[Ma che sant’uomo!] Iesos konoronkwa

I granellini scorrevano leggeri fra le sue dita, l’uno dopo l’altro. Accovacciata sotto a un albero sulle rive del fiume, Tekakwitha contemplò per l’ennesima volta quello strano ciondolo che era stato l’ultimo regalo da parte di sua mamma, tanti anni prima.
C’erano un sacco di granellini rotondi, piccoli e ordinati, distanziati di tanto in tanto da un granello un po’ più grosso. Tekakwitha ne aveva contati cinque gruppi di dieci: dieci granellini uguali, un granello grosso; dieci granellini uguali, un granello grosso…
Al fondo della collana, pendeva una piccola scultura a forma di croce. A guardarla bene, sembrava quasi che sulla croce ci fosse inciso sopra il corpo di un omino.
La ragazza sfiorò con le labbra l’omino sulla croce e i granellini della collana, chiudendo gli occhi: ripensò alla sua mamma, ai suoi abbracci di bambina, e al giorno in cui il suo corpo era stato accolto dalla terra. Sotto le palpebre abbassate, sentì i suoi occhi inumidirsi.
E fu proprio per questa ragione (perché era distratta, perché aveva gli occhi chiusi, e perché in realtà non ci vedeva tanto bene neanche se li teneva aperti)… fu proprio per questa ragione, vi dicevo, che non si accorse in tempo del pericolo.
Quando ebbe la netta percezione di essere osservata, Tekakwitha spalancò gli occhi; ma ormai era troppo tardi. In piedi di fronte a lei, avvolto in tetro vestito scuro, se ne stava immobile un perfetto sconosciuto.

“…augh?”, azzardò lo sconosciuto, in tono che stava a metà fra la sorpresa e l’incertezza.
Tekakwitha, in tutta risposta, scattò in piedi e cercò disperatamente di scappare: ma non poteva certamente buttarsi nel fiume, né tantomeno andare a sbattere contro l’albero.
“No! No!”. L’uomo vestito di nero – un giovanotto, dal viso pallido – tese le braccia in avanti, come per fermarla; e sembrava più spaventato di lei. “Aspetta!”, esclamò in tono di supplica, “non aver paura! Vengo in pace!”. E poi abbozzò un sorriso, sollevando i palmi delle mani, aperti. Tekakwitha aggrottò le sopracciglia: era un gesto convenzionale in voga fra le tribù pellerossa, per dichiararsi disarmati. E lo sconosciuto sembrava sincero, tutto sommato.
La ragazza rimase immobile (d’altro canto, che poteva fare?), e lo sconosciuto la contemplò in silenzio per qualche istante. Posò lo sguardo sul volto di lei, e si lasciò sfuggire una smorfia. “Hai la faccia piena di…”.
Di cicatrici. Lei abbassò lo sguardo, sentendo gli occhi che si riempivano ancora di lacrime, di rabbia e indignazione. Sì, porca la miseria, lo sapeva anche lei: da piccola era riuscita a scampare al vaiolo che aveva ucciso i suoi parenti, ma la malattia le aveva completamente deturpato il corpo… era diventata un mostro, un essere inguardabile; e – grazie tante – lo sapeva anche da sola, senza bisogno che ci fosse gente a ricordar…
“…di sangue”, concluse il viso pallido, preoccupato. Tekakwitha lo fissò con tale stupore che lui ritenne di dover ripetere, più lentamente: “hai la faccia piena di sangue. Sei ferita. Ti serve aiuto?”.
Ci fu un lungo istante di silenzio, in cui lei fissò lui e lui contemplò lei, con dolcezza e con una punta di preoccupazione. In una piccola parte del suo cervello, Tekakwitha elaborò lentamente che quella era probabilmente la prima volta in tutta la sua vita in cui lei veniva guardata con quello sguardo. Uno sguardo di affetto disinteressato, e di sincera preoccupazione: in quegli occhi non c’era nessuna traccia di disprezzo, o di superiorità, o di derisione.
Lentamente, Tekakwitha si pulì il volto sporco di sangue con il palmo della mano. “Non è nulla”.
Lo sconosciuto le lanciò uno sguardo scettico; ma era un interessamento garbato, niente affatto invadente. Per qualche strana ragione, Tekakwitha aveva l’impressione di potersi fidare di lui… e poi forse voleva solo sfogarsi con qualcuno, in fin dei conti. “Mio zio mi ha punita perché non voglio sposarmi. Lui è il capo-tribù, io sono la sua figlia adottiva: c’è molta gente che mi chiede in sposa… nonostante il mio aspetto”. Lo sconosciuto non fece una piega. “È una questione di interessi, evidentemente. Ma io non voglio”.
Il viso pallido la fissò estasiato, come in idillio. “E quindi stavi cercando conforto nella preghiera”, sussurrò pianissimo.
Calò il silenzio.
Lo sconosciuto fissò Tekakwitha come se fosse un’apparizione fantastica; e Tekakwitha, dal canto suo, fissò lo sconosciuto come se fosse un pazzo scatenato.
“Che cosa?”, domandò infine.
“No, dico”. Lo sconosciuto indicò il monile. “Stavi pregando la Madonna, vedo”.
“Che cosa?”, ripeté lei.
Il ragazzo dal viso pallido sembrò preso in contropiede. “Scusa: non stavi dicendo il rosario? È da un po’ che ti osservo”.
Tekakwitha sgranò gli occhi. “Stavo dicendo cosa?”.
Fu solo a quel punto che un’ombra di sconforto attraversò il volto pallido del giovanotto. “Scusa”, sussurrò interdetto, passandosi una mano fra i capelli: “ma chi ti ha dato quel rosario? Quel coso che stai tenendo in mano”, aggiunse molto rapidamente, sconfortato, allo sguardo della ragazza.

