La polvere dell’11 settembre

Nell’incubo di quel giorno, fu un elemento in particolare a lasciare del tutto sgomenti i soccorritori: due grattacieli di centodieci piani sembravano essere spariti nel nulla. Là dove prima c’era il World Trade Center, adesso c’era solo un gigantesco cumulo di polvere.

Era uno spettacolo frastornante, a cui i soccorritori non erano minimamente preparati. “Devi intervenire su un edificio alto centodieci piani, e di colpo non c’è più niente”, dichiarò uno di loro nel documentario 9/11. “Non trovi scrivanie, non trovi sedie, non trovi computer. Il pezzo più grande che sono riuscito a trovare era un frammento di telefono, ed era un tastierino grosso così. Un intero grattacielo si era trasformato in polvere”. Era disorientante. “Come si fa a trovare qualcuno, in mezzo a questa roba?”. Accantonata rapidamente la speranza di trovare superstiti tra le macerie, sembrava utopia persino la possibilità di recuperare i cadaveri.

Era qualcosa che lasciava sgomenti. Ne parlarono, nei giorni immediatamente successivi all’11 settembre, non solamente i soccorritori disorientati, ma anche i newyorkesi che non riuscivano a capacitarsi di cosa fosse accaduto alla loro città. Certo, razionalmente c’erano dei punti fermi: s’era stati vittima di un attacco terroristico che fino a quel momento nessuno avrebbe ritenuto possibile, ovviamente; s’era dovuto assistere inermi al crollo di due edifici e alla morte tragica di tutti coloro che ci si trovavano dentro. Ma la cosa veramente straniante, quella di cui molti newyorkesi dichiararono di non riuscire a capacitarsi in termini razionali, era proprio quella polvere. Quella polvere dappertutto. Come se due grattacieli si fossero tutto d’un colpo dissolti; come se la materia stessa si fosse annientata in un fenomeno che, a molti newyorkesi, parve veramente ai limiti della fisica. Non s’era mai visto nulla di simile.

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E così, la polvere dell’11 settembre si impose come l’immagine dominante dell’immediato aftermath dell’attacco terroristico. Era infinitamente fotografabile, persino suggestiva (se per assurdo volessimo usare questo aggettivo) nel modo in cui copriva le strade, i corpi, le facciate degli edifici trasfigurando completamente il paesaggio urbano. Sembrava una specie nevicata innaturale, poetica e spettrale a un tempo. Alcune immagini divennero icone: uno degli scatti più celebri, firmato da Susan Meiselas, ritraeva la statua Double Check inondata da un mare di detriti. La scultura, scolpita nel 1982 a rappresentare un businessman di successo al lavoro su una panchina di Wall Street, adesso sembrava un relitto archeologico proveniente da un tempo che forse non sarebbe stato più: definirla “iconica” sarebbe dire poco; e fu solo il caso più celebre delle tante occorrenze in cui la polvere si trasformò in reperto.

La vetrina di un negozio di abbigliamento non lontano dal World Trade Center lasciò in esposizione per mesi una fila di jeans ricoperti di polvere, a testimonianza di ciò che era stato (quando, un anno più tardi, il negozio chiuse, donò quei pantaloni a un museo, che li conserva ancora oggi); sul New York Times, commosse molti la fotografia di un servizio da tè completamente inondato dal pulviscolo in un salotto di Manhattan – la tragedia che irrompe nella quotidianità più quieta. E persino il sindaco di New York ebbe l’intuizione di non far pulire le scarpe che indossava il giorno della sua prima visita a Ground Zero, già percependo evidentemente quei resti come reliquia.

Per chi era a Manhattan in quel giorno, la prossimità alla polvere divenne, almeno nell’immediato, la misura del proprio trauma. I superstiti e i testimoni ritornavano sempre lì, quando interrogati su quel giorno: c’era chi raccontava di essere sopravvissuto per miracolo e di essere fuggito completamente imbiancato, come una statua viva; c’era chi – mai stato davvero in pericolo, ma costretto a rincasare a piedi in un esodo non facile – ricordò a lungo i suoi abiti rimasti impregnati di pulviscolo; e c’era chi per anni parlò del sapore acre di quella polvere che, se respirata, graffiava i polmoni. E purtroppo faceva anche di peggio (sappiamo bene che lì in mezzo c’era anche dell’amianto, e che molti di coloro che lo inalarono quel giorno svilupparono malattie), ma nell’immediato non lo si sapeva ancora o comunque non ci si pensava. E così, molti dei newyorkesi che vennero a contatto con la polvere decisero istintivamente di conservarla (per esempio, mettendo da parte i vestiti sporchi senza lavarli), quasi che già la considerassero reliquia di un evento che non avrebbe mai potuto (e dovuto) essere dimenticato.

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Solo le autorità, con il senso pratico che (giustamente) le contraddistingue, si permisero il lusso di guardare a quella polvere per quello che obiettivamente era: un ostacolo (oltretutto, potenzialmente pericoloso) da rimuovere quanto prima. La priorità doveva necessariamente essere quella di riaprire Wall Street nel più breve tempo possibile, se non si voleva rischiare il collasso dell’economia: e quindi, un esercito di camion della nettezza urbana fu mobilitato per spalar via tutta quella polvere, con l’intenzione di buttarla via in una discarica.

