.
          PS: le calze sì: mia madre, nonostante appartenesse al sottoproletariato urbano con problemi a mangiare tutti i giorni, almeno fino a quarant’anni non sarebbe mai uscita senza calze, con nessuna temperatura, e quando era ragazza quelle troppo povere per potersele comprare si dipingevano le gambe col tè per fare finta di averle. E quando nell’84 sono andata a Parigi a frequentare un corso, in un caldissimo luglio, non ho mai visto la mia insegnante senza calze e senza giacca.

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          1. Elisabetta

            E pensa che sacrificio spendere soldi per le calze, che si rompono subito! All’epoca esisteva la donna che le rimagliava, pensa te. Come quello che riparava ombrelli.

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          2. blogdibarbara

            Sì, anch’io le mie prime calze le facevo rimagliare (anch’io sono figlia del sottoproletariato urbano, e non una lira poteva essere sprecata): trecento lire un paio di calze, trenta lire una rimagliatura. Perché ai miei tempi c’erano le calze di nylon, che avevano comunque prezzi abbordabili, mentre a quelli di mia madre erano solo di seta, e costavano carissime. Comunque, proprio perché erano così preziose, stavano molto più attente.

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    1. Lucia

      😳
      Uh mamma, sarà vero?!

      (Non ne ho idea: io non ho letto niente a riguardo, ma va anche detto che non ho approfondito un granché la storia della maschera veneziana nello specifico).

      Al di là della scomodità del non poter nemmeno parlare, mi vien da pensare che debba anche essere estremamente fastidioso per i muscoli facciali, dover stringere il morso costantemente per minuti e ore. Io sentirei dolore dopo i primi dieci minuti 😱

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      1. blogdibarbara

        Pare che sia proprio vero invece:
        Le maschere di Venezia
        Tra le maschere storiche di Venezia ricordiamo la Bauta, la Moretta e la Gnaga. Indossata sia da uomini che da donne, la Bauta si compone di una particolare maschera bianca (larva) completata da un lungo mantello nero (tabarro). Veniva usata non solo a carnevale, ma anche durante le feste e gli appuntamenti galanti da chi voleva mantenere il totale anonimato. La Moretta era invece un travestimento indossato da molte donne, costituito da una maschera di velluto nero che si reggeva grazie a un bottone interno trattenuto in bocca. La Moretta non permetteva quindi nè di mangiare nè di parlare, e per questo i veneziani la soprannominarono “servetta muta”. Gli uomini che volevano impersonare figure femminili indossavano la Gnaga, costituita da indumenti da donna di uso comune e da una maschera con le sembianze da gatta.

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  1. klaudjia

    Rimagliare le calze? Dovevano essere diverse da quelle di oggi. Una volta ogni oggetto era prezioso. Vedevo un articolo sull’obsolescenza programmata che raccontava come le calze sono state il primo articolo “taroccato” per durare di meno. Il modello originale era troppo resistente!!

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    1. blogdibarbara

      Immagina un lavoro a maglia, ti si sfila un punto e scende di un tot di righe. Tu lo raccogli con un uncinetto e, riga dopo riga, lo fai passare allacciandolo alla maglia superiore, fino a raggiungere il ferro da cui è caduto: le calze, col sottilissimo filo di nylon, erano fatte sostanzialmente così, e così funzionava la rimagliatura.
      La cosa del taroccamento mi lascia un po’ perplessa: per quanto ne so, le calze, per la loro sottigliezza, sono sempre state intrinsecamente fragili, basta sfiorarle con un’unghia non perfettamente levigata e partono. Quelle di seta probabilmente erano un pelino meno delicate, ma sempre di filo sottilissimo si trattava.

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      1. Lucia

        L’ipotesi taroccamento non mi sembra così peregrina invece, se mi baso sulla mia esperienza personale.
        Qualche anno fa, per una lunga serie di circostanze, mi sono ritrovata ad avere urgentemente bisogno di un paio di collants di nylon (era mattino e mi servivano per la sera) essendo fuori dalla mia città e in una zona che non conoscevo. Ma anche l’avessi conosciuta, resta il fatto che non avevo tempo per andare a fare shopping di calze.

        Vabbeh: ero a Roma, zona Parioli, presa dalla disperazione sono andata a infilarmi nel primo posto che ho trovato, cioè una merceria extra-lusso per pariolini. Ho pagato qualcosa tipo 20 euro (!!) per un banalissimo paio di calze di nylon (follia, lo so, ma mi servivano urgentemente)…

        …eh, oh: soldi ben spesi.

        A parte il fatto che la resa sulla gamba era completamente diversa rispetto a quella dei collants “normali” – ma ‘ste calze credo di averle ancora adesso.
        Ora: io tratto sempre i collants con una certa cura, e già da piccola ero una bambina che li rompeva abbastanza di rado. Ma resistenti come quei collants (peraltro sottilissimi), mai nessun’altra calza al mondo O.o

        Quindi non dubito che esistano diverse tipologie di nylon, alcune delle quali di qualità piuttosto scadente.

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        1. klaudjia

          Io nella mia infanzia ero a contatto sia con l’ambiente cattolico che con quello comunista
          … a dieci anni davo una mano nelle cucine della festa dell’unità (una delle ultime fatte) poi andavo all’oratorio!!! E non ci trovavo niente di strano!! Mi ero convinta di essere di sinistra fino ai 20 anni. Poi ho capito di non aver capito niente del comunismo e di cosa significava. Mi è dispiaciuto per i vecchi “compagni” che veramente in buona fede credevano di migliorare le.condizioni.del proletariato urbano.e dei contadini. Ma credo che l’ambiente dove sono cresciuta io fosse sui generis, tanto che gran parte dei “compagni” che organizzavano la festa dell’Unità locale li vedevo la domenica a messa ed un giorno il parroco ricambiò la visita andando a cena alla citata festa.

