La memoria delle vittime

Marco, chiamiamolo così, andava a prostitute. Che non è una bella cosa da fare, anche se qualcuno avrebbe detto che pagare una professionista è pur sempre il male minore se l’alternativa è sedurre le ragazze del borgo con false promesse e poi abbandonarle, svergognate e magari incinte, non appena ti trasferiscono in un’altra caserma.

Sarà.

Fatto sta che Marco andava a prostitute, anche se “era un bravo ragazzo, salutava sempre!”, come ebbero poi a dire i suoi conoscenti all’ufficiale medico che indagava sulla vicenda. Marco è un nome di fantasia, ché le archiviste sono confidenti degne di fiducia; fatto sta che andava a prostitute e ci andò anche in quella notte di fine giugno, sfogandosi sotto gli alberi del parchetto dove adesso giocano i bambini.

Leandri, si chiamava, la prostituta. Con rispetto parlando (l’ammiro molto più di tanta gente di oggigiorno): ‘na carampana di cinquant’anni mezza morta di fame, non so come facesse ad avere ancora clienti. Stava così malmessa che, l’anno prima, s’era candidata per prestare servizio come inserviente in un lazzaretto per colerosi allestito nella città vicina. E, regà: al di là del rischio di contagio, avete idea di quanto faccia immensamente schifo, lavorare come inserviente in un lazzaretto pieno di gente che non fa altro che vomitare e defecare da mane a sera? Giusto una disperata si offrirebbe.

Grazie al cielo quella volta era stato un fuoco di paglia, le autorità erano riuscite a circoscrivere il focolaio. In capo a qualche mese, il lazzaretto era stato chiuso e Leandri era tornata alla sua vita di sempre. Ma quello che aveva visto l’aveva cambiata, cioè l’aveva resa più avveduta di tanti altri. Quando, un anno dopo, riconobbe su di sé i primi sintomi della malattia, non ebbe un attimo di dubbio: aveva assistito troppi colerosi per fallire in un’autodiagnosi; ne aveva visti morire troppi, per capire che non c’era tempo da perdere.

Si consegnò alle autorità sanitarie, pur consapevole di quanto facesse immensamente schifo crepare in un ospedale per colerosi: di gran lunga preferibile sarebbe stato il morire a casa, tanto al lazzaretto non erano comunque in grado di curarti. Ma si consegnò, diede l’allarme, fu una delle prime a morire nella seconda ondata e probabilmente contribuì a fornire alle autorità mediche un qualche indizio su come si fosse propagato il contagio.

Si scoprì ad esempio che Marco, oltre ad andare a prostitute, si recava spesso nella locanda gestita da Giuseppa, una anziana donna che arrotondava i guadagni lavando i panni dei marinai che sbarcavano nel porto. Quando le autorità si resero conto che era proprio quella locanda il filo conduttore in grado di collegare tutte le morti che improvvisamente stavano cominciando a registrarsi, qualcuno all’ufficio di sanità sbiancò improvvisamente. L’osteria fu chiusa, i locali e le latrine sanificate; e tutti i parenti e i collaboratori di Giuseppa vennero mandati in casa di contumacia fino a data da destinarsi.

Giuseppa invece no. Lei era già morta, nell’arco di mezza giornata.

Il worst case scenario era successo: s’era trasformata in focolaio di contagio una locanda che ogni giorno serviva cibo a chissà quanti clienti. Non ci fu più nulla da fare, in quella torrida estate del 1854, se non la conta dei caduti. Il più piccolo, Giovanni, aveva due mesi appena.

Arrivata a questo punto, ieri sera ho chiuso Word e sono andata a letto. Ironia della sorte: nella notte ho fatto sonni agitati, sognando che andavo all’ospedale (in un delizioso vestitino ottocentesco viola a mezzo lutto!) cercando di recuperare i loro corpi. Si rifiutavano di darmeli, per ragioni di sicurezza, e a nulla valevano le mie rassicurazioni: “no guardate, io vengo dal 2020, sono piena di Amuchina, giuro che non la faccio scoppiare una epidemia”.
Non me li han dati lo stesso. Ma quando mi sono svegliata, angosciatissima, nel cuor della notte, m’è venuto da sorridere: chissà se è di conforto, per i “miei” morti, sapere che c’è ‘na pazza che se li sogna ancora.

