Sinesio di Cirene non è mai stato dichiarato santo, sebbene nel corso dei secoli si sia comunque sviluppata attorno a lui una certa devozione popolare. E meno male. Il filosofo neoplatonico fu senza dubbio un grande uomo di fede, ma c’è ben poco di agiografico nella sua vita: eletto vescovo controvoglia, per acclamazione popolare, nonostante si fosse convertito così di recente da non aver neppure ricevuto il battesimo, mantenne per tutto il resto della sua vita delle posizioni blandamente ereticali su alcuni punti chiave della sua nuova fede. Scrisse opere alchemiche di squisita raffinatezza inframezzandole a inni sacri e a pregevoli trattati come il suo Elogio della calvizie; amò le donne con passione, al punto tale da non volersi separare dalla moglie neppure quando fu posto a capo della diocesi. Ma, con buona pace della signora, è un’altra la donna che più frequentemente viene associata alla figura del santo (?) vescovo. Sinesio fu discepolo di Ipazia, la filosofa neoplatonica che tutti conosciamo e che finì i suoi giorni uccisa da un gruppo di cristiani radicali: legato a lei da profondissima amicizia, Sinesio le indirizzò lettere colme di riconoscenza chiamandola “maestra”, “sorella” e “madre” – e onestamente non stupisce che sia proprio questo dettaglio a essere citato più di frequente, quando si tratteggia la biografia di questo eccentrico personaggio.
Ma siccome io sono io, parlerò invece di tutt’altro. E, nello specifico, lascerò che sia Sinesio a prendere la penna, proponendovi quello che ritengo essere il suo testo più incredibile: una lettera che il nostro amico indirizza a suo fratello Eupoptio, probabilmente sul finire dell’anno 396 (l’autore aveva circa venticinque anni e non era ancora vescovo). Lo scritto (il quinto del suo Epistolario) dà conto di un catastrofico viaggio per mare che Sinesio aveva intrapreso pochi giorni prima, salpando da Cirene alla volta di Alessandria. Avrebbe dovuto essere un tour di pochi giorni, da effettuare in tutta tranquillità veleggiando sotto costa: a separare Cirene e Alessandria v’erano poco più di 900 chilometri, che avrebbero tranquillamente potuto essere percorsi a dorso di cavallo se Sinesio non avesse deciso di viaggiare comodo regalandosi una crociera rilassante con tutti i comfort.
In teoria.
All’atto pratico, sto per cedere il palcoscenico al mio ospite: ed ecco a voi entrare in scena la mia very special guest star, cui vi suggerirei di affidarvi con fiducia. Perché tra le sue tante qualità, Sinesio aveva anche questa: era, con ogni evidenza, un comico nato.
***
Partimmo da Bendideum alle prime luci dell’alba, ma a mezzogiorno avevamo a malapena oltrepassato Pharius Myrmex. Questo, perché la nostra nave si era incagliata nel letto del porto tre volte di fila consecutivamente. La cosa mi parve fin da subito un cattivo presagio, e con ogni evidenza sarebbe stato più saggio se avessi approfittato di quel preavviso per abbandonare rattamente una nave che era palesemente baciata dalla malasorte. Ma ero imbarazzato al pensiero di esporre me stesso a un’accusa di vigliaccheria da parte tua, sicché mi negai il permesso di avere paura o di prendere provvedimenti.
Dunque, carissimo fratello, ritengo a conti fatti di poter dire che tutto quello che è successo da quel momento in poi è sostanzialmente colpa tua. […] A maggior ragione non ho dubbio che ti divertirai moltissimo ad ascoltare le mie disavventure, e anche a deridermi dall’alto della tua sapienza beffarda. Ebbene, credo che inizierò innanzi tutto col darti conto di come era composta la nostra ciurma.
Il nostro capitano era un uomo sull’orlo del tracollo economico: un depresso grave, che probabilmente meditava il suicidio. Oltre a lui, avevamo dodici marinai: un equipaggio di tredici persone in tutto!
