Sweeney Todd non è mai esistito, nonostante gli sforzi eroici profusi da alcuni volenterosi nel tentativo di dimostrare il contrario. E se i miei lettori cominciassero adesso a domandarsi per quale motivo al mondo qualcuno dovrebbe prendersi la briga di indagare sulla storicità di un personaggio letterario, reso celebre da un film di Tim Burton: beh, in realtà bisogna ammettere che l’idea non è poi così tanto campata per aria. Chi avesse la pazienza di scorrere gli articoli di cronaca nera pubblicati dai quotidiani dell’Inghilterra vittoriana si renderebbe facilmente conto del fatto che la figura dell’assassino che uccide i suoi clienti per farne carne da macello compariva frequentemente (e presentata come vera) in una certa stampa dell’epoca. Principalmente, quella becera e disinformata: che esiste da ben prima di Internet, signora mia.
I nomi, i dettagli e la toponomastica della storia potevano variare significativamente di volta in volta, ma le dinamiche del barbaro omicidio restavano grossomodo uguali: siamo di fronte a una leggenda metropolitana in piena regola, simile a quelle che, in vesti diverse, continuano ad atterrirci ancor oggi. Nella Londra di metà Ottocento, l’idea che vi fossero delinquenti che assassinavano la brava gente per darla in pasto a degli inconsapevoli malcapitati era così diffusa da aver lasciato traccia in ben più di un’opera letteraria: qualche anno prima che venisse dato alle stampe The String of Pearls (1846), il libello dedicato alla storia di Sweeney Tood, persino Charles Dickens aveva citato, ne Il Circolo Pickwick, delle salsicce all’interno delle quali erano state rinvenute dei bottoni, con indicibile orrore di tutti i presenti.
Ma non si trattava solamente di espedienti letterari. Gli immigrati che per lavoro raggiungevano Londra dalle campagne, e inevitabilmente si sentivano intimoriti da quell’enorme metropoli tentacolare, temevano seriamente di essere assassinati da criminali cannibali, pronti a macellare i malcapitati che finivano sotto le loro grinfie. Le mamme che volevano imporre un coprifuoco ai figli utilizzavano davvero lo spauracchio del perfido serial killer che cucina i bambini caduti suoi prigionieri, perché attardatisi lungo la strada all’imbrunire.
Tali e tante sono le attestazioni di questo terrificante mito urbano che, verso la fine degli anni ’70 del Novecento, il giornalista britannico Peter Haining ha cominciato a chiedersi se non ci fosse un fondo di verità dietro a questa diceria così diffusa, giungendo infine alla (discutibilissima) convinzione secondo cui, sì: il personaggio letterario di Sweeney Todd era basato su un serial killer realmente esistito. Esistito unicamente nella mente fantasiosa dei giornalisti d’età vittoriana, verrebbe da chiosare, ma non farà male raccontare a grandi linee la ricostruzione fatta da Haining, che colloca la nascita del ‘vero’ Sweeney Todd nel sobborgo londinese di Brick Lane, addì 26 ottobre 1756. Figlio di una ragazzina poco più che adolescente e di un alcolizzato violento che picchiava madre e figlio, il fanciullo rimane orfano nel 1768 e comincia a lavorare come garzone nella bottega di John Crook, un artigiano specializzato nella creazione di rasoi. Ma due anni più tardi è proprio il signor Crook a denunciare per furto il suo apprendista, che viene giudicato colpevole e condannato ad alcuni anni di detenzione nel carcere di Newgate: un’esperienza traumatica destinata a segnarlo, trasformandolo in un folle criminale. Riguadagnata la libertà, il giovane uomo cerca di sbarcare il lunario reinventandosi come barbiere di strada: una categoria professionale che esisteva davvero nella Londra dell’epoca, e che offriva veloci sbarbature on the road a quei clienti che andavano di fretta o che non potevano permettersi di pagare per un servizio con maggiori comfort.