Sono i morti di una epidemia di colera che avevo studiato a lungo nel lontano 2011. Li conoscono ad uno ad uno, ne ricordo i loro nomi; siccome sono pazza, li ho persino ricordati nella mia Messa nuziale, celebratasi sotto quello stesso campanile che li ha accompagnati durante l’agonia coi suoi rintocchi.

***

Io sono strana. E comunque ho passato troppo tempo assieme a loro per non affezionarmi alla loro storia. Però, e qui parlo proprio in senso generale: dovremmo ricordarli di più, i morti delle epidemie.
Ricordarli con nome e cognome, dico. Raccontare la loro storia, come ho fatto sopra. Del resto lo facciamo d’abitudine coi soldati caduti in guerra, che non vengono mai sepolti senza due righe di commiato e senza una bella lapide commemorativa ad perpetuam rei memoriam.
Le vittime e i superstiti di una epidemia, invece, no.
Tendenzialmente, non se li fila mai nessuno.

Non ci sono vincitori durante una epidemia, solamente vinti, e nessuno Stato ha interesse a conservare nei secoli la memoria di una debacle politico-sanitaria che lo umilia. Ce li dimentichiamo, i morti delle epidemie, e non ci affascina neppure la quotidianità di chi dovette piangerli vivendo in un contesto a dir poco assurdo. Le grandi catastrofi della Storia, in genere, sono ricordate (il Titanic e le guerre ci interessano tantissimo, per dire); ma i derelitti che hanno avuto a che fare con una epidemia… tendenzialmente, no. Scompaiono, dimenticati, ridotti a un numero approssimativo in una nota a piè di pagina.  

Mi è di un certo conforto psicologico sapere che non sono solo io a nutrire per loro una simpatia tutta speciale. C’è quantomeno un’altra persona al mondo a condividere il mio stesso atteggiamento – e quella persona è John Oxford, virologo di fama mondiale, considerato uno dei massimi esperti nello studio dell’influenza spagnola.

“Tutti i virologi amano i nuovi virus”, ebbe a dichiarare Oxford in un’intervista, poi ripresa da Gina Kolata nel suo Epidemia. Storia della grande influenza del 1918 e della ricerca di un virus mortale. Tutti i virologi… ma non lui, che invece ha dedicato la sua intera carriera allo studio di un virus scomparso da ormai più di cent’anni. Pare ne abbia fatto una questione d’onore il giorno in cui una donna, venuta a sapere delle sue ricerche, gli mandò una immagine dei suoi genitori, Thomas e Gladys, fotografati nel giorno del loro matrimonio. A pochi mesi dalle nozze, il 7 settembre 1918, Thomas prese la spagnola e morì, lasciando la sua Gladys vedova e incinta. Quando in tarda età anche Gladys si spense, quella foto era ancora sul suo comodino: si era rifatta una vita, ma il ricordo di quel 1918 non era mai scomparso. Ebbene, Oxford cita spesso l’episodio, dicendo che quella fotografia gli ricorda ogni giorno la missione di cui si sente investito: rendere giustizia a quelle vittime, dando la caccia al virus che le uccise.

Nel 1998, gli parve di aver messo alle strette il suo nemico. A Spitsbergen, un’isoletta al largo della Norvegia, era stato identificato il luogo di sepoltura di sette minatori che erano riemersi dalle pieghe del tempo attraverso le pagine di un libro di cronache tenuto dalla compagna mineraria locale. Si parlava, su quelle carte ingiallite, di sette uomini dai diciotto ai ventinove anni che erano stati assunti dalla compagnia per prestare servizio nella miniera locale. Ahiloro: durante il viaggio in nave che li stava portando sull’isola, i sette ragazzi contrassero la spagnola; sbarcarono già malati e lì morirono, nella prima settimana di ottobre del 1918. Si chiamavano Johan Bjerk, William Henry Richardsen, Ole Kristofferson, Magnus Gabrielson, Tormod Albrigtsen, Hans Hansen e Kristian Hansen.