Per inciso, un commento interessante: una delle più antiche attestazioni note circa il valore negativo nel numero 13, nel folklore. Una superstizione di evidente matrice cristiana, che Sinesio mette sullo stesso piano di una credenza popolare già diffusa in Età Classica: quella secondo cui, quando ci si prepara a uscire di casa e ci si inciampa sulla soglia, sarebbe molto meglio fare dietrofront, pena l’essere colpiti dalla malasorte. Incagliarsi sul fondale del porto (e per tre volte di fila!) era evidentemente un eloquente omologo a tema nautico.
Ma torniamo all’equipaggio della nave, capitanata dal simpatico Amaranto:
Più della metà dei marinai (incluso il capitano) erano Ebrei: individui che evidentemente ritengono che i propri meriti di fronte a Dio siano direttamente proporzionali al numero di Gentili che riescono a mandare agli Inferi in un colpo solo.
E vi prego, date fiducia a Sinesio e non offendetevi anzitempo: sembrerebbe un pregiudizio antisemita come tanti, ma vi assicuro invece che nel contesto ha senso ed è molto ironico, come vedrete.
I restanti marinai erano dei contadini raccogliticci, che fino a un anno fa non avevano mai tenuto in mano un remo in vita loro. Una cosa però accomunava l’uno e l’altro gruppo: e cioè, che ogni singolo marinaio aveva qualche grave difetto fisico. Sicché, nelle prime fasi del viaggio, noi passeggeri ci divertimmo molto a scherzare tra di noi ribattezzando l’equipaggio con i segni distintivi delle loro disgrazie: c’erano lo Zoppo, il Guercio, il Mancino, il Rattrappito… Finché ci fu mare calmo, questo passatempo ci procurò una considerevole dose di risate. Quando però ci trovammo in mezzo alla bufera, il ricordo di quel gioco passato cominciò improvvisamente a non sembrarci più così divertente.
In tutto, noi passeggeri eravamo una cinquantina: circa un terzo era composto da donne, quasi tutte molto giovani e graziose (ma non affrettarti a invidiarmi troppo, fratello mio, perché c’era un telone a nascondercele alla vista. Sì, un telone, costruito con il brandello di una vela che si era strappata di recente, ma che per noi uomini dabbene era un muro di Semiramide, come certo immaginerai. È pur vero che anche a Priapo in persona sarebbe passata ogni velleità se avesse avuto la ventura di viaggiare a bordo della nave di Amaranto, perché non c’è stato un singolo momento della navigazione in cui il nostro stimato capitano ci abbia lasciati liberi dalla paura di morire).
***
Avevamo appena doppiato il tempio di Poseidone, lì dalle tue parti, che quel brav’uomo puntò dritto verso Taphosiris, a vele spiegate, apparentemente determinato a ingaggiare con Scilla una lotta come quelle di scolastica memoria. Questa sua manovra suicida, noi la rilevammo solo quando realizzammo che la nave sembrava molto prossima a implaccarsi sulle scogliere; al che, sollevammo all’unisono un grido così potente che Amaranto dovette forzatamente rinunciare al suo tentativo di smuovere la terraferma. Al che – evidentemente posseduto da una nuova idea autodistruttiva – fece di scatto una virata e voltò la prua verso il largo, lottando contro il vento contrario con ammirevole ostinazione.
Ahinoi, di lì a poco si levò da Sud un vento fresco che ci portò via, e presto perdemmo di vista la terraferma. Eravamo sulla rotta delle navi da carico a doppia vela, in un tratto completamente diverso da quello in cui avremmo dovuto stare. […] Gli dissi allora: “stimatissimo Amaranto, cosa diamine ci facciamo in mare aperto? Andiamo piuttosto verso la Pentapoli, costeggiando la riva. Se per disgrazia dovessimo affrontare una di quelle tempeste che, come tu ci insegni, sono frequenti in mare, almeno saremmo in grado di trovare rifugio in qualche porto vicino”.
Non riuscii a persuaderlo, e ovviamente di lì a poco scoppiò puntuale una tempesta marina. Il vento sollevò onde altissime: una folata di incredibile violenza ribaltò la vela rendendola concava invece che convessa, e la nave fu quasi capovolta dalla poppa. Con molta difficoltà, riuscimmo a rimetterla in posizione.
