Erano donne che avevano voglia di divertirsi un po’ e non avevano alcuna intenzione di lasciarsi frenare dal pensiero “eh, ma poi cosa diranno gli altri”. Scendevano in strada col loro vestito migliore, ma avendo cura di coprirsi il volto in modo tale da non poter essere riconosciute: e così, come partecipanti a una festa in maschera, trascorrevano il pomeriggio tra risate, divertimento e scherzi ai passanti.
Erano le ‘ntuppatedde di sant’Agata: un termine che dobbiamo far derivare dal Siciliano “tuppa”, ossia la membrana che chiude il guscio delle chiocciole. Ma, con buona pace delle lumachine (nascoste dal loro guscio proprio allo stesso modo in cui le donne catanesi proteggevano la loro identità attraverso un velo), la visione delle ‘ntuppatedde tendeva a non suscitare nei passanti quello stesso moto di tenerezza che si prova contemplando un animaletto di campagna. Il loro costume tendeva a trasmettere una certa inquietudine (e a buon diritto, se consideriamo che doveva essere qualcosa di questo genere):

Oggigiorno, ci verrebbe da paragonarlo alla tenuta di chi vive in un regime totalitario che costringe le donne a indossare un burqa; in passato (per quanto non sfuggisse ai nostri antenati una certa somiglianza col costume tradizionale delle donne arabe) la tendenza era quella di guardare con sospetto a quelle donne temendo che, sotto quel velo, potesse celarsi una strega. O per meglio dire una jettatrice, una donna capace di fare il malocchio indirizzando sui malcapitati il suo sguardo cattivo attraverso quella stretta feritoia, certa di non poter essere riconosciuta. Non a caso, nel 1693, una ordinanza municipale proibì l’utilizzo di quel costume così estremo, che (malocchio a parte) sembrava porre problemi di ordine pubblico: da quel momento in poi, le ‘ntuppatedde si rassegnarono (a malavoglia, e non senza occasionali trasgressioni) a nascondere la loro identità indossando manti neri con lunghi cappucci che, ben calati sul viso, continuavano a garantire un po’ di privacy; e fu in questa foggia che il costume sopravvisse fino alle ultime decadi dell’Ottocento.
Ma, in sostanza, che facevano ‘ste ‘ntuppatedde, e come venivano percepite dalla popolazione? Lasciamo che a rispondere a questa domanda sia niente meno che Giovanni Verga, che ben descrive questo Carnevale catanese nella novella La coda del diavolo, apparsa nel 1877 nella raccolta Primavera e altri racconti. Tracciando delle ‘ntuppatedde un ritratto a vivaci pennellate, Verga ci spiega che
A Catania la quaresima vien senza carnevale; ma in compenso c’è la festa di Sant’Agata – gran veglione di cui tutta la città è il teatro – nel quale le signore hanno diritto di mascherarsi sotto il pretesto d’intrigare amici, i conoscenti, e d’andar attorno, dove vogliono, come vogliono, con chi vogliono, senza che il marito abbia il diritto di metterci la punta del naso. […] Il costume componesi di un vestito elegante e severo, possibilmente nero, chiuso quasi per intero nel manto, il quale poi copre tutta la persona e lascia scoperto soltanto un occhio per vederci e per far perdere la tramontana, o per far dare al diavolo. La sola civetteria che il costume permette è una punta di guanto, una punta di stivalino, una punta di sottana o di fazzoletto ricamato, una punta di qualche cosa da far valere insomma, tanto da lasciare indovinare il rimanente.
E riuscire a “indovinare il rimanente” sarebbe certamente stata cosa interessante per il malcapitato di turno, visto che le ‘ntuppatedde, forti della loro posizione, approfittavano del giorno di sant’Agata (ovverosia, di quel tempo sospeso di festa e mascherata che consentiva loro delle libertà extra) per approcciarsi con una certa sfacciataggine al malcapitato di turno: fermandolo per strada, prendendolo sottobraccio e costringendolo a fare per loro tutto ciò che elle avrebbero capricciosamente ordinato. Esprimendosi a gesti, in silenzio religioso per non rischiare di svelare la loro identità, le ‘ntuppatedde trascinavano a destra e a manca la loro vittima, indicandogli i loro desiderata: immancabile era una tappa in pasticceria, per farsi comprare un vassoietto dei dolci tradizionalmente preparati per la festa (proprio come quelli di cui Mani di pasta frolla vi fornisce oggi la ricetta); ma le ‘ntuppatedde più sfacciate potevano arrischiarsi a chiedere in dono anche fiori, abiti, gioielli. Con la ragionevole certezza di essere esaudite, perché sottrarsi a questo gioco popolare sarebbe stato considerato gesto di gran maleducazione.
Chiaramente, non si trattava solo di scroccare soldi a uno sconosciuto. In molti casi, quello delle ‘ntuppatedde era un vero e proprio gioco di seduzione: in un’epoca in cui non era culturalmente previsto che fosse la donna a fare il primo passo per segnalare a un uomo la sua disponibilità, la mascherata delle ‘ntuppatedde consentiva a molte giovani di tentare un primo approccio con l’uomo dei loro sogni, senza il rischio di… dover perdere la faccia. Naturalmente, in quel caso, le donne mascherate sarebbero state ben attente a lasciare qualche indizio che permettesse al loro accompagnatore di identificarle con certezza.