Furono sepolti in fretta e furia nel posto più lontano possibile del villaggio, là dove il terreno è oggi ricoperto da uno spesso strato di permafrost. Quando, verso la metà degli anni Novanta, si riuscì a identificare il luogo di sepoltura, si mise su un team di virologi, biologi molecolari, geologi, archeologi e becchini incaricato di riesumare i corpi. Si sperava che il permafrost avesse garantito uno stato di conservazione tale da permettere agli scienziati di prelevare campioni di tessuto su cui isolare il virus che aveva stroncato quei ragazzi.  

“Era un virus che aveva ucciso cento milioni di persone, non volevamo renderci responsabili di un’altra pandemia”, disse Oxford. “Benché ritenessimo assai improbabile che qualcuno si potesse contagiare, visto che un cadavere congelato non può infettare nessuno, sotto il profilo scientifico giudicammo importante usare le massime precauzioni”. Quando, nell’estate 1998, si diede finalmente il via agli scavi, l’esumazione fu così laboriosa che, mentre i becchini e gli archeologi scavavano, gli scienziati ebbero tutto il tempo di ritirarsi nei rispettivi alloggi, godersi qualche ora di relax, prendere un buon tè e meditare su ciò che si stava per compiere.

Oxford si rifugiò in una baita vista cimitero. Si preparò un tè forte, rilesse qualche documento, cercò di immaginare le ultime ore di quei giovanotti e poi scrisse d’impulso una riflessione che intitolò L’insidia.

Vi immagino nel vostro viaggio, forti, energici, onesti minatori, pronti a scavare il duro ghiaccio con i vostri picconi. Salutaste la famiglia lasciando il porto anseatico in settembre. Ma una misteriosa insidia viaggiò con voi, e in voi, per annientarvi.
All’inizio la sottovalutaste, scambiandola per il solito mal di mare. Ma non era quello: era ben altro il male segreto che vi vinse.
Sgomenti, guardaste il primo di voi morire. E poi il secondo. E infine vi ritrovaste in sette nella camera ardente del villaggio. Dentro, la luce tremula delle candele; fuori, il vento e la neve eterni.
Vi seppellirono nelle tombe più lontane, nel cimitero ghiacciato dove avreste dovuto restare per sempre congelati, immobili, intatti, sino alla fine dei tempi. E ora invece vi risvegliamo, cercando la verità.
Vi allieta? Vi rattrista? Vi atterrisce? Vi offende? O in fondo vi inorgoglisce, questa nostra ricerca?
Ne siete fieri, io lo so: non vi dispiace darci una mano, aiutarci.
Non vi faremo male, lo prometto: solo un piccolo raggio di luce quando scoperchieremo la terra, solo un pertugio. Poi di nuovo nel gelo a dormire, come ora, per sempre.

Non sarò io, sarà il mio amico col camice bianco e la maschera da chirurgo. Ma non temete. Il breve morso della biopsia dei polmoni: tutto lì.

So che anche voi lo volete. Col vostro aiuto, l’insidia che un giorno vi vinse forse non vincerà, un giorno, altri innocenti come voi.

All’atto pratico: non servì a niente.
Il virus dell’influenza spagnola è stato sì isolato e sequenziato, ma non sui corpi di quei sette minatori. Con molta delusione, ci si rese conto in quel frangente che le vittime erano state interrate a una profondità insufficiente: nonostante le basse temperature, quell’affrettata sepoltura non era stata sufficiente a proteggere i corpi dal processo di decomposizione.

