Storia di Oswin, il santo della pace

Vogliamo dire che Oswin era l’incarnazione del Principe Azzurro delle fiabe?
E diciamolo.  

Poco ci manca che lo scriva a chiare lettere anche Beda il Venerabile: solitamente così parco nei complimenti, l’autore traccia di Oswin un ritratto che suonerebbe stereotipato persino se servisse a introdurre l’eroe di un romanzo.
Alto di statura, bellissimo nei lineamenti, il giovane re affascinava col suo eloquio chiunque si unisse a lui nella conversazione. Nel muoversi e nell’approcciarsi agli estranei, faceva sfoggio di quel garbo e di quella cortesia che sono propri di un gentiluomo. Non vi era viaggiatore che, fermandosi per qualche tempo alla corte di Oswin, non venisse conquistato dall’affabilità del buon monarca: la nobiltà d’animo e la solennità della sua condotta trovavano difficilmente pari in quelle di altri uomini del suo rango.
E non parliamo poi della dignità reale che animava ogni pensiero e ogni sua azione! E che dire poi della morigeratezza con cui il re conduceva la sua vita quotidiana, pur essendo evidentemente nelle condizioni di potersi concedere mille lussi?

Davvero Oswin era un monarca senza pari nel desolante panorama dell’Inghilterra del VII secolo, dilaniata dalle liti di condottieri in costante lotta tra di loro. Circondato da regni che erano governati da arrivisti senza scrupoli, assassini sanguinari o bifolchi saliti al trono non si sa bene come, Oswin sembrava rifulgere di luce propria. Non v’era uomo che avrebbe potuto negare l’evidenza: e cioè che il giovane re era nato “sotto una speciale benedizione”, per citare testualmente le parole di Beda.
E sicuramente non era un caso che attorno al buon re si fossero radunati cavalieri altrettanto degni. Da ogni provincia lontana e vicina, i giovani di nobile nascita che desideravano apprendere le arti della cavalleria cercavano un posto presso la corte di Oswin, nella speranza di poter diventare un giorno nobili e retti come il loro signore.

Insomma, abbiamo capito il tipo.
Se non era il Principe Azzurro delle fiabe, Oswin era quantomeno il degno erede di re Artù (con tanto di cavalieri della tavola rotonda).

Ma ahimè: non tutte le fiabe hanno un lieto fine. Nella biografia del monarca, suona come un fosco presagio l’incontro tra Oswin e il vescovo di Lindisfarne, che fu ospite per qualche giorno nel palazzo regio nel corso di una sua visita apostolica.
Era del tutto evidente – scrive Beda il Venerabile – che il vescovo provasse nei confronti del monarca la stessa ammirazione che abbiamo già descritto. Nel caso specifico, nel cuore del sant’uomo l’ammirazione si mescolava a un certo goduto compiacimento: quand’era bambino, Oswin era stato cresciuto da un gruppo di monaci, che ne avevano curato la formazione materiale e cristiana. E… che bel lavoro avevano fatto, quei monaci! Divenuto adulto, Oswin era davvero il modello del perfetto re cristiano, in un contesto in cui i valori del Vangelo faticavano a farsi strada tra la nobiltà.
Stando così le cose, non si capiva francamente la ragione per cui gli occhi del vescovo di Lindisfarne dovessero velarsi di amarezza tutte le volte che lui guardava al giovanotto. A un certo punto, un sacerdote del suo seguito glielo chiese pure: e che era, tutta ‘sta mestizia?
“È che sono assolutamente certo che Dio lo chiamerà presto a sé”, aveva sussurrato il vescovo, amaramente. “Questo mondo brutale e irreligioso non è adatto a un re dal cuore così nobile”.

