Dagli archivi dei Mormoni arriveranno le risposte che cerchiamo sull’influenza?

Iniziamo con un paio di disclaimer doverosi, ché:

Uno: sono una storica e un’archivista storica, non una epidemiologa.
Due: sono dell’idea che l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno siano blogger che, nel mezzo di una pandemia, diffondono a mezzo Internet teorie mediche strane che si son sognati la notte.
Fatte queste dovute premesse, sintetizzabili insomma in “no, non mi sono bevuta il cervello”: il fatterello che sto per raccontare l’ho detto su studi di tutto rispetto. E l’ho trovato così curiosa e “in tema” con questo blog da ritenerlo meritevole di una noticina.

***

Orbene: parliamo dell’influenza spagnola. Riguardo a questo virus influenzale, c’è un dato assai curioso: la spagnola sembrava molto contagiosa per i bianchi e decisamente meno contagiosa per i neri. Non chiedetemi perché, ma così è. Se ne accorsero già i medici dell’epoca, notando che ciò valeva anche in contesti, come le caserme, nei quali non si poteva certo dire che i commilitoni bianchi e neri avessero stili di vita differenti.

Eppure, la differenza era visibile a occhio nudo. I neri sembravano essere protetti da una buona stella che li tendeva a proteggerli dal contagio.
Ora: ad oggi, l’unica ipotesi ragionevole è che questa buona stella sia da individuarsi in un qualche fattore genetico che non abbiamo ancora compreso. Mi rendo conto che sembri ‘na cosa razzista, ma diversamente non si spiega.

Che la genetica possa influenzare la risposta di un organismo alla sindrome influenzale è una ipotesi che ha affascinato a lungo gli studiosi.
Naturalmente, è una ipotesi difficile da verificare, per ovvie ragioni. Mediamente, gli individui che hanno geni in comune fanno parte della stessa famiglia e, mediamente, le famiglie tendono a frequentarsi, il che ovviamente falsa ogni statistica.

Per assurdo, uno studio che volesse verificare se esiste una predisposizione familiare a contrarre l’influenza dovrebbe basarsi su un campione numericamente significativo di individui imparentati tra di loro, che però non si sono frequentati per tutta la durata della pandemia. Chessò: figli già adulti che erano lontani dai genitori per motivi di lavoro. Prozii che vedi a Natale una volta l’anno. Cugini che magari saltano pure il cenone della Vigilia.

Il problema è che non è mica tanto facile isolarlo, a distanza di cent’anni, un campione di individui con queste caratteristiche. Bisognerebbe poter attingere a un database contenente non soltanto i dati anagrafici degli individui che hanno vissuto la Spagnola, ma anche e soprattutto i loro alberi genealogici, in modo tale da poter individuare i legami genetici tra congiunti.

Sarebbe bellissimo avere un database del genere, mi direte: ma dove andarlo a trovare?
Molto semplice! In un bunker anti-atomico scavato nella roccia della Granite Mountain, nei pressi di Salt Lake City.

Granite Mountain

Vi stupirò con una notiziola che molti di voi potrebbero non conoscere.

Avete presente i Mormoni? Ecco, loro.
Spero di non dire imprecisioni sul lato strettamente teologico, ma i Mormoni sono archivisti per vocazione.
O, per meglio dire, sono genealogisti per vocazione. La loro dottrina assicura che i defunti che sono morti senza aver ricevuto il battesimo (mormone) possano essere salvati post-mortem tramite un battesimo vicario, amministrato su persone viventi che si sottopongono al rito in loro vece, “per procura”.
Di conseguenza, i Mormoni ritengono loro dovere sottoporsi a battesimi vicari per salvare tutti i loro cari ormai defunti – ivi compresi trisavoli e antenati vari, andando a ritroso attraverso le generazioni fin dove è materialmente possibile spingersi.

Questa convinzione ha trasformato i Mormoni in un esercito di genealogisti tra i migliori al mondo. A titolo di curiosità: quei siti tipo FamilySearch che vi permettono di creare online il vostro albero genealogico non nascono così per caso: sono gestiti dai Mormoni.
Sempre a titolo di curiosità: vista la delicatezza della questione sul piano religioso, una nota CEI del 2009 ha ordinato ai parroci di impedire ai membri della Chiesa mormone di accedere ai registri parrocchiali allo scopo di digitalizzarli. Un timore che evidentemente non condivide il Ministero dei Beni Culturali, il quale, nel 2010, ha siglato (non senza polemiche) un accordo con la Chiesa Mormone in virtù del quale i nostri amici genealogisti digitalizzeranno a costo zero qualcosa tipo 115 milioni di pagine di dati anagrafici conservati nei nostri archivi di stato civile.