E allora, Oxford tornò alla scrivania e compose quest’altra riflessione:

Fu così che vi seppellirono in fretta.
La dinamite aprì un varco, ma nel buio e nel gelo non scavarono a fondo. Vi deposero l’uno a fianco all’altro perché non vi sentiste soli, poi uno di loro andò alla spiaggia, riempì un secchio di sabbia e con quella recitarono “polvere alla polvere”. Fu il primo oggetto che trovammo ottant’anni dopo, quando scoperchiammo la tomba.
Anno dopo anno, vi eravate spinti in su, sperando di scorgere la luce. Col nostro aiuto l’avete vista; ma noi, pur avendo sperato di farlo, non abbiamo visto voi, non il vostro volto di allora.
“Scheletro di giovane uomo sano”, diceva il referto autoptico.
Ma non è vero. Non eravate mica così sani.

Ora è finita, e stavolta per sempre. Nessun altro vi disturberà. Sino alla fine dei tempi, sino alla resurrezione.

Non penso di esagerare se definisco “struggente” l’attenzione affettuosa mostrata dallo scienziato nei confronti di sette scheletri vecchi di ottant’anni. Immagino che per Oxford sia questo atteggiamento mentale quello che ogni giorno gli ricorda ciò per cui è lì, impegnato a fare quello che sta facendo.

Fatte le dovute proporzioni e tornando a parlare del mio piccolo: per me, è più che altro una questione di numeri. Odio i numeri, le date, le statistiche. Troverei ben triste rimestare ogni giorno tra le vecchie carte se non riuscissi a fare amicizia con quelli che le hanno scritte. È, in un certo senso, un modo per continuare a farli vivere e per far rivivere le loro storie: per me, rende il tutto appassionante come il leggere un romanzo inedito.

Cala la sera su questo 2020 e il Web pullula di annunci con cui la gente dichiara di voler cancellare per sempre dalla memoria quest’anno horribilis: fare tabula rasa, ricominciare da zero.
Per carità, sensibilità legittima, ci mancherebbe. Ma io vado in controtendenza e dirò invece che spero di ricordarmelo per sempre, questo 2020, in ogni suo singolo momento e anche e soprattutto in quelli più tragici. E spero che alcune belle iniziative social permettano a questo periodo di imprimersi davvero a fondo nella memoria collettiva. I vivi e i morti, il lutto più stretto e la quotidianità ridente e faticosa: io spero davvero che non si perdano, stavolta.

Se tra cento o due cent’anni qualche collega vorrà raccontare la nostra storia e deciderà di farlo pubblicando le nostre foto sui social; e descriverà le nostre vite stravolte e il nostro lutto, e riderà per i nostri meme e si stupirà per le dimensioni raggiunte dal complottismo, e farà rivivere con tratti di penna i nostri compleanni in lockdown, la grande corsa alla carta igienica, i chilometri di coda davanti al supermercato il Venerdì Santo e le mascherine fashion di cotone quando non si trovavano le chirugiche… allora, forse per la prima volta nella Storia, sarà facile descrivere realisticamente ciò che è stato. Descriverlo andando oltre ai freddi numeri, intendo: oltre alle percentuali e alle statistiche.

“Non sentiremo la tua mancanza, 2020!”, dicono i meme che girano su Internet in questi giorni. E direi che questo è abbastanza condiviso. Ma io personalmente spero di ricordarti a lungo, 2020. E magari anche di saperti raccontare ai posteri con quel rispetto con cui si guarda al nemico, quando concede l’onore delle armi.

Edit del 18 marzo 2022: in copertina, l’immagine dell’installazione artistica In America: Remember di Susanne Brennan Firstenberg, ospitata nel settembre 2021 nel National Mall di Washington DC. Nel prato erano state piantate 666.624 bandierine bianche, una per ogni statunitense morto di Covid fino a quella data, con brevi indicazioni anagrafiche per ognuno di loro. “Quando i numero diventano così grandi, comincia a essere difficile capirli davvero”, ebbe a dichiarare l’ideatrice del progetto, “e così, essendo una artista visuale, ho voluto dare un corpo a questo numero. Ho voluto renderlo fisicamente”. Se Susan ripetesse oggi la sua installazione, le bandierine da piantare sarebbero circa 969.000.