In una delle morti più telefonate della storia dell’agiografia, il buon re Oswin attirò su di sé le gelosie di re Oswy.
E qui giustamente mi direte “ellamiseria! Non poteva inventarsi un altro nome, ‘sto agiografo?”.
In effetti tecnicamente no: Oswin e Oswy sono due personaggi storici realmente esistiti, e la quasi-omonimia potrebbe essere attribuita al fatto che, tra i due, c’era aria di famiglia. Oswin e Oswy erano cugini di incerto grado: tutti e due discendenti da un certo Edwin, re della Deira, che anni prima era morto senza eredi sul campo di battaglia. All’epoca dei fatti, il trono della Deira era passato al padre di Oswin, cugino del defunto, e poi a suo figlio.
Ma anche Oswy, a norma di legge, avrebbe potuto vantare qualche diritto sul trono. E in effetti, rendendosi conto di quanto fosse diventata fiorente la Deira negli ultimi anni, Oswy decise che, tutto sommato, sarebbe stato da scemi non provare a reclamarla.

Il primo step fu quello di organizzare il matrimonio tra la sua amatissima cugina e il re straniero, in modo tale che la popolazione della Deira potesse cominciare a veder di buon occhio la famiglia di Oswy.
Il secondo step fu quello di radunare un esercito e muovere guerra.

Oswin era un re anglosassone del VII secolo: un condottiero allevato a pane e guerra, che fin da piccolo aveva imparato a tenere la spada in mano. Per una persona della sua estrazione sociale, non era nemmeno contemplabile l’idea di fuggire dal campo di battaglia… eppure, Oswin la contemplò al punto tale da farla sua.

O meglio: quando le sue vedette lo informarono che Oswy stava marciando contro di lui con un esercito dieci volte più numeroso del suo, Oswin decise che non era il caso di scenderci proprio, sul campo di battaglia.
Aveva sottovalutato le risorse del nemico, aveva approntato una strategia militare del tutto inadeguata al contesto. A qualche chilometro dal luogo in cui avrebbe dovuto tenersi la battaglia, il re frenò la marcia e chiamò alla raccolta il suo esercito; poi, nello shock collettivo, annunciò la ritirata. Non aveva senso scendere in battaglia per andare incontro a una sconfitta annunciata, disse il re: ai suoi esterrefatti cavalieri, spiegò di voler cercare rifugio in un luogo sicuro per radunare le idee, in modo tale da sviluppare una nuova strategia e cercare un confronto con armi alla pari.

I cavalieri ci rimasero di sasso.  È in particolar modo una agiografia dell’XI secolo a sottolineare lo shock profondo nel quale le parole del condottiero fecero precipitare i suoi soldati. “Così facendo, i nostri nomi diventeranno il sinonimo della codardia in tutte le canzoni che saranno cantate su questo giorno negli anni a venire”, balbettarono i cavalieri, sinceramente sconvolti.
Ma Oswin non volle sentire repliche. “Non sprecherò delle vite umane per una questione d’orgoglio”, annunciò con semplicità.
L’agiologo commenterebbe che, così facendo, a un ethos di stampo barbarico costruito sulla guerra e sulla vittoria del più forte, Oswin contrappose un modello comportamentale che non avrebbe potuto essere più diverso: quello del re cristiano che antepone al suo orgoglio i bisogni del suo popolo e che governa il suo regno lasciandosi guidare dalla santa prudenza.

E, diciamolo: tendenzialmente, la prudenza premia sempre un saggio governante.
In questo caso specifico, a Oswin disse male. Il poveretto ebbe la jella di cercare rifugio presso il palazzo di un certo conte Hunwald, che riteneva essere un uomo di fiducia. Ma Hunwald, disgustato dalla “codardia” del monarca, lo tradì e lo consegnò al re nemico: vittima di un agguato nel luogo in cui si sentiva più sicuro, Oswin fu ucciso il 20 agosto 651.
I suoi più stretti collaboratori lo considerarono fin da subito un santo, anzi dirò di più: lo definirono “martire”. Il popolino cominciò a raccontare di come il buon re fosse stato ucciso a tradimento proprio nel momento in cui, con prudenza e rettitudine, cercava di evitare ai suoi soldati una inutile strage e tentava di preservare la pace di Dio sul suo regno.

