Di quando la pizza faceva schifo un po’ a tutti

No, questo non è il solito articolo che ruota attorno alla storiella della regina Margherita che, in visita a Napoli, s’innamora della pizza pomodoro e mozzarella, finendo col battezzarla e col renderla famosa.
Beninteso: si tratta d’una storia vera, che mi troverò a citare anch’io; ma l’aneddoto acquisisce ancora più valore se lo si contestualizza nel periodo storico in cui ha avuto luogo. Lo storico John Dickie definisce quella scorpacciata di pizza della regina Margherita «più o meno l’equivalente di fine Ottocento del gesto compiuto dalla principessa Diana d’Inghilterra nel 1987, quando abbracciò un malato di Aids»; e se il paragone vi sembra eccessivo: beh, continuate a leggere e probabilmente vi renderete conto che non si tratta poi di una esagerazione.

Il fatto gli è che (incredibile ma vero) nel momento in cui Margherita di Savoia assaggiava quella famosa fetta di pizza, il piatto tipico della cucina partenopea tendeva a fare schifo un po’ a tutti. O, per meglio dire: faceva schifo ai ricchi, ai benpensanti, agli schizzinosi e a tutti quelli che abitavano un po’ più a nord di Napoli. In questo senso, ebbe un altissimo valore simbolico il gesto della regina d’Italia, che (probabilmente sfidando gli sguardi orripilati dei suoi accompagnatori) volle gustare quel piatto popolare: era un modo per dire “cari Napoletani, sono dalla vostra parte. Non do credito ai pregiudizi che vi accompagnano”. Naturalmente, qualcuno potrebbe voler discutere sul grado di sincerità di queste affermazioni, ma ciò non toglie che il gesto di Margherita di Savoia fu (e dichiaratamente) un’iniziativa di PR. Fra l’altro, ben riuscita.

Ma perché, all’epoca, la pizza non piaceva?
A questa domanda si potrebbe rispondere con un’ampia gamma di considerazioni; ma probabilmente la spiegazione più semplice e diretta è quella per cui, nella Napoli del XIX secolo, la pizza era (nella maggior parte dei casi) qualcosa di assai diverso dal piatto ancora fumante che i camerieri d’oggi ci portano in tavola, pochi secondi dopo che il pizzaiolo l’ha estratto dal forno a legna. All’epoca, la pizza era perlopiù un cibo da strada, che veniva venduto sui banchi del mercato e su carrettini dei venditori ambulanti che transitavano nei rioni più poveri della città. Alexandre Dumas, che visitò Napoli negli anni ’30 dell’Ottocento, ci descrive il cibo in questi termini:   

è una specie di schiacciata come se ne fanno a Saint Denis: è di forma rotonda e si lavora come la pasta del pane. Varia nel diametro secondo il prezzo. […] Altra cosa influisce sul costo della pizza: la sua maggiore o minore freschezza. Si capisce che non si può vendere la pizza del giorno prima allo stesso prezzo di quella della giornata; vi sono per le piccole borse pizze di una settimana

…che – diciamolo pure – non dovevano essere ‘sta gran meraviglia. Non mi stupisce che ‘sta roba avesse pochi fan.

Ed è pur vero che esistevano anche delle pizzerie più simili a quelle che conosciamo oggi, ove era possibile sedersi a un tavolo e farsi servire una pizza ancora calda (una indagine del 1870 ne censì centoventi nella sola città di Napoli). Ma questo tipo di locali non doveva essere la norma. Per la stragrande maggioranza della popolazione, la pizza era un cibo povero, da consumare quando non era possibile permettersi qualcosa di meglio; era probabilmente quanto di più economico fosse possibile trovare in vendita quando si era fuori casa e, in qualche modo, occorreva riempir lo stomaco. Così scriveva nel 1884 la giornalista napoletana Matilde Serao:

Il pizzaiuolo che ha bottega, nella notte, fa un gran numero di queste schiacciate rotonde, di una pasta densa, che si brucia, ma non si cuoce, cariche di pomidoro quasi crudo, di aglio, di pepe, di origano; queste pizze, tagliate in tanti settori da un soldo, sono affidate a un garzone le va a vendere in qualche angolo di strada, sovra un banchetto ambulante; e lì resta quasi tutto il giorno, con questi settori di pizza che si gelano al freddo, che s’ingialliscono al sole, mangiati dalle mosche.

