O, quantomeno, era una cosa molto seria nelle intenzioni di Sione ʻAmanaki Havea, pastore metodista originario dell’Isola di Tonga morto nel 2000 all’età di settantotto anni. Teologo di una certa fama all’interno della sua Chiesa, Havea fu direttore del Pacific Theological College delle isole Fiji sul finire degli anni Settanta, e cioè (va spiegato bene, per comprendere questa strana storia) in un periodo di fortissimo fermento teologico, soprattutto in quella particolare zona del mondo.
Elettrizzate dall’euforia post-coloniale (e, più genericamente, da quelle aspettative di rivoluzione che, tra gli anni Sessanta e Settanta, s’erano fatte strada in molte comunità cristiane), le chiese protestanti della zona del Pacifico facevano un gran parlare della necessità di trovare nuove forme e nuovi modi per vivere il Vangelo, meglio ancora se confezionati su misura per la popolazione autoctona. V’era bisogno urgente di trovare una Pacific Way da proporre ai fedeli (così la chiamavano a quell’epoca): c’era l’idea diffusa che una popolazione che scalpitava per affrancarsi dal suo passato coloniale non potesse continuare a vivere nell’ombra di una teologia che era stata sviluppata dall’élite europea nelle aule universitarie dall’altra parte del mondo. “Dovete trovare il modo di parlarci di un Cristo che non abbia una faccia bianca, occhi azzurri e due labbra sottili”, aveva dichiarato nel 1976 il governatore della Papua Nuova Guinea intervenendo alla Conferenza delle Chiese (protestanti) del Pacifico.
Sione ʻAmanaki Havea prese molto sul serio quella richiesta.
E anzi, andò più in là. Non è noto se il nostro amico avesse particolari problemi nel relazionarsi con il tradizionale aspetto fisico di Gesù da vivo; in compenso, aveva evidentemente grossi problemi nel relazionarsi con l’aspetto fisico di quei simboli che Gesù aveva scelto per essere ricordato dopo la morte. Pane e vino, secondo la riflessione di Havea, erano sostanze dall’alto contenuto simbolico che avevano funzionato benissimo per gli individui a cui Gesù si era rivolto durante l’Ultima Cena. Ma se, per ipotesi, Gesù avesse consumato la sua ultima cena nella Polinesia del 1970 (e non nella Gerusalemme del 33), di certo non avrebbe utilizzato il pane e il vino per mediare i concetti che intendeva far passare.
Avrebbe utilizzato il cocco, Havea ne era convintissimo.
E infatti inventò la Coconut Theology (no, non è uno scherzo).
Questa singolare visione teologica trovò forma definitiva nel 1985, dopo una decina d’anni di riflessione. Secondo la ferma convinzione di Havea, parlare alla popolazione locale di un Dio che decide di manifestarsi in una pagnotta è un colossale autogol in termini comunicativi, perché in Polinesia il pane non è un alimento particolarmente amato. Non è neanche lontanamente quel “pane quotidiano” che non può mai mancare sulla tavola di chi vive immerso nella cultura occidentale: esiste, sì, ma non è l’alimento fondante della dieta locale. E nemmeno il vino gode di quella considerazione che, invece, ha in Occidente: la simbologia eucaristica che funziona molto bene nelle chiese occidentali si mostra invece debole e poco efficace per chi vuole annunciare il Vangelo nelle isole pacifiche. O quantomeno, così diceva Havea, che ritenne appunto di aver individuato un altro elemento capace di mediare con più efficacia il messaggio evangelico: e cioè, l’amatissimo cocco.
Che – ci spiega il teologo di Tonga – è davvero alla base della vita quotidiana, in Polinesia. La popolazione locale non si limita a berlo e a mangiarlo: frequentemente, lo usa anche come farmaco, distillando preziosi succhi curativi dalla scorza verde che circonda il frutto. Le foglie degli alberi di cocco sono largamente utilizzate per dare coperture alle abitazioni. Il guscio è presente in ogni casa, lavorato con maestria e trasformato in recipienti e in mille altri oggetti d’uso quotidiano. Il legno dell’albero di cocco è il principale combustibile che viene fatto bruciare nei caminetti quando ve n’è bisogno. Dalla scorza che circonda il frutto succoso, le donne ricavano un filato col quale vengono intessute le vele delle navi, permettendo agli uomini di procacciare cibo per le famiglie.
