Il ragazzo camminava.
Camminava, o quasi correva, tanto affannoso era il suo passo: camminava per le vie di Torino, con i lineamenti tesi dall’angoscia, e gli occhi sgranati per la paura. Nelle sue braccia, lui stringeva una donna.
Esanime, pallidissima, la ragazza sudava copiosamente nel caldo di quella giornata estiva: aveva gli occhi chiusi, e dalle sue labbra usciva un rivolo di sangue. Un braccio penzolava senza forze, ondeggiando ad ogni passo dell’uomo che la trasportava.
Dietro di loro, si affannavano tre bambini. La più piccola – avrà avuto un paio d’anni – camminava appena; il più grande, che di certo non raggiungeva la decina, cercava faticosamente di trascinarsi dietro un baule. “Papà…”, protestò lamentosamente, con la vocetta flebile di chi è veramente esausto.
L’uomo si voltò, pallidissimo: lanciò uno sguardo alla sua valigia. “Non importa. Lasciala pure. Torneremo a prenderla”, disse in tono secco, diventando se possibile ancor più pallido. “Adesso dobbiamo solo trovare…”. E si interruppe, agganciando con lo sguardo una massaia che passeggiando gli stava venendo incontro: “dobbiamo trovare un ospedale!”, gridò disperatamente in sua direzione, cercando di farsi capire nel dialetto di quel luogo. “Vi prego… un ospedale… un ospedale, mia moglie sta male, ha bisogno di aiu…”.
Esanime fra le braccia di suo marito, la ragazza diede un colpo di tosse. Gocce di sangue schizzarono tutt’intorno, macchiando la casacca chiara del giovanotto: la donna torinese, sgranando gli occhi, arretrò inorridita, di uno e poi due passi. Non si diede nemmeno il disturbo di rispondere, e anzi scappò: scappò lontano, sollevando le sottane, e allontanandosi veloce al passo di una corsa.
Lui faticò seriamente per reprimere un singhiozzo. Si voltò, lanciò un’occhiata ai suoi bambini – lo fissavano, spaventati. Si sforzò disperatamente di sorridere, stringendo la presa sul corpo esanime di sua moglie: la stoffa chiara del suo abito da viaggio era macchiata di sangue ben visibile, e lui si sentì attraversare da un brivido di gelo. Era il 2 settembre, Torino era calda come un forno per il pane: eppure lui stava tremando, tremando di paura, in quella città che non conosceva, e con una moglie che gli stava morendo fra le braccia.
“Vi prego!”, gridò a voce più alta, con la forza della disperazione. “Vi prego! Un ospedale, un ospizio per mia moglie! Siamo viaggiatori, non conosciamo la città… ci serve un medico!”.
Affacciata alla finestra, una vecchietta gli lanciò uno sguardo. Fissò i bambini. “Girate a destra”, sbottò sgarbatamente: “a tre isolati da qui, c’è l’Ospedal Maggiore. Che Dio vi aiuti”.
Lui non fece neanche in tempo a ringraziare. Sentì gli occhi riempirsi di lacrime, ma questa volta erano gocce di speranza: girò a destra, accelerò il passo, cominciò letteralmente a correre – sua moglie era così magra, così leggera, che sembrava di trasportare un sacco di farina. “Vi prego”, gridò con la voce spezzata per la corsa: “vi prego, aiutatemi!”, gridò agli inservienti che si affaccendavano nel ricovero. “Mia moglie si è sentita male, eravamo di ritorno per la Francia. Vi prego, aiutatela, ha già tre figli… sta aspettando il quarto…”.
Il dottore rubicondo che gli si era avvicinato a braccia tese, si immobilizzò, nell’arco di un istante. “Sta aspettando il quarto?”, domandò veloce. “Cioè, è incinta?”.
“Sì, sì”, singhiozzò il marito, affannosamente: “è incinta di sei mesi, vi prego, fate qualcosa per salvare lei e il bambino. Vi prego, salvatela…”.
Il medico abbassò lo sguardo. “Non posso”, disse a bassa voce. Sembrava sinceramente dispiaciuto. “L’ospedale non accoglie donne gravide, non siamo attrezzati per curarle. Tentate al San Michele, alle Porte Palatine: è un ricovero per donne incinte, sapranno come aiutarvi…”.
Il marito esitò, ma solo per un attimo. Lanciò uno sguardo ai suoi bambini, che l’avevano raggiunto, sempre più allarmati: ringraziò affannosamente, si fece dare le indicazioni per raggiungere l’ospizio, e poi via di nuovo. Via di nuovo, in quella Torino affollata e afosa. Via di nuovo, per le viuzze sconosciute, coi tre figli che piangevano, la fronte che s’imperlava di sudore, e il peso della moglie nelle sue braccia che si faceva sempre più opprimente.