E alla fine della giornata di lavoro? Beh: per smaltire l’invenduto (e per non tenersi sette giorni sul groppone le pizzette stantie sperimentate da Dumas), i pizzaioli decidevano di stuzzicare la clientela puntando sull’home delivery. Ed è così che le vie di Napoli si riempivano di

garzoni che portano sulla testa un grande scudo convesso di stagno entro cui stanno queste fette di pizza, e girano pei vicoli e danno in un grido speciale, dicendo che la pizza ce l’hanno col pomidoro e con l’aglio, con la muzzarella e con le alici salate. Le povere donne, seduto sullo scalino del basso, ne comprano e cenano, cioè pranzano, con questo soldo di pizza

che, sorprendentemente, era ancora più economica rispetto al cibo che le massaie avrebbero potuto preparare in casa. Per fare un paragone eloquente, Matilde Serao ci informa che occorrevano all’incirca quattro soldi per potersi preparare un’insalata di pomodori e cipolle.

Cibo povero per poveri, la pizza tendeva a essere guardata dall’alto in basso dalla media e medio-alta borghesia. E se i Napoletani DOC sapevano benissimo quali erano i locali in cui era possibile gustare pizze ben condite e ancora calde, degne di rivaleggiare con quelle che conosciamo oggi, diciamo pure che i turisti non si sentivano particolarmente invogliati ad assaggiare la versione deluxe di quel cibo da strada unto e stantio. Nel suo Il viaggio per l’Italia di Giannettino, Carlo Collodi non usa mezzi termini per sottolineare il disgusto con cui molti stranieri guardavano a quel piatto:

Vuoi sapere che cos’è la pizza? È una schiacciata di pasta di pane lievitata, e abbrustolita in forno, con sopra una salsa di ogni cosa un po’. Quel nero del pane abbrustolito, quel bianchiccio dell’aglio e dell’alice, quel giallo-verdacchio dell’olio e dell’erbucce soffritte e quei pezzetti rossi qua e là di pomidoro danno alla pizza un’aria di sudiciume complicato che sta benissimo in armonia con quello del venditore.

E non si trattava solamente di snobismo culturale.
Oltre al pregiudizio (che senz’altro era presente), c’era anche una preoccupazione di natura sanitaria, che sarebbe forse ingeneroso definire “giustificata” ma che non è eccessivo etichettare come “comprensibile”.
Nella seconda metà dell’Ottocento, il colera era diventato endemico a Napoli, al punto tale che, quando in un quartiere qualcuno s’ammalava, diventava praticamente impossibile controllare l’epidemia e isolare i focolai di contagio: una circostanza che, inevitabilmente, spingeva molti viaggiatori a volersi tenere ben lontani dalla città. Il fatto poi che, in altre zone d’Europa, il colera fosse già stato sconfitto alimentava un pregiudizio (nei fatti immotivato) che vedeva Napoli come una città particolarmente sudicia, la cui popolazione non era neppure in grado di tenersi in salute.

Il problema di Napoli, ovviamente, non risiedeva nel lerciume ma, principalmente, in un impianto fognario ormai obsoleto che avrebbe avuto urgentemente bisogno di una ristrutturazione (e infatti, quando questo avvenne, il colera cessò di fare vittime in città). Ma, per intanto, gli stranieri e i connazionali che risiedevano in altre zone d’Italia puntavano il dito sulla sporcizia e sulla poca igiene che, a loro dire, caratterizzavano la città di Napoli (per rendere l’idea, nel 1867 Mark Twain avrebbe impietosamente scritto «non vi è popolazione che odi il colera quanto i napoletani. Ma hanno le loro buone ragioni. Il colera di solito sconfigge il napoletano, perché, voi capite, prima che il medico possa scavare nel sudiciume e raggiungere il male, l’uomo è morto»).

