Sì lo so: il Medioevo è largo e lungo; abbraccia più di mille anni di Storia e tocca, ovviamente, paesi e nazioni così profondamente diversi tra di loro da esser di fatto incomparabili. E allora, cosa diamine significa parlare di “giornata-tipo in un castello medievale”? In fin dei conti, di castelli medievali ce ne son stati mille mila, con quotidianità completamente differenti a seconda di tempo e luogo.
Ragionevole domanda, a cui si farà in fretta a dar risposta: in questo caso, stiamo parlando della giornata-tipo di un castello medievale del Galles del XIII secolo. In particolar modo, Joseph e Francis Gies (gli storici che hanno dato alle stampe lo splendido saggio Life in a Medieval Castle da cui è tratto questo articolo – e da cui anche George Martin prese ispirazione per descrivere la vita di Westeros, casomai vi interessasse) hanno composto la loro opera immaginando idealmente di ambientarla tra i torrioni di Chepstow, un piccolo castello costruito nel 1067 sulle rive del fiume Wye.
Quello che vedete qui sotto, per capirci.
Insomma, quel classico tipo di edificio che tendiamo istintivamente a immaginare quando qualcuno, astrattamente, parla di “castello medievale”.
E insomma: come doveva essere, vivere qui dentro attorno al XIII secolo?
Alle prime luci dell’alba, mentre i raggi del sole filtravano dagli scuri, era il personale di servizio a ridare vita al castello, scivolando fuori dai giacigli dopo aver consumato il primo e il secondo sonno della notte. Occorreva darsi da fare per far sì che il palazzo fosse in grado di accogliere confortevolmente i suoi signori, e occorreva fare in fretta – erano molte le mansioni da sbrigare prima della sveglia del castellano: accendere i fuochi nelle cucine; incendiare la legna nei caminetti dei saloni per riscaldar l’ambiente; accendere le torce in quei corridoi che sarebbero rimasti bui ancora a lungo…
Mentre i servitori si indaffaravano in queste mansioni, passi lenti si facevano sentire sulle scale di servizio: erano le sentinelle che avevano montato la guardia nel turno di notte e che adesso, giunta l’aurora, si preparavano al meritato riposo.
Poco dopo l’alba, anche il signore e la signora del castello si riscuotevano dal sonno. E, con loro, anche la nobiltà e i funzionari di corte: essere in una posizione sociale privilegiata non si traduceva con l’attitudine a riposare più a lungo al mattino.
Va da sé: quello dell’aristocrazia era certamente un risveglio molto soft, accompagnato dalla presenza confortante (…talvolta un po’ invadente) del personale di servizio. Un piccolo stuolo di valletti, servitori e camerieri provvedeva a vestire e pettinare castellani, ospiti e alti funzionari. E a portar loro la colazione a lett no, niente colazione: il primo appuntamento della giornata era l’immancabile Messa mattutina, celebrata nella cappella di palazzo.
Al termine della Messa (e cioè indicativamente verso le 7 o 7:30, anche se gli orari potevano variare a seconda che fosse estate o inverno), arrivava il momento della colazione. Che (con le ovvie differenze dovute alla classe sociale di chi la consumava) tendeva a essere un pasto molto semplice, con fette di pane tostato che venivano intinte nel vino o nella birra.
Sì, di prima mattina. Sì, anche per i bambini.
Si trattava, tendenzialmente, di bevande con una gradazione alcolica molto più bassa rispetto a quella cui siamo abituati oggi, che venivano preferite all’acqua per ragioni di sicurezza alimentare: però sì, gli uomini medievali iniziavano abitualmente la giornata tracannando vino e birra (e, in molti casi, andavano avanti così per tutto il giorno, tagliando il vino con l’acqua. O l’acqua col vino, se preferite). Qualche anno fa, nelle community dedicate alla divulgazione della Storia medievale, ha avuto una certa diffusione il resoconto di una giornalista che aveva provato ad adottare per qualche giorno questo stesso tipo di dieta, dichiarando non aver mai avuto la percezione di essere ubriaca (o anche solo “brilla”) ma di aver sperimentato lungo il corso dell’esperimento uno stato di “piacevole allegrezza”.
