Provate, se avete il coraggio, a leggere un romanzo Harmony ad ambientazione medievale (è una sfida per stomaci forti, ma tocca prendere il coraggio a due mani se si è professionalmente curiosi di vedere in che modo il Medioevo viene immaginato dal “grande pubblico”). Ecco: provate, se avete il coraggio, a leggere uno qualsiasi di quei romanzi, e poi tornate qui a dirmi che tipo d’uomo era quello che ha fatto innamorare la pulzella.
Mi sentirei di mettere una mano sul fuoco: quasi sicuramente, era un cavaliere sanguigno e passionale, brusco nei modi e di poche parole, aitante e sudaticcio quel tanto che basta per dar carattere, che a un certo punto si prende la donzella fintamente neghittosa facendole scoprire insperati orizzonti di passione.
Ecco: che i romanzi rosa scritti al giorno d’oggi ci propongano eroi romantici di questo tipo è la prova provata (se mai ce ne fosse stato bisogno) circa il fatto che la donna-media del 2000 ha evidentemente gusti assai diversi rispetto a quelli delle dame medievali. Le quali, al contrario, si emozionavano nel leggere di cavalieri galanti col pieno controllo delle loro emozioni: gente dabbene, con un visino gentile e imberbe, lussuose vesti ad adornare il corpo profumato e l’atteggiamento d’un bravo ragazzo appena uscito da un educandato.
Lo fa notare Constance Brittain Bouchard, autrice del saggio Strong of Body, Brave & Noble. Chivalry and Society in Medieval France. E lo fa notare con ottime ragioni: perché il Perfetto Cavaliere Medievale “storicamente accurato” è un personaggio assai curioso, che probabilmente al giorno d’oggi sarebbe considerato stucchevole dai più. Scopriamolo assieme in una nuova puntata di
Un Flirt Cortese
Guida di seduzione per l’uomo medievale
che non deve chiedere mai
È una frase così scontata da rasentare la tautologia: il Perfetto Cavaliere Medievale cuccava un sacco perché si comportava da Perfetto Cavaliere.
Lo diciamo ancor oggi, no? “Ma grazie, che cavaliere!” ci troviamo a esclamare noi donne del XXI secolo, quando un uomo ci sorprende con un gesto galante o apre per noi la portiera della macchina.
Ma siamo sicuri che l’uomo che fa queste cose si stia realmente comportando come un cavaliere? La domanda non è banale, anzi potrebbe aprire un dibattito storiografico non da poco: perché, in effetti, è abbastanza tarda l’idea che un uomo debba usare garbo e gentilezza per potersi definire “un vero cavaliere”.
Fino alla fine del XII secolo, il termine “cavalleria” era utilizzato dagli autori per indicare un set di virtù che avevano strettamente a che vedere con la performance sul campo di battaglia. Era, insomma, “un vero cavaliere” quel combattente che era abile con la spada, non indietreggiava di fronte al nemico, combatteva strenuamente fino all’ultimo respiro, architettava strategie militari imprevedibili e sapeva fare buon uso della retorica per spronare all’attacco le sue truppe.
Nessuno si interessava a che tipo di persona fosse il Perfetto Cavaliere dopo che s’era tolto l’armatura. La sua vita privata non era oggetto di interesse: non esisteva un modello comportamentale che gli veniva chiesto di adottare nel rapportarsi con gli amici, con le donne, coi parenti.
Certo, esisteva un comune consenso sui requisiti-base che doveva avere uomo armato fino ai denti per non essere una pessima persona. Che ne so: non doveva andarsene in giro a saccheggiar villaggi e stuprar donne solo per il gusto di far vedere che lui poteva permetterselo. Ma, per il resto, nessuno si sarebbe mai sognato di dettar legge sullo stile di vita di un cavaliere… nel momento in cui smontava da cavallo.
