Chi ha inventato la mascherina “anti-contagio”?

Le fotografie in bianco e nero di signore anni ’20 con la mascherina sono probabilmente il simbolo che più facilmente associamo all’epidemia di influenza spagnola. E davvero si può definire la mascherina chirurgica il simbolo di quell’epidemia – ché mai, prima di allora, i medici avevano tentato di arginare il contagio in quel modo.
Ma esattamente: chi fu il primo ad aver l’idea?
Insomma: chi è “il papà” della mascherina “anti-epidemia”, ormai tornata compagna fedele delle nostre giornate?

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Il nonno (anzi, il bisnonno) è sicuramente da individuare nella persona di Joseph Lister (1827-1912), il medico cui il Listerine deve il suo nome. Professore di Chirurgia all’Università di Edimburgo, nel 1867 scoprì che l’acido fenico, una sostanza che fino a quel momento veniva utilizzata perlopiù come deodorante per fogne, aveva ottime proprietà antisettiche.
Non chiedetemi quale demone interiore spinse Lister a spalmante un deodorante per fogne sulle ferite aperte delle cavie. In ogni caso, l’idea fu vincente: l’acido fenico mostrò di essere molto efficace nel bloccare sul nascere lo sviluppo dei germi, strani microorganismi di cui Pasteur aveva appena scoperto l’esistenza.

L’intuizione di Lister rese evidente che disinfettare una ferita aiuta a farla guarire bene (eh beh). Parallelamente, permise di intuire che il trovarsi in un ambiente sterile è di una certa utilità quando si vuole causare una ferita (ad esempio, durante un intervento chirurgico).
Nel 1871, Lister inventò una macchinetta che nebulizzava disinfettante sul campo operatorio; al tempo stesso, suggerì ai chirurghi di lavare accuratamente, in quello stesso disinfettante, mani e strumenti di lavoro. Gradualmente, tutte queste attenzioni portarono alla nascita di altre buone pratiche da usarsi in sala operatoria, tra cui l’utilizzo di guanti e camici precedentemente sterilizzati.

Lister 1882
Un intervento chirurgico nel 1882

All’appello mancava solo un elemento: la mascherina chirurgica, appunto. Per vederla entrare in scena toccò aspettare ancora un po’. Per la precisione, fino al 1897, anno in cui il batteriologo Carl Flügge dimostrò che alcune malattie potevano trasmettersi per via aerea attraverso l’emissione, da parte del soggetto malato, di goccioline di saliva. Talmente piccole da essere invisibili a occhio nudo… ma non per questo meno pericolose.

Far due più due fu questione di pochi mesi. Pare che il primo chirurgo ad aver utilizzato una mascherina operatoria fu, nell’ottobre 1897, il francese Paul Berger. A quanto pare, il poveretto aveva una periostite che gli causava un gran brutto mal di denti, e temeva di poter involontariamente infettare l’ignaro paziente sul tavolo operatorio. Sicché, scelse di entrare in sala proteggendo naso e bocca con “un impacco rettangolare di sei strati di garza, cucito sul bordo inferiore al suo grembiule di lino sterilizzato”.

E fu così che la mascherina bianca si impose nelle sale operatorie di tutto l’Occidente.
Ma, esattamente, quando e perché uscì dagli ospedali per appiccicarsi alla faccia dei civili?

***

L’idea di poter usare una mascherina chirurgica durante le epidemie, a scopo di contenimento del contagio, aveva già solleticato la fantasia di più di un medico. Negli anni ’10 del Novecento erano già stati condotti alcuni studi in questo senso. Il problema è che non sempre avevano portato a risultati incoraggianti.
Nel caso di meningite, ad esempio, la mascherina era sembrata effettivamente utile per ridurre il contagio in percentuali significativa. In compenso, si era mostrata totalmente inefficace nell’arginare una epidemia di scarlattina. Di conseguenza, quando nel 1918 la gente cominciò a morire di spagnola, l’efficacia pratica delle mascherine sembrava “dubbia” per usare un eufemismo.

Ad ogni buon conto, nel settembre di quell’anno, l’Ufficio di Sanità Pubblica degli USA aveva suggerito al personale medico-infermieristico di indossare la mascherina chirurgica anche al di fuori della sala operatoria, a scopo di prevenzione, qualora ci si fosse presi cura di pazienti affetti da influenza. Si sa mai. La notizia trapelò al di fuori degli ospedali e scatenò una vera e propria corsa alla mascherina da parte della popolazione – ma, al tempo stesso, si levarono anche voci fortemente critiche.

Ad esempio, un certo Archibald Hayne, direttore del Cook Country Contagiuos Disease Hospital, si dichiarò contrario all’uso delle mascherine addirittura in ambiente ospedaliero: molto più utile – secondo lui – concentrare risorse ed energie su pratiche più urgenti, come il lavaggio frequente delle mani, tamponi bisettimanali da effettuare su chi veniva a contatto con gli ammalati, la rimozione di tonsille infiammate e denti cariati nel personale medico-infermieristico.
Archibald aveva posizioni singolarmente rigide, non condivise dalla maggioranza dei colleghi – ma riguardo all’utilità di un uso generalizzato della mascherina da parte dei civili, il dubbio restava.
Serviva effettivamente a qualcosa? O era solamente un palliativo?