La mattinata era quella parte della giornata che l’aristocrazia e i funzionari di corte deputavano al lavoro.
Il signore del castello riceveva a colloquio il senescalco, il balivo e (se riteneva ce ne fosse il bisogno) un numero variabile di alti funzionari, a seconda delle necessità della giornata.
I funzionari di corte si dedicavano al lavoro d’ufficio, per ricorrere al termine che probabilmente utilizzeremmo oggi noi moderni, assegnando compiti ai loro sottoposti e ascoltando i loro resoconti sul lavoro svolto. Gli uomini d’arme che non avevano prestato servizio nel turno di notte profittavano delle ore di luce mattutina per esercitarsi, da soli o a gruppi; le donne controllavano il buon andamento del castello e si dedicavano a lavori di cucito, se in quel momento erano libere da impegni più pressanti.
Ma se il castello accoglieva ospiti (cosa che capitava molto di frequente), alle dame veniva affidato l’importante compito di intrattenerli piacevolmente nell’attesa che venissero sbrigate le pratiche che li avevano condotti a palazzo. Si trattava d’una attività delicata, che richiedeva di saper equilibrare con maestria le giuste dosi di frivolezza, intelligenza e diplomazia: particolarmente apprezzate erano quelle dame che sapevano parlare più d’una lingua, perché l’essere in grado di intrattenere ambasciatori e ospiti stranieri conversando nel loro idioma era considerato segno di grande prestigio sociale (per se stessi, e soprattutto per la corte che poteva sfoggiare “personale” così forbito).
In tutto questo, i bambini andavano a scuola. Spesso, si riunivano in piccole classi composte da un discreto numero di scolari, affidati alle cure del cappellano di palazzo (o comunque a un altro membro del clero), che provvedeva a impartire i primi rudimenti dell’abbiccì. Ma non era infrequente che soggiornassero a corte dei precettori privati, la cui presenza si rendeva necessaria per fornire insegnamenti più specifici a quei singoli alunni che ne avevano bisogno (vuoi perché già grandicelli; vuoi perché di estrazione sociale particolarmente privilegiata, con necessità particolari in vista di futuri ruoli di governo).
Intorno a mezzogiorno (ma inverno, anche un po’ prima), il suono di un corno interrompeva tutte le attività annunciando che il pranzo era pronto per esser servito. Salvo casi eccezionali e particolarissimi, si mangiava tutti assieme, in un grande salone composto da più tavolate disposte a U, alle quali sedevano i vari membri di corte a seconda del loro prestigio (i posti più ambiti, naturalmente, erano quelli più vicini al tavolo centrale dei signori).
Tendenzialmente, il cibo veniva servito su grandi vassoi (talvolta commestibili, nel senso che erano fatti di pane) che venivano poggiati al centro della tavola, lasciando che fossero i commensali a servirsi secondo loro gradimento. Grande attenzione veniva data all’etichetta (cosa anche comprensibile in un contesto in cui decine di persone si servivano dallo stesso piatto di portata): sarebbe stato impensabile presentarsi a corte senza essersi accertati di avere unghie corte e ben curate, e mani pulite impeccabilmente. Immancabili, sulla tavola, delle coppette d’acqua (o nettadita) nelle quali i commensali avrebbero potuto sciacquarsi al bisogno, auspicabilmente ben più d’una volta nel corso dello stesso pasto. Tendenzialmente, la gente ottemperava all’obbligo di buon grado, anche perché l’atto di sciacquarsi le mani unte poteva aprire inediti spiragli di seduzione nel momento in cui, “casualmente”, le mani di lui e di lei si sfioravano all’interno della stessa bacinella d’acqua.