Secondo la ricostruzione di Peter Haining, l’aspirante assassino lavorava come barbiere all’interno di Hyde Park (non lontano da quella Fleet Street in cui viene immaginata la sua bottega, nel romanzo): e, in effetti, pare che nel 1785 avesse realmente destato scalpore la notizia secondo cui era stato rinvenuto all’interno di Hyde Park il cadavere di un uomo che era stato sgozzato con un colpo netto, come se qualcuno gli avesse tagliato la gola con un rasoio. Gli opinionisti puntarono il dito sui barbieri di strada (accattoni pronti a tutto, di cui sarebbe meglio non fidarsi troppo) e alcuni iniziarono effettivamente a fantasticare sulla tragica storia d’un barbiere criminale segnato dalle offese di una vita brutale, che a un certo punto era impazzito e aveva deciso di darsi alla violenza.
Suggestiva l’idea di voler vedere in questo fatto di cronaca le tracce della reale esistenza in vita di Sweeney Todd… sennonché non esistono dati storici capaci di dare credibilità a questa notizia. Gli archivi della polizia di Londra non contengono traccia di omicidi consumatisi a Hyde Park nelle circostanze descritte, né tantomeno di indagini avviate a carico dei barbieri ambulanti della zona. Come se non bastasse, né il carcere di Newgate né il tribunale minorile hanno memoria di un ragazzino condannato alla detenzione dopo aver commesso un furto nel negozio di rasoi per cui lavorava. Insomma: la storiella dell’uomo assassinato da un barbiere criminale è probabilmente da considerarsi l’ennesima leggenda metropolitana prodotta da quella strana epoca inquieta che oggi chiamiamo “età vittoriana”.
Ai timori di queste decadi ansiose, l’ottimo Simon Young ha dedicato un libro intero: The Nail in the Skull and Other Victorian Urban Legends. E, scorrendo le pagine del denso volume, non si può non restare colpiti dall’incredibile quantità di leggende metropolitane che facevano leva su quella che doveva evidentemente essere una delle più grandi angosce del periodo: quella cioè di ritrovarsi a mangiare inconsapevolmente carne umana, messa in vendita da un qualche perverso criminale. Come a dire: Sweeney Todd era in buona (?) e abbondante compagnia.
La più antica attestazione di una storiella di questo tipo risale al 1866 e ci porta nelle lande perigliose e inesplorate del Far West. Lì – stando a quanto dicevano i beninformati – la fame aveva spinto alla follia un disperato che, per una serie di colpi di sfortuna, aveva perso tutto ciò che aveva e dato fondo ai suoi risparmi. Ed ecco il folle architettare un orribile piano: spacciandosi per un ministro di culto (quasi sempre di fede cattolica), l’uomo si mise in viaggio verso la cittadina di Tobacco Plains, nella quale sorgeva una piantagione che aveva appena concluso una massiccia campagna di assunzioni in vista della stagione che stava per iniziare. Nel corso del viaggio in diligenza, il falso sacerdote strinse amicizia con un immigrato irlandese che si stava per l’appunto recando a Tobacco Plains per prendere servizio alla piantagione: non appena ne ebbe conquistata la fiducia, lo uccise barbaramente e gli rubò i documenti, allo scopo di potersi spacciare per lui e ‘rilevare’ il suo posto di lavoro.
Mi direte: e in che in modo il cannibalismo rientra in questa storia? Beh: Tobacco Plains era ancora lontana, e l’assassino aveva un disperato bisogno di denaro fin da subito. Gli parve che il miglior modo per sbarazzarsi del cadavere e per intascare al tempo stesso un po’ di moneta sonante fosse quello di macellare il malcapitato e utilizzare la sua carne per preparare cibo da strada, da rivendere poi agli altri viaggiatori che viaggiavano lungo quella tratta trafficata. E quell’autogrill degli orrori si rivelò essere un business redditizio, che sfamò decine e decine di viandanti inconsapevoli e permise all’assassino di mettere un po’ di denaro da parte: solo molti anni più tardi, quando il falso prete confessò il suo delitto, l’orrore emerse in tutta la sua potenza creando scalpore dall’uno e dall’altro lato dell’Oceano.