Edit del 18 marzo 2023: e oggi, circa 1.121.512.

Edit del 18 marzo 2024: e oggi, circa 1.184.376

11 risposte a "La memoria delle vittime"

  1. Francesca

    “Io sono strana”

    Siamo almeno in due. (anche riguardo alle preghiere per defunti semi-sconosciuti… A volte anche in assenza di nome e cognome)

    Per me questo è uno dei migliori post dell’intero blog. Ci sono così tanti punti che andrebbero “meditati” e proposti (e oserei dire anche “imposti” all’attenzione di chi si occupa di cultura, scuola, scienza…) E allo stesso tempo mi rendo conto che è difficilissimo far passare questo tipo di cultura.

    Perché “la gente” non capisce?
    Non credo che la risposta sia semplicissima.

    (Se c’è un punto sul quale concordo poco, anche se lo scopo del tuo articolo non era quello di approfondirlo e magari analizzando la questione potrebbe anche parzialmente modificarsi la visione, non so… Comunque non concordo molto con la tua affermazione “nessuno Stato ha interesse a conservare nei secoli la memoria di una debacle politico-sanitaria che lo umilia” . Secondo me la cosa parte molto più “dal basso”, per così dire. Insomma: casa, famiglia, nei singoli individui con le loro idee impermeabili a qualsiasi politica, a qualsiasi governo).

    Per tutto il resto: un post prezioso
    (non inficiato da un’unica frase che mi vede concorde solo in minima parte).

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    1. Lucia

      💛

      Grazie Francesca, e pensa che poco prima di pubblicare il post ero in dubbio se premere su “invia” o se cestinarlo del tutto, perché temevo non si capisse dove volevo andare a parare. E non hai idea di quanto mi abbia fatto piacere invece leggere il tuo commento!

      Circa il punto che ti lascia perplessa… in effetti stavo cercando di sintetizzare in due righe (per non allungare troppo il brodo) un discorso molto più lungo (che, in parte, avevo già fatto qui). Se analizziamo la questione, ti do pienamente ragione… ma resto convinta di avere ragione (anche) io 🤣 E mi spiego:

      Sì, hai sicuramente ragione, è una dimenticanza collettiva che parte dal basso: casa, famiglia, singoli individui.
      Onestamente, non so nemmeno se si “salvino” le famiglie che a causa dell’epidemia hanno perso qualcheduno. Ho il sospetto che, salvo tragedie da ecatombe (tipo l’epidemia che ti dimezza la famiglia), nell’arco di qualche anno il ricordo si attutisca in un generico lutto per cui, tutto sommato (colera o cancro che fosse) hai subito un lutto e ciao.

      Quindi: sì, ti do pienamente ragione, è una dimenticanza che parte dal basso, e non è in alcun modo causata da una visione politica specifica (intesa come: per quale partito vota lo smemorato).

      Però credo che sia anche una questione che riguarda lo Stato e la politica nel senso pieno e più nobile del termine (cioè: indipendentemente da chi è la maggioranza al governo). E mi spiego.

      Ci sono eventi tragici che lo Stato ci tiene fortemente a ricordare, proprio per supplire alla smemoratezza che potrebbe cogliere il singolo cittadino se lasciato a se stesso. Cioè: lo sterminio degli Ebrei non riesci a dimenticarlo manco se ci provi, visto che (giustamente) ogni anno ci vengono proposti millemila memoriali in occasione della giornata dedicata al ricordo delle vittime. Può anche darsi che in famiglia nessuno ti abbia mai parlato della tragedia, ma appena raggiungi l’età scolara ci pensano i professori ad affrontare l’argomento, e questa è una scelta “politica” fatta dallo Stato (ma lo dico in senso buono, eh!).