Insomma: una storia strana e curiosa, che ha fatto inarcare diverse paia di sopracciglia ma che si è anche mostrata una manna dal cielo per la ricerca. Perché tutti i dati anagrafici che la Chiesa Mormone colleziona (e poi mette in relazione tra di loro, di modo tale che ogni fedele sappia quali sono i suoi trisavoli da battezzare) finiscono in un gigantesco archivio sotterraneo dalle parti di Salt Lake City, un letterale caveau antiatomico scavato nella roccia che colleziona una crescente quantità di dati anagrafici collegati l’un con l’altro a formare migliaia di alberi genealogici dalle profondissime radici.

76728

In anni recenti, i Mormoni hanno avviato un progetto di digitalizzazione di questi dati: sicché, oggigiorno, è possibile scoprire con pochi click la causa di morte di un individuo e poi ricostruire, con un altro paio di click, tutte le sue relazioni di parentela con altri individui presenti nel database.

A molti, la cosa mette addosso una certa inquietudine.
A Frederick Albright, la cosa mise addosso un’incredibile eccitazione.

Nel 2008, lo studioso della University of Utah School of Medicine sfruttò il database dei Mormoni per selezionare arbitrariamente un campione di circa cinquemila individui defunti tra il 1904 e il 2004 che risultavano essere morti a causa dell’influenza. Molti di loro erano stati uccisi dalla spagnola, ma altri erano morti nelle decadi successive a causa di altri virus influenzali.

Isolati questi cinquemila defunti, Albright ricostruì i legami di parentela che li legavano agli altri individui presenti nel database.
Nell’arco di poco tempo, si rese conto che chi aveva legami di sangue con questi “pazienti 0” aveva maggiori chance di morire a sua volta di influenza – con un tasso di probabilità che Albright definì “significativamente più alto” di quanto ci si sarebbe aspettati in condizioni normali.

Fino a quel momento – scriveva Albright (in un articolo che qui potete leggere per intero) raramente la storia familiare dei pazienti era stata considerata un fattore rilevante nello studio dell’influenza. Anche perché, ovviamente, la vicinanza fisica e i frequenti contatti tra membri della stessa famiglia aumentano per evidenti ragioni le possibilità di contagio.

E infatti, ad Albright balzò subito agli occhi che la vicinanza fisica con un malato è un fattore di rischio determinante. Risultò molto alto il numero dei coniugi morti di influenza a distanza di pochi giorni, così come fu alto il numero di decessi tra figli conviventi che morivano per la stessa malattia contratta dai genitori. Insomma: la coabitazione con un malato aumentava così tanto il rischio di contagio da rendere del tutto ininfluente una eventuale predisposizione su base genetica (che, ovviamente, non esiste tra marito e moglie).

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Però.
Però, dalle analisi risultò evidente che i parenti di secondo grado dei “pazienti 0” (cioè, persone che non vivevano a contatto col malato, ma che geneticamente gli erano legate) tendevano a morire a loro volta di influenza con una frequenza più alta rispetto alla media. E anche i parenti di terzo grado mostravano un rischio di morte accresciuto.

Influ2

Saggiamente, Albright si domandò se i suoi dati non fossero falsati da questioni di prossimità ambientale che non risultavano dalle carte. Va a sapere: magari, si trovava di fronte a comunità singolarmente unite, nelle quali le famiglie macinavano chilometri pur di pranzare tutte assieme alla domenica, in mega-tavolate stile “pranzo di Natale”.
Sicché, verificò il tasso di mortalità per influenza tra i parenti acquisiti dei suoi “pazienti 0” – cioè: tra i parenti del coniuge… e la differenza fu evidente. Le probabilità che morisse di influenza un parente di sangue del “paziente 0” erano effettivamente più alte rispetto alle probabilità che a lasciarci le penne fosse un paziente acquisito.

Influ3

Secondo Albright, questi risultati (che lui stesso definisce solamente “preparatori” a indagini di più ampio raggio) sembrerebbero dimostrare che l’esistenza di un “ruolo significativo” svolto dalla familiarità genetica, nel determinare il tipo di risposta con cui l’organismo reagisce all’infezione. Il che, secondo lui, potrebbe essere un elemento da tenere in considerazione per stilare, in futuro, protocolli sanitari che inseriscano nelle categorie a rischio non solo gli anziani o i pazienti defedati ma anche gli individui geneticamente predisposti a contrarre la malattia in forma grave – ammesso e non concesso che studi successivi confermino la bontà di queste sue prime analisi, beninteso.