Venti minuti più tardi, il sacerdote missionario aveva scoperto un bel po’ di cose riguardo a quella povera ragazza. Il Santo Rosario, che la fanciulla aveva sempre creduto una collana, era stato un dono della madre Tagaskouita, ormai morta di vaiolo. La stessa malattia che aveva sfigurato quella povera ragazza, aveva portato nella tomba anche il padre ed il fratello: e la povera fanciulla era stata adottata dallo zio paterno, capotribù.
“Ma scusa”, domandò a questo punto il prete, senza capire. “I tuoi parenti non sono cattolici?”.
La ragazza gli rispose con uno sguardo vuoto, e ammise di non capire. Il sacerdote, sconsolato, lo prese per un ‘no’.
“Ma tua mamma lo era, evidentemente. Possibile, che fosse l’unica in tutta la famiglia a credere in Dio?”.
La ragazza aveva l’aria di star continuando a non capire; però, fece spallucce. “Sai… la mia mamma è stata rapita all’inizio della guerra fra Mohawk e Irochesi: papà l’ha portata a casa, l’ha posseduta, e ne ha fatto la sua sposa”.
Ommioddio”, si lasciò sfuggire il sacerdote, inorridito.
“In questi casi, sei costretta a mettere da parte la tua cultura di origine, suppongo”, concluse la fanciulla, con gran filosofia.
Il missionario annuì, debolmente. “Ehm. Sì, mi sembra ragionevole”.

Si fissarono in silenzio per qualche altro istante, e poi il sacerdote commentò: “però, la tua mamma era cristiana. Penso di poterlo affermare con certezza”.
Ci fu un lampo di curiosità negli occhi della ragazza, e il sacerdote le sorrise, dolcemente. “Ne sono assolutamente certo. Posso raccontarti qualcosa di quello in cui credeva la tua mamma, se vuoi”. Le sorrise, col dolcezza, e domandò: “posso chiederti il tuo nome?”.
La fanciulla esitò, ma fu solo un attimo. “Sono Tekakwitha, della tribù dei Mohawk”.
Il sacerdote chinò il capo, in segno di saluto. “Io sono Jacques de Lamberville, e sono un gesuita. È un po’ come dire… ehm… che faccio parte della tribù di Gesù. È una tribù amica”, precisò velocemente, “ed anche la tua mamma ne faceva parte”. Il missionario lanciò uno sguardo a Tekakwitha, e le sorrise ancora. “E… non vorrei essere precipitoso, ma qualcosa mi dice che potresti diventare anche tu una grande amica di Gesù. Se ti va di provare a conoscerlo, naturalmente”.