Il sangue dei martiri è seme per nuovi cristiani, recita l’adagio. E, in questo caso, lo slogan mostrò d’essere vero – perché, in breve tempo, sul luogo dell’omicidio accorse esterrefatta la vedova di Oswin.
La ricordate? Era l’amatissima cugina di Oswy: quella che il re aveva dato in sposa all’uomo che adesso aveva appena assassinato a tradimento.
Oswy e la donna si guardarono a lungo, fissandosi da un capo all’altro del tavolo su cui era stato adagiato il cadavere. E forse nessuno dei due osò esprimere ad alta voce il pensiero che in quel momento albergava nel cuore di entrambi – qualcosa sulle linee di: e mo’ che famo?

Le famiglie nobiliari dell’Inghilterra del VII secolo avrebbero minimo minimo fatto scoppiare una faida tra clan rivali. La vedova avrebbe dovuto gridare al mondo tutto il suo sdegno chiamando a raccolta un’armata che potesse vendicarla; il re aggressore avrebbe dovuto scendere in battaglia e mostrare una volta per tutte il suo valore. Tertium non datur: era così che andava il mondo, a quei tempi; era così che ognuna delle due parti coinvolte salvava la faccia di fronte al mondo dimostrando il suo valore.

Oswy e sua cugina si guardarono a lungo, e non senza un certo reciproco imbarazzo. Non erano lontani i giorni in cui, fanciulli, avevano riso e scherzato assieme giocando nei giardini del palazzo e promettendosi eterna amicizia. Tanta innocenza, tanti bei ricordi… tutti destinati a infrangersi nel sangue per una guerra dinastica?

“No”, annunciò Oswy alla fine. “Sono stato un bruto, ho agito d’impulso. Ho ucciso a tradimento un uomo disarmato, ma peggio ancora non ho pensato alle conseguenze del mio gesto. Che Iddio possa perdonarmi per quello che ho fatto”. E, nella speranza di guadagnarsi in tal modo il perdono celeste, Oswy ordinò che una chiesa fosse fatta edificare sul luogo del delitto.
Proprio nel punto in cui, avventatamente, Oswy aveva ucciso il suo nemico, prese vita un grande monastero di cui fu nominato abate un certo Thrumhere, un sacerdote che era legato per vincoli di sangue a tutte e due le famiglie in causa. I parenti di Oswin, nella persona della vedova, contribuirono economicamente all’impresa. E il monastero che sorse a Gilling visse per secoli con un’unica missione: quella di pregare incessantemente per l’anima di Oswin, in modo tale che si spalancassero per lui le porte del Paradiso… e anche per l’anima di Oswy che, pentito, espiava le sue colpe in terra.

Durante i turbinosi secoli che dovevano venire, il monastero di Gilling fu saccheggiato, incendiato e raso al suolo da una scorreria vichinga. Ma nel 1065 un monaco di nome Edmund, che risiedeva in una abbazia non lontana, fu oggetto di una apparizione celeste che gli indicò il luogo esatto in cui scavare per recuperare le reliquie del re santo. E così fece il monaco, scavando a mani nude in mezzo alle rovine del vecchio monastero; e riuscì effettivamente a ritrovare un’urna contenente i preziosi resti.

L’11 marzo 1100 le reliquie furono traslate nell’abbazia in cui viveva il monaco Edmund: il monastero di Tynemouth, non lontano.
E, da quel momento in poi, l’abbazia divenne terra sacra e inviolabile pronta ad accogliere tra le sue mura qualsiasi individuo avesse varcato quei cancelli in cerca di protezione. In termini generici, lo si chiamerebbe “diritto d’asilo”; in quel caso specifico, era alla “pace di sant’Oswin” che si appellavano – significativamente – i bisognosi in fuga.

E – come assicurano, da brave, le agiografie – molti miracoli operò Oswin su chi visitava con spirito devoto il suo nuovo luogo di sepoltura. Ma forse il miracolo più grande compiuto dal re fu proprio quello che ho appena descritto: l’aver insegnato ai suoi bellicosi contemporanei che una strada alternativa alla guerra può sempre esistere.
E così Oswin, il santo della pace, mostrò che davvero la pace di Dio era possibile – anche in terra.

3 risposte a "Storia di Oswin, il santo della pace"

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