      E potrei anche aggiungere che, secondo me, la memoria collettiva che un popolo ha di un determinato evento è in gran parte influenzata dalla politica del suo Stato (di nuovo: in senso generale, non in senso di partiti). Penso ad esempio ai caduti della prima guerra mondiale (che, diciamocelo, in Italia non è che vengano ricordati un granché); nel Regno Unito invece il loro ricordo è vivissimo perché la famiglia reale organizza ogni anno una parata al cenotafio, sponsorizza l’uso delle spillette a forma di papavero da indossare lungo il mese di novembre per tenere viva la memoria, etc. Qui in Italia non ci sono iniziative di questo tipo, anzi al 4 novembre non si sta nemmeno più a casa dal lavoro, e la differenza si vede.

      In questo senso, dico che è anche una dimenticanza che arriva dall’alto. O meglio: arriva dall’alto e dal basso contemporaneamente, ma a differenza di quanto accade in altri frangenti qui non c’è una iniziativa istituzionale per supplire alla mancanza di memoria dei cittadini.

      Al limite, ti mettono magari una targhetta in memoria dell’eroe della situazione (“qui lavorò e perse la vita il medico eroico che bla bla bla”). Però una “giornata della memoria delle vittime del colera” io non l’ho vista mai, né in Italia né all’estero, e penso che la ragione di fondo sia che le epidemie sono tragedie molto difficili da elaborare. Non hai dei soldati che muoiono combattendo il nemico (se non, al limite, nel caso dei medici-eroi, in senso lato); non hai una tragedia attribuibile solo al destino cinico e baro (tipo, che ne so, un terremoto; la gravità di una epidemia dipende anche da come la si gestisce); non hai chissà quanti ricordi gloriosi da cementare nella memoria (più che altro hai immagini di medici impotenti che non riescono ad arginare il contagio). Insomma, è una cosa così desolante nel complesso che secondo me gli Stati non ci hanno mai tenuto più di tanto a ricordarla 😅

      (Chissà cosa succederà questa volta. Se tutto va bene, col vaccino creato a tempo record potremmo davvero avere gli eroi della situazione e una vittoria contro il nemico che val la pena di ricordare nei secoli).

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      1. Francesca

        “pensa che poco prima di pubblicare il post ero in dubbio se premere su “invia” o se cestinarlo del tutto, perché temevo non si capisse dove volevo andare a parare”

        😮
        Eh… Il problema è proprio che oggi ci sarebbe da insistere perché si capisca.

        Sulla questione delle cause (“alte” o “basse”), diciamo che – prima di questa pandemia – in linea di massima concordavo con la tesi “alta”, alla quale però (per vicende personalissime) da un paio di decenni avevo associato una certa riflessione sulle cause provenienti “dal basso”.
        La mia conclusione – prima dell’epidemia – era sempre come la tua, cioè: “ma se io cercassi di spiegarlo, chi cavolo mi capisce…?!?”.

        Invece, adesso, soprattutto dopo la cosiddetta seconda ondata e, aggiungerei, soprattutto qui nella mia regione (=Veneto) ho montagne di dati “scientifici” (passatemi il termine) per dare alla causa bassa il rilievo che andrebbe… rilevato, e studiato, e imparato, e, e, e… tanto altro. Anche in questo senso i racconti con l’approccio come il tuo andrebbero diffusi. O perlomeno …tentare.

        Ci sarebbero tanti ambiti da indagare: psicologico, sociologico, … e poi quello che (purtroppo è un parolone…) si definisce di antropologia culturale – con il grande punto di domanda del “come” si determina la cultura di un gruppo, di un popolo, eccetera.
        Insomma, roba per scienziati 😭😂 certamente, per filosofi e tanto altro. Però 2 chiacchiere le possiamo fare anche noi.