Buona notizia, ma non risolutiva: perché,
più passavano le ore, più le onde aumentavano di volume.
Ma qui arriva il colpo di scena, amici!
A quel punto, ci stavamo avvicinando a quel giorno della settimana che gli Ebrei chiamano Shabbat: quello che trascorrono dedicandosi al riposo e alla preghiera e astenendosi da ogni tipo di lavoro. Ritengono che il giorno del sabato, così come la notte che lo precede, siano un tempo sacro in cui non è lecito lavorare con le proprie mani. Di conseguenza, il nostro pio capitano abbandonò seraficamente il timone nel momento stesso in cui sospettò che i raggi del sole avessero lasciato la terra e, gettandosi prostrato sul ponte della nave, se ne stette sdraiato lì, tipo un tappeto umano.
Noi, inizialmente, non riuscivamo a capacitarci di cosa diamine stesse facendo. Pensammo che avesse avuto un tracollo nervoso a causa della situazione, quindi corremmo in suo aiuto e lo implorammo di non perdere del tutto le speranze. Le onde erano così alte da far imbarcare acqua alla nave e il mare stesso sembrava in guerra con se stesso […]: sì, ho bisogno di tutto il mio apparato di figure retoriche per non cadere nel banale mentre descrivo simili pericoli.
Il problema è che, per le persone che fanno vita di mare, è ben noto come la vita sia appesa a un filo sottile nel momento in cui ci si trova in queste condizioni. E se il nostro capitano non si fosse mostrato un fedele osservante della legge mosaica, in quel momento estremo, quale destino lo avrebbe atteso?
Insomma, capimmo ben presto il motivo per cui aveva abbandonato il timone. E quando gli urlammo di fare del suo meglio per riprendere il controllo della nave e non ammazzarci tutti, lui continuò a leggere impassibile il suo rotolo della Torah, con un aplomb anche ammirevole. Disperando di poterlo persuadere con le parole, tentammo con la forza, e un bravo soldato (c’erano a bordo molti cavalieri arabi), un bravo soldato, dico, estrasse la sua spada e minacciò di decapitarlo seduta stante se non avesse immediatamente ripreso il controllo della nave. Ma neanche questo riuscì a smuovere quello zelante Maccabeo, che nella sua santa imperturbabilità era veramente determinato a persistere nelle sue osservanze.
E qui, sto immaginando la vostra obiezione: “Lucia, guarda che questo è davvero un pregiudizio antisemita. Per salvare una vita umana o portare soccorso a un malato grave, gli Ebrei non sono tenuti a rispettare il riposo dello Shabbat!”.
Eh, appunto:
La buona notizia è che, dopo molte ore di questa solfa, nel cuore della notte, il nostro Amaranto tornò volontariamente al timone. “Lo posso fare”, ci spiegò, “perché adesso siamo senza dubbio in gravissimo e immediato pericolo di morte, e in questo caso la Legge mi consente di lavorare”. Immaginerai come la notizia abbia avuto l’effetto di far scoppiare a bordo una certa reazione collettiva, tra gemiti di uomini e urla di donne: tutti invocavano gli dèi e gridavano disperati. Solo Amaranto era di ottimo umore, probabilmente perché si consolava al pensiero di morire presto e di non dover saldare il debito coi suoi creditori.
In una di quelle toccanti manifestazioni di panico collettivo che hanno fatto la fortuna di Titanic,
notai che tutti i soldati a bordo avevano sguainato le loro spade. Chiedendo loro perché lo avessero fatto, mi sentii rispondere che consideravano più onorevole disperdere le loro anime al vento mentre erano ancora sul ponte, che non farle affondare con loro naufragando. E ti dirò: in quel contesto, approvai completamente la loro visione della cosa.
Poi qualcuno proclamò ad alta voce che chiunque avesse con sé dell’oro avrebbe dovuto legarselo attorno al collo, e tutti ubbidirono. Le donne indossarono in fretta i loro gioielli e distribuirono pezzi di corda a chi ne aveva bisogno, per legare al collo i suoi oggetti di valore: tale è l’antica usanza popolare. E questa è la ragione: è necessario che il cadavere di un naufrago trasporti con sé una tassa per la sepoltura, affinché chiunque recuperi la salma e la spogli dei suoi averi abbia a temere l’indignazione degli dèi dell’Oltretomba. Difficilmente costui si asterrà dallo scavare una fossa per colui che lo ha ripagato tanto di più, in denaro.