E infatti, nessuno utilizzava il termine “cavalleria” per descrivere il modus vivendi di una persona che adotta comportamenti nobili e altruisti e mostra d’essere un individuo di buon cuore. Per indicare questo tipo di virtù, gli autori medievali ricorrevano piuttosto al concetto di “cortesia”: un termine che solo all’inizio del Duecento cominciò ad accompagnarsi a quello di “cavalleria” fino ad esserne percepito come il sinonimo.
Ma allora che cos’era la cortesia?
Era, etimologicamente, la capacità di saper stare a corte; o per meglio dire: di saperci stare in un modo tale da rendere piacevole la vita comunitaria tra le mura del palazzo.
Il graduale cambiamento degli stili di vita che aveva interessato l’aristocrazia in età post-carolingia aveva determinato una crescente ammirazione per virtù come l’ordine, la pulizia, l’eleganza nel vestire e l’abilità di osservare buone maniere a tavola.
Lentamente, s’era fatta strada l’idea che non fosse disdicevole per un cavaliere coltivare hobby anche molto lontani dalla sfera militare, come la danza, la musica, la lettura. Ottenere l’eloquio forbito degli intellettuali era un sogno probabilmente destinato a rimaner tale per la maggioranza dei cavalieri, che ovviamente non avevano il tempo di esercitare la retorica con lo stesso impegno di chi maneggiava i libri per professione; però, l’arte di saper ben parlare era tenuta in gran considerazione, così come erano apprezzate una buona cultura generale e la capacità di intrattenere le dame con discorsi alla loro portata (dunque, non inerenti la guerra e altre “robe da uomini”).
Con le donne, in particolar modo, il flirt senza doppi fini era uno stile di vita: nel rapportarsi col gentil sesso, era considerato normale (e anzi imperativo) elogiare la bellezza e vezzeggiare la dama con favori immateriali e piccoli doni. Era una convenzione, che non necessariamente implicava un interesse romantico tra le due parti: la gente che sapeva stare al mondo lo faceva con tutte le donne, ivi comprese con quelle già sposate; era il normale modo di comportarsi.
Va da sé: se queste erano le virtù che il Perfetto Cavaliere doveva sfoggiare nella vita privata, ne esistevano altre che doveva padroneggiare nel corso della sua attività lavorativa. Restava indispensabile l’esser abili in battaglia, coraggiosi contro il nemico e leali verso il proprio signore. Gradualmente, cominciò a farsi strada l’idea (tutto sommato, fino a quel momento inedita) che una forte devozione cristiana e una vita di preghiera particolarmente intensa fossero altri due elementi capaci di accrescere la grandezza del soldato.
Madre adottiva e savia maestra del più grande eroe cortese di tutti i tempi, Viviana del Lago istruiva in questi termini un Lancillotto ancora adolescente: il buon cavaliere è compassionevole e generoso, intransigente coi malfattori ma imparziale nel giudizio. Si pone sempre con gradevolezza, rispetta le donne e le rende felici; più ancora della morte, teme il disonore. Ma, soprattutto, il buon cavaliere è uomo di pace: ricorre alle armi solo come extrema ratio, per proteggere i deboli e difendere la Chiesa.
Ed è proprio quest’ultimo dettaglio (presente in tutte le raccomandazioni che i giovani cavalieri ricevono dai loro maestri nella letteratura medievale) ad aver acceso la metaforica lampadina nella testa di molti studiosi, i quali hanno cominciato a domandarsi in che misura questa evoluzione del concetto di “cavalleria” sia stata influenzata dal movimento religioso delle Tregue e delle Paci di Dio, che proprio attorno al XII secolo si andava sviluppando in Francia.
Era un movimento di matrice vescovile, nato in reazione a una situazione di forte instabilità sociale che stava assumendo connotati preoccupanti. La dissoluzione dell’impero carolingio aveva determinato una forte frammentazione del potere feudale, che a sua volta aveva portato all’ingenerarsi di un clima in cui “quello più forte vince, ammazza tutti, si piglia il feudo del vicino e se la gode”.
Nel tentativo di limitare questo eccesso di aggressività e questo permanente stato di guerra intestina, i vescovi avevano cominciato a sanzionare con pene spirituali la violenza ingiustificata e fine a se stessa.