Eppure, sembrerebbe proprio esserci un fondamento di verità dietro la teoria di Albright (che, sempre basandosi sugli archivi dei Mormoni, sta facendo studi analoghi sul ruolo della familiarità genetica nella probabilità di sviluppare cancro e sindrome da fatica cronica). Nel 2011, in Francia, il dottor Casanova dell’Hôpital Necker-Enfants Malades ha scoperto una anomalia genetica su una piccola paziente di due anni che era stata ricoverata più morta che viva a causa di una banalissima influenza di stagione. Ebbene: la bambina (che è guarita e adesso sta benone) era portatrice di una anomalia che la rendeva incapace di produrre l’interferone, una sostanza che apprendo essere indispensabile nel fornire una risposta immunitaria efficace a una infezione da virus influenzale.

Le cose staranno davvero così?
Questa ipotesi sarà effettivamente confermata da studi successivi?
Non lo so, non ne ho idea, non sono un medico, ma intanto la registro e gongolo. Noi topi di biblioteca sembriamo tanto inutili, con le nostre vecchie e polverose carte… e invece, proprio nelle nostre polverose carte si trovano, di tanto in tanto, le risposte che gli scienziati vanno cercando!

(E non è nemmeno la prima volta che succede! Molti studi sulla fertilità si basano sugli archivi parrocchiali francesi di Ancien Régime, l’avreste mai detto?).

9 risposte a "Dagli archivi dei Mormoni arriveranno le risposte che cerchiamo sull’influenza?"

    1. Lucia

      Ah beh, da un punto di vista cattolico è sicuramente un concetto eretico 😀

      Un sito di Mormoni lo spiega così:

      https://giovanimormoni.com/2011/04/20/battesimo-per-i-morti-mormoni/

      Pare che si basino su un passo della prima lettera ai Corinzi di cui onestamente non conosco l’interpretazione ufficiale cattolica, ma vedo che se ne discuteva sul forum “Cattolici Romani”:

      http://www.cattoliciromani.com/20-sacra-scrittura/59716-che-cos-e-il-battesimo-per-i-morti

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  1. Alessandro Montani

    Interessantissimo. Gli archivi dei mormoni erano rimasti sepolti nella mia memoria – temo meno solida del granito di Salt Lake City -, ma li hai fatti riaffiorare insieme al libro sul cui risvolto di copertina ne scoprii l’esistenza, L’enciclopedia dei morti dello scrittore jugoslavo Danilo Kiš. Un bel libro, per quel che ricordo, acquistato soprattutto per il titolo.

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  2. Francesca

    “Che la genetica possa influenzare la risposta di un organismo alla sindrome influenzale è una ipotesi che ha affascinato a lungo gli studiosi.”

    Forse sarai felice di sapere che nel caso del coronavirus non si tratta solo di un’ ipotesi affascinante ma di concreti progetti di studio, già avviati 🙂

    Nemmeno io sono una scienziata ma ti riporto quello che stanno facendo alcuni scienziati. Sono convinta che ce ne siano anche tanti altri che seguono queste linee di ricerca, in Italia e nel mondo.
    Il problema, come sempre, sono le scelte dei giornalisti che anche in tempo di pandemia preferiscono informarci sul gossip e sulla polemica politica invece di fare il vero servizio di informazione che sarebbero tenuti a fare.
    (Se in tempi “normali” il cosiddetto giornalismo può anche vendersi allo stile Novella2000 o Eva3000, nei tempi di emergenze questo comportamento si può definire irresponsabile e disonesto. Ad esempio la disinformazione si spinge anche ad oscurare con polemiche inutili certe sperimentazioni di farmaci e/o di procedure che sotto stretto controllo medico hanno salvato e stanno salvando tante vite. Ad alcuni magari non è chiaro il nesso, ma il nesso è che se i giornalisti insozzano e pressano e bloccano chi sta lavorando seriamente, spesso – nei fatti – risultano dei ritardi fatali, per le singole persone ammalate o anche per interi sistemi sanitari. Ma ora lascio perdere questo argomento e procedo).