A mettere una parola definitiva sulla questione ci pensò l’esercito statunitense, grazie agli esperimenti condotti dai suoi medici militari.
Il primo degno di una certa attenzione fu quello condotto, nell’ottobre 1918, dagli scienziati Doust e Lyon, i quali si domandarono se l’altalenante efficacia delle mascherine potesse dipendere dal materiale con cui esse erano confezionate. Condussero dunque una serie di esperimenti che li portò a scrivere che “sì”, la scelta del materiale era decisiva: giudicate sostanzialmente inutili le maschere di garza, ritenevano che fossero invece di una certa efficacia le maschere create sovrapponendo almeno tre strati di mussolina (…presente, quel cotone a trama molto fitta che oggi usiamo per gli accessori da neonato?).

Alla luce degli esperimenti di Doust e Lyon, il tenente Minaker della Marina Militare scelse di testare concretamente l’efficacia della mascherina (anzi: di diversi tipi di mascherine, confezionate con materiali e tecniche diverse) usando come cavie i marinai che si trovavano presso la base navale di Yerba Buena.
Nel momento in cui iniziavano questi esperimenti (dicembre 1918) erano presenti in infermeria ventotto malati di influenza e numerosi marinai affetti da bronchiti acute, riniti e tonsilliti follicolari. I malati furono posti a sei pollici di distanza da una piastra di coltura e fu chiesto loro di dare tre colpi di tosse in quella direzione, a viso scoperto. Dopodiché, la piastra di coltura veniva sostituita e i malati erano invitati a tossire di nuovo, ma stavolta coprendosi il volto con una mascherina.

Il metodo permetteva agli scienziati di verificare se nelle piastre di coltura fossero presenti batteri: una informazione piuttosto inutile se il tuo problema è una malattia di origine virale… ma all’epoca non era neppure chiaro quale fosse l’agente patogeno che causava l’influenza.
I risultati, in ogni caso, furono piuttosto confortanti: delle 400 colture ottenute facendo tossire i soldati senza mascherina, 201 risultavano sterili ma ben 199 mostravano la presenza di batteri (per la precisione, di un totale di 324 microorganismi diversi).

Le colture effettuate “con mascherina” offrivano dati che variavano visibilmente a seconda del tipo di mascherina utilizzata, ma che potevano arrivare a un confortante 97% di colture risultate sterili se il soggetto indossava un dispositivo confezionato sovrapponendo l’un sull’altro otto strati di stoffa di cotone.

Mascherine

La cosa che ai medici sembro più interessante, però, era un’altra: dei 324 microorganismi che erano stati isolati nelle colture “senza mascherina”, solamente 11 erano stati in grado di oltrepassare la protezione. In altre parole, le mascherine di cotone sembravano capaci di bloccare il 96,6% dei batteri che in quelle settimane impestavano l’infermeria della base navale.
Il che – ripeto – è una nozione di utilità relativamente scarsa se il tuo nemico è un virus… ma, come si suol dire, “sempre meglio di uno sputo in faccia”. Un modo di dire da intendersi in senso molto letterale, in questo caso.

E così, all’aprirsi del 1919, l’uso di mascherine fu reso obbligatorio per legge in tutti gli Stati Uniti (che si distinsero per la forza con la quale fecero applicare norme molto rigide e stringenti, simili a quelle in vigore ai giorni nostri. In Europa, solo la Francia provò a lottare contro l’influenza con un simile rigore – ahilei, vedendosi tarpare le ali dalla scarsa collaborazione di sindaci e prefetti).

Ah, i corsi e i ricorsi della Storia!

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(Per un approfondimento sul lato medico, segnalo l’interessante articolo apparso nel 2007 sul Public Health Reports, dal titolo Lessons Learned from the 1918–1919 Influenza Pandemic in Minneapolis and St. Paul, Minnesota. Che dite: sono lezioni che abbiamo effettivamente imparato?)

6 risposte a "Chi ha inventato la mascherina “anti-contagio”?"

    1. Lucia

      Grazie! 🙂
      Studi comparati tra USA e Europa circa l’efficacia delle politiche sanitarie dell’epoca, non credo che esistano (o magari sì, ma non ne ho mai trovati). Peraltro, in Europa nel 1918 erano molto pesanti le condizioni di vita in generale, e sicuramente anche quello ha inciso.

      Però esistono degli studi che analizzano l’effettiva efficacia dei provvedimenti di contenimento dell’epidemia negli Stati Uniti, confrontando la crescita dei contagi nelle città che furono le prime a imporli e/o le ultime ad allentarle. Le più virtuose in questo senso furono San Francisco, St. Louis, Milwaukee e Kansas City, le quali riuscirono a contenere i contagi del 30-50% in più rispetto alle città che non furono così rapide a imporre le norme e/o le allentarono troppo presto.

      (NB con “norme per contenere i contagi” non intendo solo l’uso della mascherina ma anche la chiusura degli edifici pubblici, il divieto di assembramento etc. Un po’ come ai giorni nostri insomma :-D)

      The effect of public health measures on the 1918 influenza pandemic in U.S. cities

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