Qualche anno fa, per lavoro, ho avuto il piacere di fare la conoscenza con alcuni soldati della prima guerra mondiale caduti al fronte. Molte delle loro storie mi sono entrate nel cuore: perché capita di rado di vedere speranze così ardenti e così drammaticamente disattese, nel contesto di una catastrofe di dimensioni tali da diventare lo spartiacque tra due epoche storiche. Insomma: da quando ho avuto l’occasione di sfogliare le loro lettere, i caduti della Grande Guerra si sono guadagnati un posto speciale nel mio cuore; ed è sicuramente questa la ragione per cui amo così tanto una tradizione nata cent’anni fa ma ancor oggi vivissima nel Regno Unito (e non solo).
Sto parlando del poppy: un piccolo papavero di carta che, in questo periodo dell’anno, molti britannici appuntano con orgoglio sui vestiti. Se visitaste Londra in queste settimane, vedreste tutt’attorno a voi un tripudio di papaveri rosso acceso che ornano i monumenti ai caduti e che colorano i cappotti: è il modo in cui i Britannici rendono omaggio ai soldati caduti nella Grande Guerra (e, più in generale, a tutti i militari morti in missione).
Ma da dove nasce questa tradizione? Dietro alla popolarità del poppy, c’è una storia bella e dolorosa: che, in quanto tale, merita d’esser raccontata.
Era il 3 maggio 1915, e gli eserciti alleati erano andati incontro a una disfatta sanguinosa nella battaglia di Ypres. Era stata una débâcle totale: per rendere l’idea, numerosi storici militari sostengono che, se l’esercito tedesco non avesse sprecato il vantaggio strategico che aveva conquistato, avrebbe avuto buone chance di chiudere la guerra nell’arco di poche settimane.
Quanto all’esercito alleato, su di esso pesava la tragedia di una sconfitta che s’era trasformata in mattanza; e, ancor di più, lo shock psicologico di aver assistito per la prima volta all’utilizzo di un’arma dalla potenza devastante: pochi giorni prima, su quello stesso fronte, i tedeschi avevano inaugurato la guerra chimica grazie all’impiego dei gas asfissianti. Nell’arco di pochi minuti, oltre 5000 soldati erano morti “da soli”, tra sofferenze atroci, per il solo fatto d’aver respirato: un qualcosa che, a quell’altezza cronologica, davvero si stentava anche solo a concepire.
Insomma: per usare un garbato eufemismo, sul fronte alleato l’umore non era dei migliori. E sicuramente era d’umore nero il povero John McCrae, un medico militare di origini canadesi che, il 3 maggio 1915, aveva perso in battaglia Alexix Helmer, uno dei suoi più cari amici. La granata che l’aveva ucciso l’aveva fisicamente fatto a pezzi, staccando gli arti dal torso: immaginate lo strazio con cui McCrae volle andare a recuperarli ad uno ad uno, cercando di ricomporre quel corpo familiare per donargli, un ultima volta, un aspetto che non fosse totalmente disumano. In assenza del cappellano militare, che era impegnato chissà dove e non si trovava, fu McCrae a scavare una fossa in cui adagiare il suo amico e a recitare le preghiere delle esequie per come se le ricordava (cioè male: esitando, saltando pezzi e sentendosi anche in colpa per la sua titubanza).
Dopo aver sepolto quella povera salma, McCrae si sedette sui gradini dell’ambulanza militare e lasciò vagare lo sguardo sul prato che s’era trasformato in fossa comune. Il suo comandante gli suggerì di andare a riposare, ma McCrae rispose che, grazie per il pensiero, ma non ne valeva la pena, visto che la prima linea si stava già preparando per una nuova carica: a occhio e croce, gli restavano pochi minuti liberi prima che gli venissero portati i primi feriti. E quindi se ne stette lì, pronto per un nuovo bagno di sangue; e nell’attesa tirò fuori il suo taccuino degli appunti e compose di getto una poesia destinata a diventare celebre.
In Flanders fields the poppies blow
Between the crosses, row on row,
That mark our place; and in the sky
The larks, still bravely singing, fly
Scarce heard amid the guns below;
We are the Dead. Short days ago
We lived, felt dawn, saw sunset glow,
Loved, and were loved, and now we lie
In Flanders fields.
Take up our quarrel with the foe:
To you from failing hands we throw
The torch; be yours to hold it high.
If ye break faith with us who die
We shall not sleep, though poppies grow
In Flanders fields.