Le gambe gli tremavano, quando raggiunse il San Michele. Chiese aiuto, gridò disperato, e gli parve quasi un sogno di vedere un inserviente, coll’abito insanguinato, avvicinarsi e spalancar la porta. “Vi prego”, singhiozzò l’uomo, sforzandosi di non notare che sua moglie era ormai pallida come un cadavere. “Mia moglie è incinta, vi supplico, aiutatela: eravamo in viaggio per la Francia, ha incominciato a sputare sangue, la febbre è alta e adesso ha perso conoscenza… vi prego, vi prego, fate qualcosa per salvarl…”.
L’inserviente sgranò gli occhi. “Allontanatevi subito!”, ordinò allarmato. “Sputa sangue? La signora è contagiosa! Non possiamo assolutamente ricoverarla qui, lo capite bene: le donne vengono qui per partorire”, aggiunse al suo sguardo sconcertato, “non certo per contagiarsi con una malattia che non lascia scampo”.
Il maggiore dei tre figli, che era abbastanza grande per capire, incominciò improvvisamente a piangere. Si aggrappò alla gamba del padre, e l’uomo incespicò, esausto: “vi prego… vi prego, non sappiamo dove andare”, sussurrò disperatamente, con gli occhi che gli si riempivano di lacrime. “Dovete fare qualcosa per salvarla, salvate almeno il bambino: è abbastanza grande per venire al mondo, vi prego, fate un’eccezione…”.
“Capite bene che non è possibile”, disse l’inserviente, con durezza. “Andatevene, o dovrò cacciarvi: non c’è più niente che possiate fare, e comunque non certo in questo ospizio”.
Il marito impallidì, senza nemmeno aver la forza per protestare. Guardò i bambini, ma il suo sorriso era così tirato da sembrare una smorfia spaventosa: anche il figlio di mezzo scoppiò a piangere, mentre la piccina sedeva sul marciapiede, visibilmente esausta.
“Andiamo… andiamo verso il centro, ci sarà qualcuno disposto ad aiutarci…”, sussurrò il papà, che ormai faticava a trattenere le sue lacrime. E camminò, camminò per ore, camminò sotto il sole cocente di quel 2 settembre; camminò trascinandosi dietro i tre bambini; camminò stringendo fra le braccia la sua sposa; camminò finché le gambe non cedettero, e le braccia non crollarono sotto il peso della donna.
Allora si sedette a un lato della strada, tenendo in grembo la testa di sua moglie; e fra le lacrime, carezzò i suoi capelli imperlati di sudore. Guardò davanti a sé e gridò tutta la sua disperazione, quando apparve chiaro persino ai suoi occhi disperati che sua moglie non gli avrebbe mai più sorriso. E che il suo quarto
figlio, che lei teneva in grembo, sarebbe morto nel ventre di sua mamma.
Un sacerdote arrivò per impartirle l’estrema unzione, e lui gli gridò in faccia tutta la sua rabbia: rabbia per la morte; rabbia per quel mondo ingiusto; rabbia per Dio, che gli aveva tolto in un solo giorno tutte le certezze della sua vita. E continuò a gridare, piangendo come un bambino, quando il petto di sua moglie restò immobile, e cessò di sollevarsi. Pianse stringendola a sé, incurante dei suoi figli e dell’intero mondo; e pianse per minuti, ore, o forse interi giorni, con la certezza che la sua vita, tutta la sua vita, non avrebbe più avuto un senso, da quell’istante.
A qualche metro da lui, stava immobile il sacerdote: i passanti lo avevano chiamato per l’ultimo conforto. Teneva il capo chino, e anche lui piangeva silenziosamente: la rabbia, e il senso d’impotenza, erano più forti della speranza, di fronte a quella famiglia che s’era disgregata davanti ai suoi occhi.
Quella donna si sarebbe potuta salvare, forse, se solo avesse trovato un ospedale pronto per accoglierla.
Quel marito, forse, avrebbe ancora avuto accanto a sé la sua dolce sposa.
Quei bambini spaventati, forse non avrebbero mai perso la loro mamma, se solo qualcuno ci fosse stato, per aiutarla.
Giuseppe Benedetto Cottolengo si asciugò gli occhi con il palmo della mano, scacciando quei pensieri per recitare un requiem. E poi tirò un pugno contro il muro, rovinandosi le nocche: perché la misura era colma da un bel pezzo, e lui non era più capace di sopportare quelle morti ingiuste.
L’ospedale di San Giuseppe Cottolengo nasce pochi mesi dopo quel tragico giorno, in un piccolo appartamento nel centro di Torino. Il suo ritiro accoglieva, e a tutt’oggi accoglie, epilettici, dementi, sordomuti: e cioè, i deboli più deboli di tutti i deboli; quelli che, oltre ai disagi di un male invalidante, devono affrontare ogni giorno anche le insidie della povertà più nera.
San Giuseppe Cottolengo amava definirsi in un modo piuttosto strano: diceva d’essere un ciucòt. Un ciucòt di Dio.
A dimostrazione che il Piemontese è un dialetto bello strano, che ha poco a che vedere con l’Italiano di Firenze, ciucòt vuol dire piccolo ciùc. E ciùc, significa ubriaco.