Naturalmente, non esistono prove sulla storicità di questo turpe episodio – che tuttavia generò infinite imitazioni, con un pullulare di leggende metropolitane che si sviluppavano attorno alla stessa idea di fondo. Nell’Italia post-unitaria, la brava gente atterriva sentendo parlare di Ramas, un serial killer che avrebbe confessato di aver ucciso almeno sedici persone per utilizzarle come materia prima per i piatti che serviva nella sua locanda in Sardegna; entro il 1870, questa singolare idea di business doveva essersi fatta strada anche a Tolosa, giacché anche lì si cominciava a mormorare di morti sospette, tutte sinistramente riconducibili a un certo ristorantino, noto per gli squisiti tagli di carne che offriva ai suoi clienti. Nel 1878, la città spagnola di Aranjunez restò sgomenta nell’apprendere (dal quotidiano locale!) la terrificante (e fortunatamente infondata) notizia secondo cui un barbiere omicida avrebbe assassinato un indefinito numero di clienti, adottando la stessa identica strategia che ritroviamo nel romanzo di Sweeney Todd: facendoli cioè sprofondare in una botola e provvedendo poi a far scempio del loro cadavere. Gli efferati delitti erano stati scoperti grazie alla morte di un certo Francisco Andral, che aveva avuto la sventura d’essere l’ultima delle sue vittime: la famiglia inconsolabile non riusciva a scendere a patti con l’idea che il giovanotto fosse semplicemente scappato di casa smettendo di dar notizie, e l’insistenza dei familiari affranti aveva spinto la polizia ad aprire le indagini, portando alla luce quell’impensabile orrore. E chissà quante altre morti avrebbero potuto essere prevenute, se solo il tessuto sociale di Aranjunez fosse stato più sano e più coeso, con rapporti di buon vicinato più stretti e solidali!
Perché, naturalmente, il tratto più affascinante delle leggende metropolitane sta proprio nella loro capacità di adattarsi di volta in volta agli spauracchi e ai valori più in voga del momento. E se, per i primi tre quarti dell’Ottocento, il mito dell’assassino che mette in vendita carne umana fece leva sulla paura di una società in rapido cambiamento (in cui ci si sposta per lavoro, ci si allontana dalla famiglia d’origine che ha cuore il nostro benessere e ci si trova costretti a vivere in città malfamate, esposti a mille pericoli di cui neppure si è a conoscenza), entro la fine del secolo le leggende sul tema cominciarono a dar conto di un nuovo timore, fino a quel momento poco attestato. E cioè, la diffidenza nei confronti dei prodotti industriali: fatti chissà dove e chissà da chi, ma sicuramente non con le stesse cure che avrebbe avuto il macellaio di fiducia del negozio sotto casa.
E infatti, risale al 1891 (e proviene dalla Svezia) la prima attestazione di una leggenda metropolitana secondo cui un assassino, dopo aver barbaramente ucciso la sua vittima, decide di sbarazzarsi del cadavere introducendosi nottetempo in una fabbrica di insaccati di cui attiva i macchinari. La salma, conseguentemente, viene lavorata assieme alle carcasse di maiale – l’assassino finisce così col produrre salsicce a base di carne umana, senza che nessuno, l’indomani, abbia modo di rendersi conto di quell’orrore.
Di lì a pochi anni, a Chicago, l’incubo sembrò diventare realtà: nel 1897, un certo Adolph Luetgert fu accusato di aver assassinato sua moglie, che era misteriosamente scomparsa nel nulla qualche tempo prima. Dopo essersi a lungo proclamato innocente, Luetgert ammise la sua colpa e illustrò anche le modalità (molto tradizionali) attraverso cui si era sbarazzato della salma: ma fino al momento della sua confessione, poiché l’uomo era proprietario di una grande fabbrica di insaccati, l’opinione pubblica restò sgomenta al pensiero che quel criminale avesse potuto usare il suo stabilimento per smaltire il cadavere nel più orribile dei modi. E, a quel punto, chi avrebbe potuto dirsi certo di non aver inconsapevolmente cannibalizzato la povera signora Luetgert?!