L’immagine dei papaveri che crescono tra le tombe dei soldati morti, illuminando coi loro petali rossi una terra insanguinata, è sicuramente di alto impatto. La cosa sorprendente è che, nel ricrearla, il poeta non aveva affatto dovuto lavorare di fantasia: anni più tardi, Cyril Allinson, comune amico del medico militare e del soldato caduto, dichiarò di ricordare benissimo quel giorno di tragedia. E, tra le altre cose, affermò di ricordare benissimo il contesto surreale in cui s’era svolto quel funerale improvvisato: davvero in quel pomeriggio di maggio i cadaveri erano stati sepolti in un campo inondato di papaveri; e molti avevano commentato quanto fosse stato straniante vedere la primavera esplodere con tale potenza in una terra flagellata che era teatro di morte.
Nei giorni immediatamente successivi a quel 3 maggio 1915, John McCrae mostrò la sua poesia ad alcuni commilitoni. Il successo fu dirompente: i suoi versi cominciarono a essere recitati di bocca in bocca e si diffusero lungo la linea del fronte; i cappellani militari li citarono nelle prediche; i soldati ne fecero riferimento nelle loro lettere a casa. Nel maggio 1916 (era già passato un anno da quella prima primavera di guerra) Cecil Roughton, un diciassettenne arruolato nel Royal Warwickshire Regiment, raccolse uno di quei papaveri che ostinatamente continuavano a fiorire nella desolazione, lo fece seccare tra le pagine di un libro e poi lo spedì per a sua mamma, che viveva a Birmingham, in un bigliettino postale che recitava, con amara ironia: “Souvenir dalla linea del fronte vicino Arras, Maggio 1916”. Oggi, quel fiore è un pezzo da museo, gelosamente conservato dalla Royal British Legion; ed è, a suo modo, testimonianza di quanto, in pochi mesi, il papavero fosse già diventato simbolo caro a tutti i soldati alleati.
Indubbiamente, si trattava d’un simbolo potente e sfaccettato, che ben si prestava ad assumere tutti i significati che l’osservatore avrebbe voluto dargli. Naturalmente, il primo livello di lettura era quello per cui il papavero sbocciava, come promessa di nuova vita, nonostante la distruzione tutt’intorno; simbolicamente, assicurava al mondo che in un modo o nell’altro “sarebbe andato tutto bene”, un po’ come gli arcobaleni che un paio d’anni fa i bambini disegnavano sui balconi, nei primi mesi della pandemia. Ma, se il simbolismo terra-a-terra accettava di lasciar spazio all’allegoria religiosa, ecco che la primavera promessa dal papavero diventava promessa di una rinascita a vita nuova per quegli stessi caduti, conformemente al credo cristiano che parla di resurrezione nel tempo che verrà.
John McCrae, l’autore della poesia, si unì presto a quella schiera di soldati sepolti tra i papaveri: a ucciderlo non fu una granata, ma una meningite che il medico militare aveva contratto assistendo i suoi commilitoni. Di lui rimangono oggi alcune fotografie in bianco e nero, le testimonianze dei soldati che lo conobbero al fronte e poi quei versi che ne sono l’eredità spirituale. “To you from failing hands we throw the torch”, aveva scritto McCrae quasi presentendo la sua morte, e ordinando con forza ai sopravvissuti: “be yours to hold it high”. Un letterale passaggio di consegne: “a voi, con mani deboli, cediamo la fiaccola; a voi il compito di tenerla alta”.
Nel 1915, scrivendo queste parole, McCrae stava ovviamente pensando ai suoi commilitoni, cui ricordava la necessità di continuare a combattere senza cedere alla disperazione o allo sconforto. Ma, quando la guerra terminò, molti rilessero questa preghiera dandole un significato più ampio: la fiaccola da consegnare ai posteri e da tenere accesa attraverso le generazioni diventava quella della memoria. Vale a dire: il sacrificio cruento dei soldati caduti al fronte non poteva essere dimenticato, affinché non venisse sprecata la loro testimonianza e la lotta per un mondo in cui davvero potesse regnare la pace.
Tristemente, la Storia insegna che le cose non andarono esattamente così; ma nel novembre 1918, quando fu siglato l’armistizio, erano queste le pie speranze di una buona fetta della popolazione mondiale. Certamente, erano queste le speranze di Moina Belle Michael, segretaria presso la sede statunitense della Young Men’s Christian Association; leggendo la poesia di McCrae su una copia della rivista femminile Ladies’ Home Journal, la donna si era commossa nel profondo e si era sentita chiamata a trovare un modo concreto per tener viva la memoria di tutti quei giovani caduti. D’un tratto, le venne in mente di andare da un fioraio e di comprare un papavero da appuntare sui suoi vestiti; e molti dei suoi colleghi della YMCA decisero di adottare lo stesso stratagemma. E furono molti a lasciarsi contagiare; al punto tale che, nei primi mesi del 1919, numerose riviste statunitensi dedicate al costume già parlavano di questa nuova moda. Il papavero come simbolo di memoria ottenne il suo primo riconoscimento ufficiale pochi mesi più tardi, quando fu incluso del logo della American Legion che nel frattempo era stata fondata con l’intenzione di dare assistenza ai soldati feriti in guerra e perciò rimasti invalidi.