Amava definirsi un ubriacone, il Cottolengo: un ubriaco del Signore. Proprio come gli etilisti, che s’inebriano di vino e non san più quello che fanno, anche lui si inebriava… di speranza, e di preghiera. E anche lui, a ben vedere, non sapeva più che cosa fare: perché in fin dei conti basta affidarsi alle mani del Signore. Spesso e volentieri, è proprio lui ad indicarti la tua strada: grandi miracoli può fare, la Divina Provvidenza.
Vi parrà strano, ma non stava esagerando. La Piccola Casa della Divina Provvidenza, nata in quel 2 settembre del 1827, è presente oggi in quattro dei cinque continenti, con religiosi e religiose che si prodigano, in ogni parte del pianeta, per alleviare le sofferenze dei malati e degli afflitti.
La Piccola Casa della Divina Provvidenza è presente anche a Torino, nel quartiere Aurora. Fra pochi giorni, andrà a visitarla persino il Papa. E potete farlo anche voi, se siete un gruppo organizzato – giusto per dare un’altra idea a che organizza un pellegrinaggio per la Sindone. È un’esperienza forte, che non si scorda facilmente.
marinz
Non conoscevo la storia di come fosse nato il "cottolengo" e la storia, purtroppo, si ripete spesso anche oggi… quante persone senza un punto di appoggio che arrivano "nuove" nella grandi città e non sanno dove andare, anzi oggi il rischio è che vengano raggiarate e usate per fine non proprio leciti… per fortuna che ci sono persone che, incotrapposizione agli altri, si sbattono per dare una mano ed accogliere "gli ultimi"Grazie di questa testimonianzaUn sorriso 🙂
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Lucyette
A Torino, da questo punto di vista, fanno veramente dei miracoli i ragazzi del Sermig (che del resto tu conosci). Tu l'avrai visitato, magari gli altri che leggono questo post non lo conoscono: il Sermig di Torino ha un grande locale dove trovano accoglienza, per un massimo di un mese (se non ricordo male) decine di senzatetto che, diversamente, dormirebbero per strada. E la cosa "sorprendente" è che questi dormitori sono bellissimi: puliti, ben curati, ben tenuti, sembrano veramente una camera d'albergo.Peraltro sono stanzette piccole, con un letto a castello, un tavolino, qualche sedia… sono davvero graziose: sono pure belle, oltre che, ovviamente, preziosissime per chi ne usufruisce!Tu non trovi, Marinz? :-)In compenso, giusto per una curiosità storica, questa famiglia in realtà non era arrivata a Torino in condizioni disagiate, poveracci! Questi signori, da quel che so io, erano relativamente benestanti (nel senso: non era il tipo di gente che muore in mezzo alla strada, voglio dire). Solo che erano in viaggio di ritorno per la Francia, dove abitavano; e, quando la signora aveva cominciato a star male, gli altri passeggeri della diligenza l'avevano letteralmente cacciata via dalla carrozza (del resto… come non capirli?). Questa famigliola si era ritrovata, dal nulla, sperduta in una città che non conosceva, e con un sistema ospedaliero che evidentemente lasciava un pochino a desiderare… e la signora non è riuscita a salvarsi.Ma la cosa che mi aveva colpita, era appunto che questi poverini non erano dei poveracci che vivevano in mezzo alla strada: erano solo incredibilmente sfortunati! A maggior ragione, gli deve esser caduto il mondo addosso.P.S. Come noterà chi era già passato di qui stamattina, ho appena riscritto la conclusione del post… quella di ieri non mi soddisfava 😛
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marinz
Confermo quanto dici sul Sermig di cui ho scritto un post, dove tu avevi linkato un tuo post… insomma un circolo vizioso ma molto interessanteBello il nuovo finale e soprattutto l'inebriarsi di Dio… in fin dei conti si dice che il vino dia felicità, seppur effimera, ma la Vera Felicità, almeno per chi crede, è solo in DioPer concludere credo che difronte alle difficoltà non ci siano ceti sociali, certo per i disagiati ci sono maggiori problemi, ma a volte i più "poveri" sono quelli che hanno di più e si trovano da un momento all'altra nella difficoltàUn sorriso 🙂
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utente anonimo
ho notato il cambio di finale, e anche il cambio di titolo…direi che manca ancora l'ormai famoso "ma che sant'uomo" che precede gli aneddoti…bella questa storia… nient'altro da dire per non rovinare il clima…Diego
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utente anonimo
Fa ancora schifo il sistema sanitario italiano, provo grande ammirazione per i medici, quanto disgusto per il sistema sanitario italiano, che pure è costellato di alcune eccellenze.Anche io ho notato il cambio di titolo e l'aggiunta di altre cose 😛 Bella, una storia proprio di speranza.Daniele
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Lucyette
Marinz, assolutamente verissimo… quando nella vita tutto fila benissimo, gli ostacoli – anche i più piccoli – sembrano barriere insuperabili…Diego, Daniele: ma allora le avete lette tutti quanti, le due versioni! :-DE io che pensavo che l'avesse notata solo Marinz… 😛
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