Ci sono tanti Santi che potrebbero esser presi a simbolo delle Americhe, in questa seconda decina del mio rosario missionario. Un simbolo piuttosto eloquente è senz’altro la Madonna di Guadalupe, a cui avevo già dedicato un post… ma la storia di Tekakwitha mi ha colpita in particolar modo.
Non solo perché è la prima pellerossa ad essere mai arrivata alla gloria degli altari; e nemmeno perché è stata una fra i primi Mohawk a chiedere il Battesimo, in quella lontana Pasqua del 1676, a pochi anni di distanza dall’arrivo dei missionari.

“Kateri!”.
“No, non Kateri”, ribatté sconsolato don Jacques de Lamberville, per l’ennesima volta. “Catherine. Il tuo nome cristiano sarà Catherine”.
“Kateri!”, ripeté lei volonterosamente.
Catherine. Come Santa Caterina da Siena. Prova a ripeterlo, non è così difficile da pronunciare. Ca-the-rine”.
Kateri!”.
Jacques de Lamberville si passò una mano fra i capelli, e poi si arrese. “E va bene, allora. Il tuo nome cristiano sarà Kateri”.

La Beata Kateri Tekakwitha ne ha passate tante, nella vita: la sua conversione ha aizzato contro di lei le ire di tutta la tribù; lei s’è ammalata; è stata minacciata di morte; ha dovuto scappar via; si è stabilita in Quebec dove si è sostanzialmente fatta suora; ed è morta giovanissima, nel 1680, all’incirca alla mia età.
Ma non è stata la storia di Kateri a colpirmi. È stato… beh… il suo nome. Kateri.
“Kateri”, e non “Caterina”: “Kateri”, pronunciato secondo la lingua Mohawk.

A leggere la vita di Kateri, ci sono episodi che fanno veramente morir dal ridere.
Profondamente cristiana, e sinceramente convertita, questa giovane fanciulla non ci aveva pensato manco per un attimo, a rigettare di punto in bianco la cultura del suo popolo. Ferma sostenitrice del fatto che la conversione aggiunge un “di più” alle nostre vite, ma non ci obbliga di certo a rigettare il nostro passato in toto, Kateri continuò tranquillamente a fare tutto quello che faceva prima, limitandosi a conciliare le vecchie abitudini con la nuova fede.

I coloni del villaggio la vedevano nicchiare tutte le volte che le proponevano di pregare assieme; in compenso, la fanciulla usciva di casa all’alba e stava via per ore – chissà cosa faceva, ‘sta svergognata.
Semplicemente, pregava, in mezzo ai boschi: incapace di concentrarsi al meglio fra le quattro mura di una chiesa, la nostra Kateri prendeva il rosario e andava a pregare in mezzo alla neve nelle foreste, cercando Dio nella natura.

Il sacerdote della chiesa osservava perplesso questa giovane ragazza che comperava crocifissi a iosa e poi li faceva scomparire nel nulla: dove caspita li metteva?
Molto semplice: li piantava in mezzo al bosco, fra sterpaglie e sassi, “in modo che la gente si ricordi di ringraziare Dio, per tutto ciò che ci ha donato”.

Il suo confessore la vedeva di tanto in tanto ricoperta di tagli e graffi; ma ad esplicita domanda di chiarimenti, lei nicchiava e rimaneva vaga. Solo una volta, molti anni più tardi, Kateri ammise con molta naturalezza che lei aveva l’abitudine di tagliarsi mani e piedi, a imitazione del sacrificio di Cristo.
“Ossignore, Kateri: ma perché fai una cosa del genere?”, le avevano chiesto, sconcertati.
Lei aveva sorriso, con la massima naturalezza “c’è una vecchia tradizione Mohawk secondo cui gli uomini si fanno un taglio sul corpo per versare qualche goccia di sangue in onore di qualcuno: e questo sacrificio è un grande segno di profondo amore. Non è meraviglioso, che Gesù abbia fatto la stessa cosa per noi?”.
“…”.
“Io voglio semplicemente imitare il suo gesto, per dirgli che anch’io lo amo”.

Provata dalla malattia, Kateri morì dal giovane: era il 17 aprile 1680.
Le sue ultime parole furono “Iesos, konoronkwa”. Voleva dire “Gesù ti amo” – in lingua Mohawk.

E… non so voi, ma io mi sento veramente conquistata da questa Santa pellerossa che in pieno Seicento prega nella sua lingua madre, e onora il sacrificio di Cristo con le preghiere rituali della tribù dei Mohawk. Se c’è una Santa che può vegliare sulle Americhe e su questo melting pot di popoli – popoli che si sono trovati di fronte al non facile compito di dare forma a una nazione pur senza rigettare la propria cultura d’origine… beh: a mio modo di vedere, questa Santa è lei.