Ma allora, si domandano gli studiosi: sarà una coincidenza che questa cavalleria 2.0 (questa cavalleria così santa, così pia e moderata!) cominci a fare capolino nei romanzi cortesi proprio nello stesso periodo in cui i vescovi tuonavano per condannare la brutalità dei cavalieri maneschi e sregolati?
Molto probabilmente no, non è una coincidenza.
Anche perché, come fa notare Constance Brittain Bouchard, buona parte delle qualità morali che confluiscono nel nuovo ideale di “cortesia” erano virtù che fino a quel momento non erano mai state proposte agli uomini d’arme… ma erano da sempre state insegnate ai chierici che si formavano in seno alle scuole cattedrali.
Sì: perché essere dotati di forte autocontrollo, aderire senza riserve a un codice etico da difendere a costo della morte e saper offrire al prossimo interazioni sociali raffinate grazie alle quali essere piacevoli ambasciatori di Santa Madre Chiesa, erano abilità che i futuri chierici imparavano a esercitare fin da piccoli, soprattutto se ambivano a fare carriera ecclesiastica. Si trattava di un ethos che s’era sviluppato grazie alla felice unione di testi di spiritualità cristiana e opere classiche di matrice stoica; e vien facile pensare che, a un certo punto, il clero abbia sentito il desiderio di diffondere anche nei palazzi signorili quel modello comportamentale che funzionava così bene nelle diocesi. Molto probabilmente, fu proprio in questo modo che nacque il mito del Perfetto Cavaliere.
Che, per la cronaca, era per l’appunto un mito, cioè un qualcosa di inesistente e irrealizzabile – e non perché i Perfetti Cavalieri fossero figure da romanzo che non trovavano riscontro nella vita reale. Al contrario, la nobiltà cercava per davvero di tendere verso quell’ideale, ormai visto come desiderabile; o quantomeno cercava di dar l’impressione di aver raggiunto quelle virtù.
Il problema era a monte: e cioè, si poteva tendere verso questo ideale con tutto l’impegno di questo mondo, ma la meta sembrava realisticamente irraggiungibile persino per gli stessi personaggi di fantasia. Come fa notare Constance Brittan Bouchard,
non deve stupire che questa idea di cavalleria fosse inerentemente contraddittoria, essendo – di fatto – una combinazione tra l’onore guerresco, la morale cristiana, le virtù romane dello stoicismo e lo stile di vita all’ultima moda per un uomo medievale a corte.
Non si trattava solamente di uno stile di vita molto esigente; si trattava di uno stile di vita di per sé contradditorio.
Come si può conciliare il disprezzo stoico per il lusso con l’apprezzamento cortese per le vesti eleganti del nobiluomo? Come si può pretendere di praticare la castità cristiana quando tutti s’aspettano che tu flirti con la moglie del tuo capo? Come si può essere un guerriero intimamente pacifista, un nobile orgogliosamente umile e un seduttore appassionatamente casto?
Volendo spingermi a fare un paragone moderno, sembra quasi di essere di fronte alla rappresentazione stereotipata della Donna Perfetta anni 2000: quell’entità mitologica che, nell’immaginario collettivo, dovrebbe essere al tempo stesso donna in carriera e massaia perfetta, sexy col marito ma sempre pronta per i pargoli, provvista di una vita sociale attiva ma senza mai trascurare la famiglia. E così come oggi sono molte le autrici a ironizzare su quest’idea stereotipata, allo stesso modo erano molti gli autori medievali a ironizzare sull’idea irrealistica di Perfetto Cavaliere.
Sì, perché romanzi cortesi e le chansons de gest sono pieni di passaggi in cui l’eroe, cercando di comportarsi da Perfetto Cavaliere, finisce col mandare tutto a schifio.