E così, anche Sinesio si lega diligentemente al collo un grosso sacchetto di denaro, standosene seduto in un cantuccio ad aspettare rassegnato il suo destino.
Ciò che faceva sbucare la morte ai nostri piedi era il fatto che la nave stava correndo all’impazzata con tutte le vele spiegate e che non c’era modo di riprenderla, poiché ogni volta che tentavamo di abbassarle eravamo ostacolati dalle corde che si impigliavano nelle pulegge.
E, in realtà, le disavventure di quel viaggio sono ben più lunghe di come io adesso le stia descrivendo. A un certo punto, il vento cala e il pio capitano riesce a riprendere il controllo della nave: emerge che la vela si è strappata in due e che quella di riserva si trova da qualche parte nel magazzino del prestatore di pegno con cui Amaranto è indebitato. A bordo ce ne sarebbe stata un’altra, ma era così malconcia che le castissime passeggere donne non s’erano fatte problemi nel ridurla a brandelli per creare quel famoso divisorio con cui proteggersi dagli indiscreti sguardi maschili. Una rapida ricognizione porta a scoprire che anche gli ancoraggi si sono allineati allo stesso trend disagiato: delle tre àncore che avrebbe dovuto avere l’imbarcazione, la prima c’è, la seconda è stata venduta per ripagare i creditori, e la terza non è mai esistita proprio.
Com’è, come non è, Amaranto riesce a trascinare il suo barchino fino a un isolotto in alto mare: poco più che uno scoglio disabitato con qualche albero da frutto, sul quale però i passeggeri hanno modo di riprendersi mentre l’equipaggio si prende qualche giorno per riparare la vela alla bell’e meglio.
Certo che, a un certo punto, bisogna necessariamente rimettersi in mare:
Era il tredicesimo giorno della luna calante, e un grande pericolo era imminente a voler dare ascolto alla congiunzione degli astri e a quei ben noti cambi di sorte che ne conseguono, e che nessuno, a quanto pare, ha mai affrontato impunemente trovandosi per mare. Così, proprio in quel giorno in cui più di tutti avremmo dovuto rimanere in porto, fummo così idioti da riprendere il largo.
La tempesta scoppiò puntuale con venti da nord e con piogge torrenziali, in quella notte senza luna. I venti infuriavano e il mare era come un terremoto: quanto a noi, eravamo esattamente dell’umore che ti immagineresti. Ma non ti tedierò con la descrizione di sofferenze identiche a quelle già narrate, grazie al fattivo aiuto del destino che stavolta ci mandò disgrazie di tutt’altra portata: il pennone della nave cominciò a creparsi e si ruppe in due cadendo su di noi. Per poco non ci uccise tutti. Paradossalmente, non riuscendoci, finì piuttosto col salvarci la vita: se la nave non avesse cominciato a cadere a pezzi, non avremmo mai potuto resistere alla forza del vento, perché ancora una volta la vela era ingestibile e si opponeva a ogni nostro sforzo per riprenderla.
Invece, in tal modo, i nostri amici sono costretti a farsi trascinare dalla corrente per un giorno e una notte;
ed ecco, alla prime luci dell’alba, proprio davanti a noi, uno scoglio affilato che sporgeva come una breve penisola! Si levò istantaneamente un grido, perché cominciò a correre voce che avessimo finalmente toccato terra e fossimo dunque salvi.
Su questo punto specificatamente, c’erano moltissime urla e pochissimo accordo. I membri dell’equipaggio erano terrorizzati, mentre noi passeggeri, per inesperienza, battevamo le mani e ci abbracciavamo, incapaci di contenere il nostro sollievo. Gli uomini di mare, invece, ritenevano che quegli scogli affilati, con conseguente rischio di incagliarcisi, fossero il più grande dei pericoli che ci avevano assaliti in tutto quel tempo.