    Come dicevo, sono arcisicura che esempi come quelli che farò ce ne sono tanti altri in Italia e nel mondo. È solo che i normali mezzi di comunicazione non ce lo dicono.
    Per questo motivo a te Lucia può sembrare che l’idea della genetica possa essere balenata solo a te e a qualche Mormone 😀
    Come sai scrivo dal Veneto, … e perciò eccoti un paio di cose che vengono dalla mia regione
    (Nota importante. Spero di non apparire come quella che vuole fare “il fenomeno veneto”. Tutti, qui in Veneto, compreso il nostro Presidente di Regione che lo ripete sempre, sappiamo benissimo che la buona situazione che abbiamo raggiunto è dovuta ad un mix di 2 fattori: ok l’organizzazione sanitaria è stata davvero ottimamente condotta MA qui siamo effettivamente graziati dall’inizio da condizioni di epidemia che per sola fortuna erano migliori rispetto a Lombardia, Piemonte, Emilia Romagna e Marche. Una cosa è organizzarsi con le folle di ammalati che stanno già premendo sugli ospedali; altra cosa è poter organizzarsi con circa 10 giorni di anticipo, prima che arrivino quelle folle: ed è questo che è successo in Veneto).

    Ok, dopo tutto questo divagamento… 🙂
    Sono felice di dirti che non è stata solo tua mamma ad interrogarsi sulle donne. C’è anche chi ha fatto “fruttare” l’osservazione nel mondo scientifico. Alcuni dati rilevati da alcuni scienziati in Veneto hanno fatto “accendere una lampadina” che unita alla lampadina delle percentuali uomini/donne hanno fatto avviare uno studio e una sperimentazione su un farmaco (uno dei tanti attualmente in gioco):
    il farmaco che si usa contro i tumori alla prostata.
    In breve, per semplificare: è un farmaco che blocca il testosterone e un enzima collegato (quello di cui si serve il virus). Si era osservato che, mentre in generale gli ammalati oncologici sono immunodepressi e il Covid-19 purtroppo li colpisce senza pietà, ciò non succedeva agli uomini ammalati di tumore alla prostata in trattamento con l’apposito farmaco antitumorale. Cosa fa fondamentalmente quel farmaco? Voilà: blocca il testosterone.
    Una certa conferma collaterale è stata proprio anche il fatto della differenza uomo/donna: se blocchi il testosterone, significa all’incirca che porti l’uomo “in parità” con la donna, diciamo così.
    Informazioni su questo studio, ancora pienamente in corso, si possono reperire su google.
    Non si tratta comunque propriamente di genetica, ma di ormoni e di enzimi.

    Segue secondo post…

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  3. Francesca

    Ma c’è uno studio, anche più importante del suddetto, che è GENETICO, per niente peregrino o fantasioso, ma talmente condiviso dagli scienziati che ha già ottenuto tutti i finanziamenti necessari (italiani e internazionali). Costava parecchio. È già finanziato. Il che significa qualcosa.

    E qui torniamo a Vo’, l’ormai celebre paesino in provincia di Padova dove tutti gli abitanti (circa 3000) sono stati tamponati, quando il coronavirus fu scoperto per la prima volta in Veneto.
    Dopodiché, dopo un po’, quelle persone erano state tamponate per la seconda volta dal prof. Crisanti – costituendo così un campione di studio unico al mondo.

    Adesso siamo al terzo round: al prof. Crisanti con tutto il team di Padova è venuto il pallino genetico. Perché? Perché c’erano diversi indicatori che facevano sospettare implicazioni con la genetica.
    E allora è stato chiesto agli abitanti di Vo’ di essere ancora ri-tamponati e di subire un bel prelievo del sangue per essere “genomizzati”. La cosa doveva essere per forza su base volontaria… perciò un piccolo dubbio poteva esserci sul numero.
    Beh, sono felice di scrivere anche qui che si sono ripresentati di nuovo in gran numero, praticamente tutto il paese, compresi i bambini, tanti di loro tremanti (il tampone in gola per la terza volta per un bambino non è tanto simpatico, e prelevare il sangue nemmeno) ma consapevoli del contributo che daranno a tutto il mondo.
    Il campione è abbondantemente raggiunto e superato per fare lo studio genetico!

    Per chi desiderasse apprendere dettagli dello studio, e che cosa ci potranno dire le analisi sul genoma in relazione al coronavirus, su un campione significativo di persone di tutte le età, allego il video con la conferenza stampa e le spiegazioni direttamente dal prof. Crisanti.

    https://m.facebook.com/story.php?story_fbid=532460034123945&id=172229066312350&__tn__=%2As%2As-R

    Dal minuto 15 parlano (più in generale) il Rettore dell’Uni Padova e il Presidente della Facoltà di Medicina.