        Secondo me, quello che vedo nella mia regione (che fin dall’inizio dell’epidemia seguo moltissimo nei report/dati scientifici, medici, organizzativi, istituzionali, politici, ecc.) è abbastanza estendibile a tutti gli italiani. IMHO. (Mentre per giudicare gli europei in generale: non saprei, non ne so abbastanza).
        E perciò osservo quanto segue:
        ok la seconda ondata è molto più aggressiva, più contagiosa e più grave nelle conseguenze cliniche, probabile a causa del virus variato (individuate e certificate in Veneto 8 varianti non presenti nella prima ondata. Il virus di marzo qui non c’è più, e neanche la variante abbastanza “innocua” di giugno-luglio) …e al virus che varia non gli puoi opporre niente;
        ok noi veneti siamo stati “gialli” da mo’, e perciò la gente a partire da maggio era effettivamente e legalmente autorizzata ad andare ovunque con chiunque, come se niente fosse (e infatti ci andava);

        dall’altro lato è anche ben certificato e assodato che l’organizzazione sanitaria veneta con tutti i protocolli perfezionati “contro la seconda ondata” sono stati migliorati di mille volte rispetto alla prima ondata. E non sto esagerando. (Tra parentesi: ho potuto testarlo direttamente in famiglia per una emergenza non-covid che necessitava di un delicato intervento chirurgico. Qualche settimana fa eravamo in pieno picco… e non ci sono stati neanche 5 minuti di ritardi né altri ostacoli o disorganizzazioni. Da notare che il nostro ospedale di riferimento è pure tra quelli “più intasati” dalla seconda ondata. In ogni caso, intasato o meno intasato, il ricovero funziona sempre così: anche per tutti i pazienti non-covid l’entrata negli ospedali è come l’entrata in carcere. I contatti con la famiglia possono essere solo telefonici. Sempreché il paziente sia in grado di parlare al telefono).

        Non vado oltre e arrivo al mio punto: ciò che è davvero MOLTO cambiato all’annunciarsi della seconda ondata (ottobre) qui è stato l’atteggiamento della gente. .
        Io non so cosa avvenga dalle vostre parti, ma qui – al primo accenno statistico di qualche ricovero in più per coronavirus – è partito subito il martellamento mediatico: continui spot dappertutto con il nostro President (Zaia) che ci insegna a metterci la mascherina e ci ripete da allora (every day!) che se si intasassero gli ospedali non si potrebbero curare neanche le patologie non-covid “perché anche il miglior sistema ad un certo punto non regge più”; continue ripetizioni e talk-show (da mattina a sera) con tutti gli esponenti di ogni parte politica, di ogni cultura, di ogni gruppo sociale, e tutti i direttori sanitari che battono sullo stesso punto. (Da tenere presente che qui c’è un network televisivo che fa come minimo 8 ore di dirette quotidiane, sono tutte tivù seguite mediamente dai cittadini veneti in misura parecchio maggiore di Rai e Mediaset. In questi canali sono presenti – a parte il quotidiano Zaia (se volete vederlo in altre parti d’Italia guardatelo su Facebook, e tenete conto che la sua presenza su Fb è una piccola percentuale della copertura mediatica), posso seguire il team di medici, di tecnici e dirigenti che fanno informazione quotidiana – Praticamente: accendendo la tivù, di giorno o di notte, posso conoscere nel dettaglio la situazione di ogni provincia veneta, di ogni ospedale, e di ogni focolaio che accadesse qui o là in tal paesello o in tale azienda, ogni singolo giorno, ripetuto più volte al giorno, e mandato in replica per tutta la notte (su più canali televisivi).
        Gli stessi report si trovano anche in internet sui siti istituzionali veneti, ecc.

        Eccoci… Dopo aver fornito questo quadretto che, spero, descriva adeguatamente il martellamento che qui avviene a livello regionale, provinciale e locale,
        e dopo la constatazione che (a differenza di marzo-aprile) ogni famiglia nella seconda ondata ha avuto esperienza diretta di parenti o di amici o di conoscenti colpiti gravemente e/o anche morti: qual è il risultato?
        Da quello che posso osservare personalmente quando esco di casa, e da quello che viene rilevato dai diversi esperti succitati (cioè medici, dirigenti sanitari e quelli che fanno il contact tracing), una percentuale esagerata di gente se ne frega di tutto ciò. Il fenomeno si potrebbe attualmente quantificare all’incirca con una percentuale 60/40% (cioè il 60% se ne frega, il 40% si comporta secondo la reale situazione epidemica).