Negli stessi mesi, la moda di indossare papaveri aveva cominciato a diffondersi anche in Francia per iniziativa di un’attivista di nome Anne Guerin. In questo caso, non si trattava di veri papaveri comprati al vivaio e indossati come bottoniera floreale, ma di piccole spille di stoffa che Anne Guerin faceva confezionare alle orfane e alle vedove di guerra: insomma, comprare questi accessori diventava un concreto gesto di carità a favore di chi, durante la guerra, aveva perso tutto. Quale modo migliore per onorare la memoria dei caduti?
Fu proprio Anne Guerin a coinvolgere nel suo progetto la Royal British Legion d’Oltremanica, che era stata fondata nel 1921 con lo scopo di fornire sostegno economico ai soldati britannici resi invalidi e dunque incapaci di ritornare al loro lavoro di sempre. Visto il buon successo che aveva riscontrato in Francia dalla vendita delle sue spillette, la signora Guerin ritenne che anche gli ex-alleati avrebbero potuto giovarsi di questa idea. E dunque, passò tutto il know-how alla Royal British Legion, che fece tesoro di questa esperienza: un piccolo stabilimento nella periferia di Londra diede lavoro a quaranta veterani di guerra rimasti invalidi, che iniziarono a lavorare alacremente per confezionare piccole spillette floreali di carta, che furono poi messe in vendita nel mese di novembre a commemorare l’anniversario dell’armistizio.
Fu un successo travolgente. Nell’arco di una sola giornata, le spillette andarono sold out, permettendo alla Royal British Legion di guadagnare la cifra esorbitante di 106.000 sterline. E negli anni immediatamente successivi a quel 1921, la richiesta nazionale crebbe in modo esponenziale, al punto tale che nel 1925 il piccolo laboratorio alla periferia di Londra fu costretto a trasformarsi in una vera e propria fabbrica. A Richmond, nel Surrey, nacque una colossale Poppy Factory costruita con un occhio di riguardo per i soldati disabili che vi avrebbero prestato servizio: attorno all’edificio, fu eretto un piccolo villaggio con casette destinate ad accogliere i lavoratori e le loro famiglie; e, naturalmente, tutte le strutture furono costruite secondo criteri di accessibilità – un requisito indispensabile, vista la speciale natura della fabbrica, e tuttavia decisamente innovativo per quell’epoca.
Ancor oggi, le piccole spillette a forma di papavero sono indossate con orgoglio da molti Britannici nelle settimane che precedono la Rememberance Sunday: quella in cui la famiglia reale e i membri del governo rendono omaggio ai soldati caduti in un omologo del nostro 4 novembre. Ma più sentito!
Certo, il tema è così delicato da scatenare inevitabilmente polemiche occasionali: un crescente numero di pacifisti si sente a disagio di fronte all’esaltazione pubblica di soldati morti, e in segno di protesta rifiuta di indossarli o sceglie fiori dai petali bianchi, a significare il suo rifiuto di ogni guerra. Altri trovano fortemente sgradevole il fatto che, nelle intenzioni della Royal British Legion, la spilletta si sia trasformata in un omaggio a tutti i soldati caduti, indistintamente, ivi compresi quelli che hanno perso la vita in campagne militari recentissime o ancora attive, e dunque inevitabilmente politicizzate. Alcuni, non a torto, hanno fatto notare l’ironia amara di voler ricordare con un poppy anche i soldati che sono morti in Afghanistan, e cioè in un contesto in cui i papaveri da oppio sono una delle principali risorse che permettono ai talebani di prosperare.
Ma, nonostante le occasionali critiche, le piccole spillette a forma di papavero sono più popolari che mai nel Regno Unito (e non solo: la stessa simbologia è viva in molte altre nazioni d’area anglosassone). Nel mese di novembre, le indossano un po’ tutti: le star dello spettacolo, i membri della Royal Family, i bambini nelle loro aule, i dipendenti sul posto di lavoro. E, vi dirò: a me non dispiace affatto quest’operazione a favore della memoria nazionale!
E per approfondire: Ted Harrison, Remembrance Today (Reaktion Books, 2013)
Gianluca di Castri
Grazie per averlo pubblicato
"Mi piace""Mi piace"
Lucia Graziano
🙂
E’ una bella storia dietro a un bel simbolo, io trovo!
"Mi piace""Mi piace"