E, se questi erano i timori di partenza, in fin dei conti non stupisce che la gente guardasse con disgusto alla pizza napoletana: cibo venduto per la strada, esposto per ore e ore a ogni tipo di lordura reale e immaginaria, in balia delle mosche e dei miasmi pestilenziali e, soprattutto, smanacciato da mane a sera da garzoni con le dita sporche, che intascavano denaro e porgevano cibo senza soluzione di continuità, senza tovaglioli e senza alcuno sforzo per pulirsi.

Insomma, la situazione non era esattamente confortante: e, nell’immaginario collettivo dei non-partenopei, quel cibo venduto ai lati della strada era diventatu un po’ il simbolo di tutto quello che si riteneva non andasse nella città di Napoli. Lerce, anti-igieniche e adatte solo a dei morti di fame, le povere pizzette facevano ribrezzo per il solo fatto d’esistere.

Proprio per questo ebbe un altissimo valore simbolico il gesto con cui la regina Margherita domandò di poter gustare un piatto di pizza nel corso della sua visita a Napoli, nel 1889.

Poco ma sicuro, quella che le fu servita fu una pizza con tutti i crismi, che aveva ben poco a che vedere con quei tranci stantii venduti nei quartieri poveri (e che – non c’è nemmeno bisogno di dirlo – fu preparata con ingredienti di prima scelta in condizioni di totale sicurezza sanitaria): la “pizza margherita” della regina fu cotta nel forno a legna della reggia di Capodimonte dal più apprezzato pizzaiolo (per ricchi) della Napoli di quel tempo, che era stato convocato a palazzo appositamente allo scopo di soddisfare la curiosità della nobildonna. Ma queste sono sottigliezze di poco conto, nel momento in cui si crea a tavolino una leggenda: a contare veramente, in quel 1889, fu il significato del gesto compiuto dalla regina. «Concedere l’approvazione reale al piatto più povero della città più povera d’Italia fu un atto politicamente e umanamente lungimirante», scrive a buon diritto lo storico John Dickie. Concludendo per l’appunto: «più o meno l’equivalente di fine Ottocento del gesto compiuto dalla principessa Diana d’Inghilterra nel 1987, quando abbracciò un malato di Aids».

E quello che, fino a qualche minuto fa, ci sembrava probabilmente un paragone azzardo, adesso assume improvvisamente tutt’un altro spessore.


Per approfondire:

John Dickie, Con Gusto. Storia degli Italiani a tavola (Laterza, 2021)
Luciano Pignataro, La pizza. Una storia contemporanea (Hoepli, 2018)

6 risposte a "Di quando la pizza faceva schifo un po’ a tutti"

  1. Celia

    Dio: “in totale sicurezza sanitaria” non saprei se l’abbia effettivamente consumata, quella pizza; non per sfiducia lo dico ma perché, come ben sappiamo, manco oggi i criteri igienici di base li osservano in molti… 😉

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  2. luigi

    Ahahah! “La pizza è simile alla schiacciata di Saint Denis” dice Dumas. Se mai il contrario. Ma chi la conosce la schiacciata di Saint Denis? La storia ti smentisce caro Dumas!

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    1. Lucia Graziano

      In effetti sarei anche curiosa di sapere com’era fatta, questa schiacciata di Saint Denis 😂
      Da una ricerca su Google vedo che a Saint-Denis fanno una caratteristica focaccia aromatizzata al timo (buona!), ma è Saint-Denis in Aosta. Così a naso, immagino che Dumas parlasse di schiacciate che venivano vendute sul piazzale della chiesa francese…

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