Sì: dipendesse da me, io affiderei l’America alla Beata Kateri, e alla Madonna di Guadalupe.
E direi che l’America sarebbe in gran buone mani, a questo punto…

 

14 risposte a "[Ma che sant’uomo!] Iesos konoronkwa"

  1. flalia

    Sei preziosa, Lucyette, ci fai scoprire storie che altrimenti probabilmente non conosceremmo mai. Mi piace Kateri, il suo modo di vivere la fede, e mi piace anche la tua espressione "la tribù di Gesù"! 🙂

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  2. utente anonimo

    Stavo aspettando con impazienza la storia di questa settimana 🙂
    Devo dire che è molto bella, una delle più belle che ci hai raccontato.
    Mi unisco anche questa settimana ovviamente, non c'è bisogno di ripeterlo

    Daniele

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  3. cecilia2day

    Non facile ma splendido coniugare due diverse culture.

    Grazie per la storia: appassionante.
    Ma (spero non mi sia sfuggita se magari l'hai citata qui o in precedenza) la tua fonte qual è? Vorrei leggermi qualcosa in proposito, se hai di che consigliarmi… ciao donzella 😉

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  4. Francesca080389

    Mmmm… la faccenda dei crocifissi seppelliti mi fa venire in mente un'altra faccenda assai meno bella… Mi sembra proprio nelle americhe, ai tempi della conquista, dei nativi che vennero giustiziati per aver seppellito in campo delle icone sacre, con l'accusa di vilipendio e blasfemia. Il frate che riportava l'accaduto scriveva che gli uomini in questione l'avevano fatto pensando di favorire così un buon raccolto.
    Che dire… Kateri è stata molto fortunata a non fare la stessa fine. ^^" 

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  5. Lucyette

    Flalia, Diego: oh, grazie!
    Allora neanche voi conoscevate questa Beata, vero? Io mi sono un po' stupita, perché a quanto pare era stata presa come simbolo della GMG di Toronto che c'era stata qualche anno fa… eppure, io non l'avevo assolutamente mai sentita nominare, nemmeno di sfuggita!
    Eppure è una storia bella, sì. Ci si potrebbe quasi fare un film, è molto particolare: magari, uno di quei tipici sceneggiati Rai dedicati ai Santi… 😉

    Cecilia, sai che hai ragione? Non metto mai la fonte dei miei post, ma invece dovrei, soprattutto per i Santi…
    Peccato che questa volta la mia fonte sia stata… ehm… Internet >__>
    Ho scoperto per caso la Beata Kateri sul sito Santiebeati, e poi mi sono  messa a navigare su Google cercando siti americani dedicati a lei. Però su GoogleBooks puoi leggere l'anteprima di molti libri dedicati a Kateri – quelli dovrebbero essere una fonte autorevole, insomma!

    Francesca, ullamiseria: giustiziati, addirittura?! :-O
    Glom: non ne sapevo niente, non l'avevo mai letto da nessuna parte… chissà!
    Beh, quantomeno abbiamo la prova che fortunatamente c'erano anche missionari sani di mente, insomma… 😉

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  6. cecilia2day

    Grazie!

    Ma ti pare: la fonte è fondamentale (c'è pure una… consonanza di concetto oltre che una risonanza di lettere), ma già così fai un ottimo lavoro e, soprattutto, ci delizi 🙂

    D'altra parte, purtroppo, non sono queste le storie che fanno furore e sulle quali bisogna proprio andare cauti… 'sera.

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  7. utente anonimo

    Questa ragazza, straniera anche se in mezzo al suo popolo, mi richiama la contemporanea storia dei Copti in Egitto…
    una preghiera anche per loro, anche se non tocca al loro continente…

    Diego

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  8. Emilia

    Al termine del rito per la creazione dei nuovi cardinali, sabato scorso, il Santo Padre ha tenuto un Concistoro ordinario pubblico. Durante il Concistoro, ha annunciato che la cerimonia per la canonizzazione di Kateri Tekakwitha e di altri sei Beati si terrà domenica 21 ottobre 2012, Giornata Missionaria Mondiale.

    Lucyette, preparati ad un sacco di accessi al blog da parte di gente che vorrà saperne di più!

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