L’intera trama della Chanson de Roland ruota attorno alla tensione interna vissuta dal protagonista che non sa quale delle due virtù privilegiare: il buonsenso, che gli suggerirebbe di chiedere aiuto in una situazione militare sfavorevole (ma col rischio di passare per uno che non è stato capace di cavarsela da solo), o l’orgoglio guerriero che gli comanda di continuare a combattere contando solo sulle proprie forze (ma col rischio di andare incontro a una disfatta e mandare a morte certa molti dei suoi uomini)?
Nel Perceval di Chretien de Troyes, il giovane eroe ha ben compreso la lezione secondo cui un garbato cavaliere non fa domande inutili e preferisce un silenzio rispettoso alle ciance senza senso con cui s’intrattiene il popolino. Eppure, l’ossessione per il non fare domande indiscrete farà perdere a Perceval la chance di conquistare il sacro Graal, quando gli sarebbe bastata una semplice domanda per scoprire la natura di quell’oggetto misterioso che a un certo punto s’era trovato proprio davanti al naso.
Persino la coppia più felice di tutta la storia dell’amor cortese vive un momento di défaillance quando il prode Erec, pienamente appagato dalla sua quieta vita domestica al fianco della bella Enide, viene accusato dai suoi compagni d’armi d’essere troppo appagato nel matrimonio. Si comincia a mormorare che il cavaliere sia diventato una mammoletta che pensa solo alla famiglia, senza più curarsi di tenere alta la sua fama: al povero Erec toccherà difendere il suo onore imbarcandosi in missioni cavalleresche totalmente prive di senso, intraprese al solo scopo di mostrare al mondo che è ancora un grande combattente.
Tutto è bene quel che finisce bene: ma se nel frattempo ci rimaneva secco? È cavalleresco, andare volontariamente a cercarsi guai per compiacere i propri amici, ma col rischio di lasciare vedova la propria moglie?
È un’ironia costante, pungente e impietosa quella con cui gli autori medievali dipingono i loro prodi combattenti. Un esempio tra tutti è l’ossessione con cui, nei romanzi cortesi, i Perfetti Cavalieri tengono a sottolineare con sdegno disgustato il loro disprezzo verso gli arcieri: gente pavida che attacca i nemici da lontano, senza il coraggio di ingaggiare un comportamento corpo a corpo. “Una linea di pensiero che probabilmente riuscì a evitare che l’aristocrazia andasse in giro a uccidere la gente a colpi d’arco, con un’efficacia molto maggiore rispetto a quella che avrebbero potuto avere i pronunciamenti di una sterminata serie di concili vescovili”, osserva Constance Brittan Bouchard. E tuttavia, una linea di pensiero che non aveva il minimo riscontro nella realtà di ogni giorno: ogni lettore di romanzi cortesi sapeva perfettamente che tutti i nobili dell’epoca comandavano enormi contingenti di arcieri. Ed è pur vero che, per ragioni culturali, la nobiltà preferiva il combattimento corpo a corpo… ma a questo punto, come avrebbe dovuto esser considerata la loro abitudine a scendere in campo solo nella seconda fase della battaglia, dopo che l’esercito nemico era già stato massacrato “con disonore” da schiere di pavidi arcieri che avevano colpito da lontano, dietro ordine esplicito del loro signore?
Nella migliore delle ipotesi, avrebbe dovuto esser considerata ipocrisia. Nella peggiore delle ipotesi, avrebbe potuto esser vista come la volontà di salvarsi la faccia tenendo intatto l’onore, delegando il lavoro sporco a popolani di basso rango.
E qui sarebbe proprio il caso di sorridere e domandare: ma è così che si comporta un Perfetto Cavaliere?
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Ago86
Oltre al movimento delle Tregue e delle Paci di Dio può aver avuto importanza anche la nascita degli ordini religioso-militari? A tutti gli effetti erano realtà in cui la vita militare e il comportamento del clero erano praticamente fusi nelle stesse persone, e che hanno avuto un forte impatto nella cultura e nella mentalità degli uomini.
Impatto che forse all’epoca costituiva qualcosa di “inaudito” come “un ibrido tra un leone e una pecora”, almeno stando a quello che disse il mio professore di storia medievale.
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