    Dal minuto 25 parla (nello specifico) il Prof. Andrea Crisanti che dirige tutta la ricerca. Risponde anche a tutte le domande dei giornalisti (fino al minuto 53).

    Nei giorni scorsi (maggio) si sono conclusi tutti i tamponi a Vo’ e i prelievi del sangue.
    Li stanno già studiando.
    I primi risultati dello studio: tra sei mesi.

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  4. Eleonora

    Wow! Interessantissimo sia l’articolo che i commenti successivi! É stupendo sapere che siamo ai primi posti nella ricerca sul coronavirus e che in Italia ci sono ancora ricerche di eccellenza! Cmq moltissime malattie sono ereditarie e dipendono da fattori genetici, perciò mi sembra un’ipotesi decisamente plausibile che alcune persone possano essere più predisposte di altre ad essere più o meno colpite da certe malattie. Questo vale per esempio per le malattie reumatiche, per alcuni tumori come quello al seno, perciò perché no, per l’influenza? Sarebbe un bel passo avanti se scoprissero qualcosa! Speriamo in bene! Comunque ancora la ricerca italiana al top, nonostante tutte le difficoltà ed i pochi investimenti. C’è da esserne fieri!

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  5. scudieroJons

    La ricerca genealogica svolta dai mormoni per gli scopi della loro fantasiosa credenza, difficilmente potrà risultare utile nella lotta alle malattie. Potrà forse servire a qualche ricco presuntuoso dei tempi moderni, appassionato di araldica, per mostrare ad amici e conoscenti di discendere da qualche famoso prepotente del passato. E se è particolarmente soddisfatto della sua attuale condizione, conoscere l’identità del suo antenato gli permetterà di rivolgergli un pensiero colmo di gratitudine, del tipo: “Grazie, arcavolo!”
    La ricerca genetica sembra molto più promettente nella prevenzione delle malattie. Già adesso i genetisti sono in grado di riconoscere nel genoma umano i segni della presenza o della predisposizione ad alcune malattie. Ma non è un grande risultato sapere che un adulto è o meno predisposto ad ammalarsi di una certa malattia. La vera sconfitta di un crescente numero di mali si avrà quando si riuscirà a far nascere persone esenti da ogni predisposizione genetica sfavorevole. Questo si può ottenere in due modi. Nel primo caso, quando si tratta di caratteri che non si trasmettono a tutti i discendenti, si può esaminare i gruppi di cellule che si sviluppano dagli ovuli fecondati e si permette la trasformazione in embrione solo ai gruppi di cellule che non presentano caratteri ereditari sfavorevoli. Nel caso in cui tutti i discendenti presentino gli stessi geni responsabili di una malattia, si potrebbe intervenire sulla cellula allo scopo di sostituire i geni che predispongono a malattie con altri geni esenti da difetti. Quando, tra molte decine di anni, queste pratiche saranno diventate di comune routine, si guarderà con stupore a quanti, nei decenni precedenti, si erano caparbiamente opposti ai primi timidi tentativi di combattere le malattie per mezzo della ricerca genetica e delle sue applicazioni pratiche.

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    1. Lucia

      Gli archivi dei mormoni, a quanto capisco, sono stati utili nella misura in cui sono, ad oggi, il più grande database di alberi genealogici già pronti all’uso, con ramificazioni molto estese e con radici che vanno molto indietro nel tempo. Senza un supporto di questo tipo, sarebbe stato un delirio cercare di valutare il ruolo della familiarità genetica nella mortalità per influenza e della mortalità per influenza nel corso di una pandemia brutta, tenendo conto che la maggior parte dei decessi esaminati si riferivano a un secolo fa. In quel caso, è un supporto interessante (e del resto non è la prima volta che gli archivi ecclesiastici vengono inaspettatamente usati a scopo di ricerca medica).

      Per il resto… ah beh, lo scenario che tu prospetti è sicuramente di una indubbia efficacia ai fini della “prevenzione” di tante malattie, solo che tecnicamente si chiama eugenetica e tende ancora ad essere mal visto da molte fasce della popolazione 😅
      (Comunque non mi stupirebbe affatto se, almeno nel medio periodo, le cose andassero davvero come dici tu. Oggettivamente, già adesso si sta andando in quella direzione in modi che sarebbero stati impensabili fino a qualche decennio fa, quindi non è che l’ipotesi sia chissà quale azzardo)

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