E – naturalmente – non appena l’Occidente ebbe modo di sperimentare la lotta proletaria e la critica al capitalismo, la leggenda metropolitana cambiò forma una volta ancora: si cominciò a mormorare di dita umane tranciate di netto che venivano rinvenute all’interno del cibo in scatola, secondo uno stilema che io stessa ho memoria d’essermi sentita raccontare più volte quando ero bambina. In questo caso, il fattaccio non è causato da un maldestro tentativo di occultare un omicidio: più banalmente, siamo di fronte a un tragico caso di incidente sul lavoro, reso possibile dal menefreghismo con cui i perfidi imprenditori trattano i loro dipendenti, senza il minimo riguardo per la loro incolumità (e per i diritti del consumatore finale, vien da aggiungere).
Ma se questa è la più recente attestazione della leggenda metropolitana del cibo confezionato a partire da carne umana, qual è invece la più antica?
Volendo limitarci alla sola età moderna (ché già il Medioevo conosceva bene questo spauracchio: nella vita di san Nicola, non si legge forse di un episodio simile nel quale fu il santo a sventare il piano criminale?), la più antica variante della leggenda metropolitana risale all’Inghilterra del 1773 e fa leva sulla paura più angosciante dell’epoca: quella cioè di una donna che va contro la sua stessa natura, trasformandosi da madre amorosa a spietata assassina dei suoi figli.
In questo caso, la storiella si sviluppa come segue: in un’epoca in cui era molto frequente per le famiglie povere portare a far cuocere i propri panificati nel forno di quartiere, ecco che il proprietario dello stabilimento nota che c’è una torta salata che giace solinga sul bancone, senza che nessuno la sia venuta a reclamare all’orario di chiusura. In alcuni casi, è l’aroma delizioso di quella crostata ripiena a spingere il proprietario a tagliarla per servirsene; in altri casi, il fornaio aspetta qualche giorno prima di rassegnarsi a portare a casa quella torta, che ormai è evidentemente stata abbandonata al suo destino. In ogni caso, ecco la terribile scoperta: non appena il coltello affonda nella crostata e la prima fetta viene servita in tavola, è indicibile l’orrore con cui il fornaio si rende conto di essere di fronte a una torta che è stata farcita con il corpicino di un neonato fatto a pezzi. Evidentemente, un bambino sgradito di cui la famiglia aveva deciso di sbarazzarsi alla nascita; ed è interessante il fatto che, ripercorrendo con la memoria gli eventi degli ultimi giorni, il fornaio ricordi di aver notato tra i suoi clienti un uomo che non aveva mai visto prima, da quelle parti, e che lo aveva colpito proprio in virtù del suo sesso: di solito sono le donne a occuparsi di cucina; era inconsueto servire clienti maschi.
E se fosse stato proprio lui, il criminale che…?
Un espediente letterario volto a ripartire su ambo i genitori il peso di una scelta così atroce, evitando la tentazione di colpevolizzare la donna unicamente? O forse, un modo per insinuare nell’ascoltatore il sospetto terribile e agghiacciante che fosse solo il padre a non volere quel bambino? Forse sottratto proditoriamente dalle braccia della puerpera mentre lei dormiva, esausta ma felice, stringendo al seno un figliolo desideratissimo e frutto di quel loro amore così grande?
Per approfondire:
- Simon Young, The Nail in the Skull and Other Victorian Urban Legends (University Press of Mississippi, 2022)
- John Bennett, Mob Town. A History of Crime and Disorder in the East End (Yale University Press, 2017)
- Aaron C. Thomas, Sweeney Todd (Taylor and Francis, 2018)
apheniti
Se vogliamo andare ancora più indietro, sul mito del cannibalismo e di carne umana data da mangiare ad ignari avventori, mi viene in mente Tantalo, che serve agli dei suo figlio, e i Léstrigoni dell’Odissea.
Più recenti… beh, su Hannibal ci sono almeno due film e una serie tv 🙂
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