Per dirla con le parole di Verga,
Dalle quattro alle otto o alle nove di sera la ‘ntuppatedda è padrona di sé (cosa che da noi ha un certo valore), delle strade, dei ritrovi, di voi, se avete la fortuna di esser conosciuto da lei, della vostra borsa e della vostra testa, se ne avete; è padrona di staccarvi dal braccio di un amico, di farvi piantare in asso la moglie o l’amante, di farvi scendere di carrozza, di farvi interrompere gli affari, di prendervi dal caffè, di chiamarvi se siete alla finestra, di menarvi pel naso da un capo all’altro della città, fra il mogio e il fatuo, ma in fondo con cera parlante d’uomo che ha una paura maledetta di sembrar ridicolo; di farvi pestare i piedi dalla folla, di farvi comperare, per amore di quel solo occhio che potete scorgere, sotto pretesto che ne ha il capriccio, tutto ciò che lascereste volentieri dal mercante, di rompervi la testa e le gambe – le ‘ntuppatedde più delicate, più fragili, sono instancabili, – di rendervi geloso, di rendervi innamorato, di rendervi imbecille, e allorché siete rifinito, intontito, balordo, di piantarvi lė, sul marciapiede della via, o alla porta del caffè, con un sorriso stentato di cuor contento che fa pietà, e con un punto interrogativo negli occhi, un punto interrogativo fra il curioso e l’indispettito.
Per dir tutta la verità, c’è sempre qualcuno che non è lasciato così, né con quel viso; ma sono pochi gli eletti, mentre voi ve ne restate colla vostra curiosità in corpo, nove volte su dieci, foste anche il marito della donna che vi ha rimorchiato al suo braccio per quattro o cinque ore – il segreto della ‘ntuppatedda è sacro.
Singolare usanza in un paese che ha la riputazione di possedere i mariti più suscettibili di cristianità! È vero che è un’usanza che se ne va.
In effetti, l’usanza se ne stava andando per davvero. Negli stessi anni in cui Verga la immortalava su carta, il cardinal Dusmet, vescovo di Catania, tuonava dal pulpito contro questa pratica, denunciandola (e probabilmente non a torto) come una carnevalata di origini popolari, che nulla aveva a che spartire col vero culto di sant’Agata e anzi finiva col distrarre la brava gente facendo passare in secondo piano i festeggiamenti religiosi, che pure la diocesi organizzava in quello stesso giorno. Come a dire: “è la nostra festa patronale: venite in chiesa come fanno le donne dabbene, invece di andarvene in giro mascherate come deficienti a civettare con gli uomini e a scroccar soldi agli sconosciuti”.
Oggettivamente, critiche a cui era difficile ribattere. E infatti, la tradizione delle ‘ntupatedde pian piano andò a morire, vittima di un rinnovato rigorismo religioso (ma anche di quel globale disinteresse che, alla fine dell’Ottocento, fece cadere nel dimenticatoio molte feste popolari, ormai percepite come qualcosa di troppo arcaico per poter trasmettere valore a una società in rapido cambiamento).
Ma qui arriva il colpo di scena, perché le ‘ntupatedde sono donne risolute. Nel 2013, Elena Rosa, performer e regista nonché fondatrice della compagnia teatrale Cuori Rivelati di Catania, ebbe l’intuizione di rispolverare questa tradizione adattandola al mondo contemporaneo. Le sue “nuove ‘ntuppatedde” (come l’ideatrice ama definirle) non sono e non vogliono essere la riproposizione storicamente accurata del Carnevale ottocentesco descritto da Verga: innanzi tutto, è cambiato il costume indossato dalle donne, che non è più un (ormai improponibile) burqa nero che sembrerebbe uscito dalle strade di Kabul ma si è trasformato un leggiadro abito bianco corredato da un velo in tulle – qualcosa di molto più simile a un abito da sposa che a una maschera nel vero senso del termine. E poi, è cambiato l’atteggiamento delle donne: che, in epoca di parità dei sessi, non hanno più bisogno di scroccare cibo e soldi e agli uomini ma si limitano a scendere in strada con i loro vestiti di festa per unirsi alla baldoria, sorridere, danzare e far dono della loro semplice presenza.
Qualcuno direbbe che le ‘ntuppatedde del terzo millennio hanno in comune con le loro “nonne” ottocentesche solamente il nome e nulla più; ma forse è proprio questa la ricchezza delle tradizioni popolari, che permette loro di sopravvivere attraverso i secoli. Arricchirsi, mutare e adattarsi ai bisogni di una società che cambia: è questo, forse, il vero valore del folklore.
Elena
Beh tutto sommato era l’unico giorno dell’anno in cui le donne potevano affrancarsi dalla potestà maschile e da una vita senza libertà… dando uno sguardo al passato credo che meritino la nostra comprensione.
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Lucia Graziano
Ma infatti a me stanno un sacco simpatiche, sia quelle vecchie che quelle nuove!
Erano i prelati ottocenteschi a essere, spesso, un po’ troppo moralisti, a mio giudizio… 😛
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