Ma subito divenne chiaro che quella polvere non era solo sporcizia, e non poteva essere trattata come tale. Man mano che i giorni passavano e che si affievolivano le speranze di trovare superstiti (magari finiti in qualche ospedale privi di coscienza e senza documenti), le famiglie dei dispersi cominciarono a percepire quella polvere come l’unico resto tangibile di ciò che erano stati i loro cari. Le macerie del World Trade Center, per quanto agghiacciante potesse essere il pensiero, si stavano rapidamente trasformando nel sostituto funebre per una vastissima comunità che, nel lutto, era stata privata persino di un corpo su cui poter piangere. Mary Douglas, antropologa, avrebbe successivamente commentato che la forza disturbante della polvere dell’11 settembre stava proprio nella sua ambiguità: era spazzatura? Erano resti umani? Era amianto? Era il cuore di qualcuno?

E inevitabilmente, questa inedita condizione liminale finì per spingere la comunità verso quella che potremmo, per assurdo, definire una sacralizzazione ritualizzata della monnezza.

Il 14 ottobre 2001, quando ormai non restava più speranza di trovare corpi (anche morti) tra le macerie, il sindaco Giuliani decise che la polvere dell’11 settembre sarebbe stata distribuita alle famiglie dei dispersi. Il tutto fu orchestrato con una cura quasi liturgica: i fusti di spazzatura che inizialmente era stati destinati alla discarica cittadina (ma che, per fortuna, non vi erano mai stati riversati) furono coperti da bandiere americane, benedetti da religiosi e scortati dalle autorità civili, in un vero e proprio corteo funebre, fino al luogo in cui la polvere sarebbe stata smistata. Lì, funzionari di alto rango indossarono rispettosamente guanti bianchi e, aperti i fusti, cominciarono a riversare i detriti in quattromila piccole urne funerarie sulle quali era stata incisa la data 9-11-01.

Nei giorni successivi, quelle urne furono distribuite alle famiglie in cerimonie private a porte chiuse, con lo stesso rispetto e lo stesso grado di ufficialità con cui negli USA si consegnano le ceneri dei caduti al fronte: una bandiera americana ad avvolgere i resti mortali del defunto; le forze dell’ordine a scortarlo nel suo ultimo viaggio. I detriti erano diventati resti umani; la sporcizia era stata trasformata in testimonianza.

O almeno in parte. Il resto delle macerie andò incontro a un destino meno solenne (chiaramente, non si potevano distribuire a quattromila famiglie la totalità delle macerie): tonnellate di detriti furono trasportate a Fresh Kills, una grande discarica di Staten Island che era stata chiusa qualche tempo prima e che per l’ultima volta riaprì le porte ad accogliere quel finale carico. E anche questa fu una scelta che disorientò e che, pur nella sua inevitabilità, finì con l’addolorare molti dei familiari: il sospetto che i resti umani dei propri cari fossero stati scientemente destinati a una discarica fu, per molti, difficile da metabolizzare; tanto che, ancor oggi, Fresh Kills è percepita da molti come un cimitero, spazio liminale che custodisce un mistero mai risolto.

E così la polvere dell’11 settembre resta sospesa tra due destini: quello di reliquia e quello di rifiuto; quello di cenere sacralizzata e quello di scarto da discarica. Più recentemente, le si è accostato il destino di testimonianza archeologica da tramandare ai posteri, visto che alcuni oggetti sporchi di polvere sono stati musealizzati ed esposti al pubblico (con cautela, giacché ormai è diventato evidente che questa polvere morta ha anche il potere d’uccidere). E forse la definizione più calzante di questi resti è quella che è stata offerta Mary Douglas, antropologa, che ha etichettato la polvere dell’11 settembre con la qualifica di matter out of place. Materia fuori posto, che destabilizza i confini e che ci costringe a ridefinire categorie che, prima di quel 2001, la nostra società non avrebbe mai pensato di poter confondere.


Per approfondire: Marita Sturken, Tourists of History. Kitsch, and Consumerism from Oklahoma City to Ground Zero (Duke University Press, 2007)

Immagine di copertina: New York, NY, September 13, 2001 — The sun streams through the dust cloud over the wreckage of the World Trade Center. Photo by Andrea Booher/ FEMA News Photo

6 risposte a "La polvere dell’11 settembre"

    1. Avatar di Lucia Graziano

      Lucia Graziano

      In effetti, al di là di eventuali ricompense economiche, mi fai venire in mente che non mi sono mai chiesta: cosa facevano, i dirottatori, nella vita, prima di darsi al terrorismo? Avevano famiglia? Si sa che fine hanno fatto quelle famiglie? Non me l’ero mai chiesta 🤔

      Ho dato un’occhiata al volo alle pagine Wikipedia su alcuni dei dirottatori e pare che, almeno nel caso di Satam al-Suqami, la famiglia abbia collaborato attivamente con le autorità per dare informazioni su quel figlio radicalizzatosi.

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  1. Avatar di ac-comandante

    ac-comandante

    Un ingegnere mi ha fatto presente un aspetto ben più sinistro di quella polvere: conteneva centinaia se non migliaia di tonnellate di amianto e questa frazione è molto diffusibile nell’aria, è forse quella arrivata più lontano.
    Le conseguenze sulla salute futura saranno forse appena meno gravi delle radiazioni di Chernobyl.

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    1. Avatar di Lucia Graziano

      Lucia Graziano

      E non solo amianto, a quanto leggevo (non che sia un’esperta eh, ma avevo appunto letto qualcosina in vista di questo articolo). Lì nel mezzo c’erano anche delle sostanze che normalmente non vengono inalate perché normalmente non stanno in sospensione nell’aria (carburante, magnesio, vetro, etc) ma che in quelle specifiche circostanze si erano appunto polverizzate, o comunque mescolate alla polvere che poi finiva nei polmoni. Quindi il problema non è stato solo l’amianto: la gente s’è trovata a respirare anche il carburante degli aerei, per dire. Cosa impensabile e mai verificatasi in altro contesto, ma…

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