Spesso e volentieri, il pranzo era accompagnato dall’esibizione di un menestrello che forniva sottofondo musicale o intratteneva in vario modo i commensali (insomma: l’omologo della nostra televisione accesa all’ora di cena, che distrugge le famiglie perché una volta a tavola si parlava, signora mia). Se nel castello erano presenti ospiti, era socialmente atteso che essi ringraziassero dell’accoglienza donando ai padroni di casa una piccola esibizione artistica a fine pasto: i nobili e i cavalieri più eruditi erano quasi sempre capaci di suonare discretamente uno strumento; ma se la delegazione in visita non fosse riuscita a offrire tanto, anche una novella ben raccontata sarebbe stata all’altezza della situazione.
Il pomeriggio era perlopiù dedicato allo svago – almeno, per chi non faceva parte della servitù. Molto spesso i castellani giocavano a dadi e a scacchi, un termine che all’epoca designava l’oggetto più che la tecnica: esistevano vari modi di giocare, secondo regolamenti che potevano anche essere molto meno impegnativi rispetto a quelli che conosciamo oggi; insomma, non occorreva necessariamente essere grandi strateghi, per poter portare a casa una vittoria. Quasi sempre, i giochi da tavolo erano accompagnati da scommesse in denaro, che potevano anche riguardare cifre piuttosto importanti; donde, le ferme critiche che arrivavano dagli ecclesiastici (e, tendenzialmente, cadevano nel vuoto).
Non che gli altri svaghi pomeridiani fossero molto più graditi ai moralisti di passaggio. Molto spesso si danzava e si giocava a mosca cieca: una attività per adulti in ogni possibile declinazione del termine, tenuto conto del fatto che la principale attrattiva di quel passatempo consisteva nel suo offrire la possibilità di allungare le mani con qualche carezza complice e furtiva.
Gli uomini – soprattutto se avevano ospiti di riguardo – potevano anche organizzare una battuta di caccia col falcone o una semplice cavalcata di puro intrattenimento.
La cena, molto leggera, veniva servita nel tardo pomeriggio, grossomodo in quello stesso orario in cui noi (se siamo fortunati) rincasiamo dal lavoro. Al termine della cena, secondo consuetudine, i vari abitanti del castello si ritiravano nelle proprie stanze, eventualmente portando con sé un piccolo gruppo di ospiti: le signore, con le loro dame di compagnia; i funzionari e i cavalieri, con quei colleghi e amici con cui avevano deciso di trascorrere la serata tra una chiacchiera, una partita a scacchi e una lettura condivisa (nel senso che uno leggeva e gli altri ascoltavano: modello audiolibro vivente, per capirci).
E la serata trascorreva così, nell’intimo delle salette private, mentre la servitù si dava da fare per preparare le camere da letto sprimacciando i cuscini, riscaldando i materassi, portando i pitali nelle stanze, controllando (o almeno provando a controllare) che non vi fossero topi o altri animali rimasti intrappolati nei locali. Portate a termine queste mansioni (e a patto che i signori non ne richiedessero la presenza per svestirsi), la servitù era libera di ritirarsi a sua volta.
Ciò che accadeva da quel momento in poi era avvolto nel mistero e nel sospetto: i nobili e gli alti funzionari vivevano nella convinzione che, quando tutti s’erano già ritirati nelle loro stanze, la servitù si desse alla pazza gioia facendo un po’ quel che voleva. Sospetti infondati nella maggior parte dei casi: ché, stanca dopo una giornata di lavoro e infreddolita in un palazzo in cui erano ormai stati spenti i caminetti, la servitù tendeva a ritirarsi nelle sue camere per godere il meritato riposo. Restava in piedi solamente il personale di cucina, che avrebbe dovuto servire un pasto caldo alle sentinelle che si ritiravano attorno a mezzanotte dopo aver portato a termine il loro turno di guardia. A sostituirle, dopo un ultimo bicchiere caldo, i colleghi del turno di notte che avrebbero vegliato fino alle prime luci dell’alba… e così sarebbe ricominciata la giornata, l’indomani, all’interno del castello medievale.
Per approfondire: Joseph e Frances Gies, Life in a Medieval Castle (HarperCollins, 2010)