        Per dirla altrimenti: non solo molta gente si è scordata e ha archiviato l’esperienza precedente, ma si scorda perfino di quello che ha sotto gli occhi.
        Come si interpreta tutto ciò?
        In tanti modi, certamente.
        E ritorniamo sempre lì, ma con un’aggravante: oggi alle persone – in Occidente – vengono forniti tanti (proprio tanti) mezzi coi quali proteggersi. Strumenti di informazione, conoscitivi, e strumenti sanitari per contrastare il contagio.
        Eppure, sembra che il comportamento non si discosti molto da quello della gente in Africa o in India. (Solo che in Africa e in India non hanno molta scelta).

        Notte

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      2. Francesca

        Detto ciò, sottolineo ancora che il tuo post va a toccare una miriade di presupposti, … di background, che andrebbero ad aprire tante strade giuste… se solo si volessero aprire 😑 , a qualunque livello

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  2. Lucia

    Oooohh, e forse c’è anche qualcun altro che la pensa come noi!

    http://www.diocesi.pavia.it/2021/01/14/le-diocesi-in-tempo-di-pandemia-si-raccontano-attivato-il-sito-memoriadelcovid-it/

    E’ attivo da lunedì 11 gennaio il sito http://www.memoriadelcovid.it con il racconto di come le diocesi italiane hanno vissuto e stanno vivendo questo tempo di pandemia: un filo di narrazione che unisce tutto il Paese realizzato attraverso i servizi giornalistici (articoli, video, documentari, podcast e webdoc) delle testate aderenti alla Fisc e all’Associazione Corallo in un’iniziativa resa possibile grazie al coordinamento dell’Ufficio Nazionale per le Comunicazioni Sociali della Conferenza Episcopale Italiana.

    “Con lo sguardo del Narratore, l’unico – come ha ricordato papa Francesco nel Messaggio per la Giornata mondiale delle comunicazioni sociali 2020 – che ha il punto di vista finale, dobbiamo avvicinarci ai protagonisti, ai nostri fratelli e sorelle, attori accanto a noi della storia di oggi”.

    http://www.memoriadelcovid.it propone, quindi, un percorso di testimonianza che vuole essere spunto perché la memoria di questo tempo non vada perduta ma diventi anche spunto per fare di noi ancora una volta annunciatori di quella nostra Speranza di cui in ogni momento siamo chiamati a dare ragione.

    “Il progetto mette in luce anche l’importante ruolo svolto dai media di ispirazione ecclesiale che, nonostante le difficoltà, hanno saputo essere “coscienza civile” del Paese e raccontare quell’impegno di prossimità delle comunità, più volte sollecitato anche da papa Francesco nel corso del suo Magistero”, sottolineano Mauro Ungaro, presidente della FISC, la federazione Italiana Settimanali Cattolici e Luigi Bardelli, Presidente di Corallo.

    Il sito – raccogliendo ad oggi più di 300 contributi – propone la possibilità di ricercare le storie per tematica (Bambini, ragazzi e giovani, famiglie, anziani, sacerdoti, scuola, carità, terzo mondo) ma anche per localizzazione geografica delle testate Fisc e Corallo partecipanti: in questa prima fase è stato inserito solo parte del materiale a disposizione ma in futuro il sito verrà implementato con ulteriori contributi.

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  3. Umberto

    Salve Lucia,

    E’ veramente una bellissima riflessione e in questi giorni, a fine 2022, sembra acquisire ancora più senso.
    Grazie mille per averla scritta.

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  4. Pingback: Perché facciamo così poca memoria delle epidemie? (Tre anni dopo) – Una penna spuntata

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