Quando apparve il giorno, s’affacciò dalla scogliera un uomo in abiti rustici che ci indicò a segni quali erano i luoghi pericolosi e quelli a cui potevamo avvicinarsi in sicurezza. Poi ci raggiunse su una barca a due remi, e il capitano gli cedette riluttantemente il timone. Fatto sta che, dopo non più di cinquanta stadi, arrivò ad ancorarci in un delizioso porticciolo che credo si chiami Azarium. Lo acclamammo come nostro salvatore, come un angelo.
Ed è proprio sulle spiagge di Azarium che Sinesio compone la lettera che state leggendo, bloccato lì come un naufrago a tempo indeterminato nell’attesa che l’equipaggio riesca a riparare la nave quel tanto che basta per rimetterla in mare.
Il problema è che di lì a poco le provviste cominciarono a scarseggiare. Non avevamo minimamente previsto tutte queste disgrazie e non avevamo messo in conto di prolungare così a lungo il nostro viaggio, sicché non avevamo portato con noi scorte sufficienti né avevamo razionalizzato quelle che avevamo a bordo. Ma anche per questo il vecchio aveva un rimedio: non ci diede nulla di suo (e certamente non sembrava quel tipo di persona che potesse avere possedimenti), ma ci indicò delle rocce dove – diceva – pranzo e cena se ne stavano nascosti per coloro disposti a lavorare per procurarseli.
Insomma, ci mettemmo a pescare, e da sette giorni stiamo vivendo col frutto della nostra pesca. I più robusti del gruppo cercano aragoste e astici, i bambini si divertono tantissimo a catturare gamberetti; poi ci siamo io e un monaco che arriva da Roma, che passiamo tutto il giorno a staccare patelle dagli scogli.
Nelle prime fasi di questa vita da naufraghi ce la siamo cavata abbastanza male: ognuno teneva per sé tutto quello che riusciva a ottenere e nessuno condivideva con il prossimo. Ma adesso abbiamo preso il ritmo e abbiamo abbondanza di cibo
e non solo: gli abitanti di Azarium sono scesi in soccorso dei superstiti soccorrendoli con uova, formaggi, focacce d’orzo e sacchi di farina che periodicamente consegnano alle caste naufraghe, sempre asserragliate nella nave dietro il loro telo. All’incirca.
Tutta questa gentilezza della popolazione autoctona verso le nostre donne, probabilmente la attribuiresti alla virtù degli uomini del luogo. Ecco, non è così: e varrà la pena di spiegarti anche questo, visto che ora come ora ho parecchio tempo libero. La collera di Afrodite, a quanto pare, grava pesantemente su questo scampolo di terra: le donne del posto sono brutte come le Lamie. […] Ora, caso vuole che a bordo della nostra nave ci fosse una giovane schiava proveniente dal Ponto nella quale Arte e Natura si sono combinate per cesellare il suo corpo con più curve di quelle che ha una formica. Gli occhi di tutti sono su di lei, e negli ultimi tre giorni gli uomini più ricchi della città l’hanno mandata a chiamare nelle loro case e se la sono passata dall’uno all’altro. Lei è così poco imbarazzata dalla situazione che adesso se ne va tranquillamente in giro nuda.
E giù di formaggi e di focacce a favore dei naufraghi.
E così finisce la mia storia. Il Divino l’ha plasmata per il tuo gradimento mescolando pari quantità di comico e di tragico, e io ho cercato di fare altrettanto nel resoconto che ne te ne ho dato. So che questa lettera è troppo lunga, […] ma visto che non è affatto certo che potrò vederti di nuovo, vista l’aria che tira, mi sono preso tutto il piacere nello scriverti per esteso. […] Stammi bene; manda i miei saluti più affettuosi a tuo figlio Dioscuro e a sua madre e a sua nonna; saluta per me la filosofa santissima e venerata [Ipazia, NdR] e rendi omaggio alla compagnia dei beati che si compiacciono della sua divina presenza. […] Salutami in particolare Teodosio, che si dimostra non essere solamente un grammatico di prim’ordine ma anche un veggente dagli incredibili poteri: doveva aver previsto il destino di questo viaggio, visto che avrebbe dovuto venire con me e ha desistito all’ultimo momento. Senza mettermi in guardia. Ma è una questione che non ha importanza: gli voglio bene, e gli mando un abbraccio.