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          1. klaudjia

            Scusate credo di aver inserito il post nel posto sbagliato. Volevo metterlo più giù…spero che si comprenda il filo logico lo stesso

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      2. Lucia

        A margine, da allora ho praticamente smesso di comprare i collants “normali” e li vado a cercare alla Rinascente. Se posso, compro Pierre Mantoux o, in subordine, Philippe Matignon (che però mi piace di meno). Anche questi costano una sassata (per quanto non si avvicinino nemmeno ai 17 euro per un paio di collants estivi 😅) però davvero, sono indistruttibili…

        (Se li tratti con molta cura ovviamente)

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        1. blogdibarbara

          Però in questo caso non si tratta di taroccamento, bensì del normale fatto che le cose che costano meno sono di qualità inferiore – mentre non è sempre vero il contrario: a volte capita che si paghi a peso d’oro la firma, dietro la quale c’è ben poco, quindi ti è andata bene di avere trovato, dietro al prezzo, la qualità.

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          1. Lucia

            Ah beh, sì, certo!
            Più che taroccamento in senso stretto, bisognerebbe parlare banalmente dell’ingresso sul mercato di prodotti di qualità inferiore per tenere basso il costo.
            Però ecco: non mi stupirebbe venire a sapere che le costose calze di nylon di una volta erano effettivamente mille volte più resistenti di quelle da supermercato che sono praticamente monouso 😅

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  2. klaudjia

    Doveva essere un lavoro certosino!!! Per le calze il documentario parlava degli anni ’30 e di un nylon che resisteva ” troppo”. Magari i modelli dell’epoca avevano un’altra struttura. Fatto sta che una volta erano un vero costo!! Ricordo un film nel quale Alberto Sordi seduceva una cameriera corrompendola con un paio di calze!! Oggi farebbe ridere!

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    1. blogdibarbara

      Erano velocissime invece. Per farti un’idea pensa a come puliamo il pesce noi e come lo pulisce il pescivendolo, con le sardine che le prende in mano e un secondo dopo volano nel mucchio aperte spinate e sbudellate.
      Per gli anni Trenta non so, mia madre era del ’24 quindi non ha sicuramente fatto in tempo a portare le calze di nylon a quell’epoca, per cui non ho testimonianze. Quanto al film, pensa che nei Paesi comunisti succedeva la stessa cosa ancora negli anni Settanta e Ottanta: calze, reggiseni, slip, anche roba dell’Upim o della Standa, erano preziosità che valevano tranquillamente l’onore.

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  3. klaudjia

    E a noi spacciavano i paesi comunisti come il “paradiso in terra”!! Conosco una signora romena che non mangia fagioli e patate per tutti quelli che ha dovuto mangiare durante il comunismo!

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    1. Elisabetta

      A noi chi? Io mi ricordo vacanze in ex jugoslavia, posti bellissimi, miseria totale, gente che ti affittava una stanza di casa per campare.

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      1. klaudjia

        A me la raccontavano come del paese dell’uguaglianza e delle pari opportunità dove la ricchezza veniva equamente distribuita…peccato che il comunismo non sapeva produrla la ricchezza!

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        1. Elisabetta

          Ahaha forse qualche anziano del PCI? Di fatto anche quelli erano smaliziati sulla situazione Est, ma io mi riferisco alla mia onfanzia anni 80.

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          1. Lucia

            🤣
            Sì, concordo con la perplessità di Elisabetta: io sono nata nel 1988 e quindi faccio poco testo, ma non mi è mai capitato di pensare all’URSS come a una terra in cui si viveva in pace e prosperità, né mi è mai sembrato di cogliere questa impressione nelle parole dei miei genitori (nemmeno a livello retroattivo, dico. Tipo: “e dire che a noi lo descrivevano come il regno della giustizia sociale…”).

            Probabilmente era davvero questione di prospettive, a seconda di chi ne parlava 👀

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          2. blogdibarbara

            Per te ha sicuramente giocato il fatto di essere cresciuta in ambiente rigorosamente cattolico, nel quale già il solo fatto dell’ateismo di stato giocava decisamente poco a favore della vulgata del paradiso in terra, ma in altri ambienti la leggenda del comunismo panacea di tutti i mali, e quindi la glorificazione dei Paesi in cui era (ed è) al potere, non solo girava, ma ti posso assicurare che gira tuttora.
            Se posso permettermi di autocitarmi
            https://ilblogdibarbara.wordpress.com/2013/06/29/signore-e-signori-ecco-a-voi-il-paradiso-in-terra/

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          3. Elisabetta

            Avete ragione Barbara e Klaudjia però alla fine degli anni 80 e primi 90 anche il comunista della porta accanto, dopo aver visto la vita in Jugoslavia in vacanza e sentito i racconti dei polacchi che riuscivano a venir qui a lavorare qualche domanda se la poneva, ecco. Al di là delle ideologie in cui credeva. O forse tali comunisti han cambiato idea ex post e siamo troppo giovani per ricordarcelo.
            E io parlo della rossissima Emilia. Avevo un prof ex agitatore di fabbrica che parlava del marxismo come della più grande delusione della sua vita…..

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