Per quanto riguarda te: per l’amor del cielo, non fidarti mai del mare.
E, se proprio sei costretto, almeno non salpare nelle notti di luna nuova.
Per approfondire:
The letters of Synesius of Cyrene, translated into English with introduction and notes by Augustine FitzGerald (Oxford University Press, 1926). La traduzione in Italiano è mia: fedele al testo anche se non sempre letterale parola per parola, per ragioni di godibilità.
All’epistola è stato dedicato anche un articolo di commento a firma di Jacqueline Long: Dating an Ill-Fated Journey: Synesius, Ep. 5., in: Transactions of the American Philological Association 122 (1992)
sircliges
È divertentissimo!
🤣🤣🤣
Adesso però vogliamo (parlo a nome della categoria maschile) maggiori dettagli sull’Elogio della calvizie
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Lucia Graziano
Visto l’enorme successo di pubblico, ho il sospetto che Sinesio diventerà ospite fisso di questi schermi 😆
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franconich
Grazie, divertentissimo! Anche la tua traduzione mette la giusta verve nel testo. Potresti fare stand-up comedy. Sono sempre ammirato di come riesca a pescare queste perle!
Nota aritmetica: mi pare che sia la lettera quarta, non la quinta della raccolta di FitzGerald.
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Lucia Graziano
Sì, nell’edizione di FitzGerald è la quarta, non ho idea del perché, ma in tutto il resto delle edizioni moderne in qualsiasi lingua occupa effettivamente il posto 5. Non ho idea del perché, onestamente, FitzGerald abbia una numerazione diversa 👀 Io ho mantenuto quella che adesso viene comunemente accettata perché di fatto è quella che viene utilizzata in tutte le edizioni più recenti, ma avevo notato anch’io l’anomalia.
Boh?
E grazie per i complimenti, spesso anche io mi stupisco di tutte le perle assurde che si riescono a trovare sui libri di Storia. Sul “come” temo che la risposta risieda nell’essere pazzi, non avere una vita e passare il tempo a leggere roba assurda invece di fare cose utili 😂😜
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Gianluca di Castri
Articolo molti interessante e piacevole da leggersi, mi congratulo con lei (e con Sinesio)
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Lucia Graziano
Ma grazie! 😁
Qui, a dirla tutta, il merito è tutto di Sinesio, io mi sono limitata a ridere come una cretina lasciandogli spazio 😛
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ac-comandante
Per quanto riguarda te: per l’amor del cielo, non fidarti mai del mare.
Mai, perchè col mare non si scherza. Quando si è troppo baldanzosi si è visto come si finisce, mi bastano i nomi di tre navi: il Titanic , il Thresher e la Costa Concordia… sia che la nave la si comandi sia che la si costruisca (al Titanic non si ruppero le lamiere ma le chiodature scadentissime, al Thresher gelò una valvola d’aria, la Concordia aveva enormi spazi liberi all’interno, tutti e tre erano lo stato dell’arte dell’ingegneria navale del loro tempo).
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Lucia Graziano
Sì, ho l’impressione che oggigiorno l’uomo qualunque tenda a sottovalutare un po’ i pericoli del mare. Tempo fa ho conosciuto piuttosto bene un marittimo, che del mare e dei viaggi in nave aveva una visione molto più disincantata: ovviamente erano il suo pane quotidiano e non è che gli dispiacessero, sennò avrebbe cambiato lavoro, ma era anche molto vocale sulla loro pericolosità nel malaugurato caso in cui qualcosa fosse andato storto, e sulla globale spiacevolezza di certi loro aspetti (per esempio nei giorni di mare mosso).
E davvero mi sono trovata spesso a pensare: se sono queste le posizioni di un uomo di mare degli anni 2000, con tutti i comfort e le garanzie della tecnologia di oggi, figuriamoci cosa doveva essere fare il marinaio nei secoli passati!
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