Ma non solo. Havea vedeva nella noce di cocco una sorta di gigantesca allegoria sacra. Per citare i termini con cui la descrive Anselm Schubert nel suo Pasto divino. Storia culinaria dell’eucaristia, secondo Havea “la noce cade per terra dall’alto dell’albero e rotola nel punto più basso, dove muore. Qui la sua carne e il succo nutrono il germoglio, da cui nasce un nuovo albero. Se la noce cade in mare, viene portata via dalla corrente e, dovunque tocchi terra, genera una nuova vita. Questo realizzarsi della condiscendenza – parola che in teologia indica la discesa del figlio di Dio dal cielo alla terra per mettersi accanto agli uomini – per il teologo polinesiano è una sorta di kairόs, di attimo decisivo dal punto di vista escatologico, perché ogni palma ha un tempo suo proprio e imprevedibile in cui cresce, matura e muore”.
Andrà sottolineato ancora una volta, per maggior chiarezza, che Havea era un teologo di fede metodista. Evidentemente, quella Chiesa non condivide le visioni cattoliche sulla transustanziazione: per loro, l’Eucarestia è solo una commemorazione del sacrificio di Gesù, e il pane che viene utilizzato nel corso della celebrazione liturgica è solo un simbolo della presenza spirituale del Cristo.
Insomma: un approccio che almeno in parte giustifica la disinvoltura con cui Havea sviluppò, in pochi anni, una vera e propria liturgia a base di cocco, che – per l’appunto – riteneva più adatta a essere proposta alla popolazione indigena.
Al momento dell’offertorio, la comunità avviava delle danze rituali durante le quali consegnava al celebrante una bella noce. Questa non veniva posata sull’altare, bensì su un cerchio tracciato sul terreno attorno al quale la comunità si raggruppava. Presa a calci e a manate, la noce di cocco veniva fatta rotolare da una parte all’altra del cerchio, in una sorta di umiliazione rituale che aveva luogo mentre uno dei celebranti intonava i Canti del servo del Signore del libro di Isaia. La musica, poi, cedeva il passo alla lettura di alcuni stralci dei Vangeli della Passione: e intanto, la noce di cocco veniva privata della scorza esterna e tagliata in due. Giungeva infine il momento della comunione, annunciata dalla formula “io sono la noce di cocco della vita”: a uno a uno, i fedeli si comunicavano mangiando un pezzettino della polpa succosa e bevendo il dolce latte.
Va da sé: questa cosa era dichiaratamente un’eresia, se ci piace far ricorso a questi termini dal sapore antico. Non solamente un’eresia agli occhi dei Cattolici (che in questa storia non c’entrano niente, e che cito solamente per empatizzare con lo sconcerto con cui probabilmente l’Italiano-medio leggerà queste pagine ripensando a ciò che gli è stato insegnato a catechismo da bambino).
In realtà, furono proprio le Chiese protestanti a voler prendere le distanze da questa curiosa visione teologica e soprattutto dalle celebrazioni liturgiche che da lì erano sorte. Molti fecero notare che, al di là della stranezza globale del vedere il pane eucaristico trasformarsi in un cocco, quel curioso sacrificio rituale a base di calcioni sembrava essere adatto, tutt’al più, a rievocare le angherie subite da Gesù al momento della flagellazione, ma pareva drammaticamente carente nel simboleggiare il momento della sua effettiva morte in croce. Insomma: quella di Havea, oltre a essere una teologia al cocco, veniva criticata perché “troppo allegra”, troppo focalizzata sulle umiliazioni patite da Cristo e troppo poco forte nel sottolineare il dramma della sua morte.
Critiche che, per la cronaca, Havea comprendeva ma rigettava al mittente: a suo dire, era la teologia ufficiale a essere troppo cupa, troppo ripiegata sugli aspetti lugubri e funerari: un difetto di cui lui riteneva anche di poter spiegare le origini. I più grandi teologi del XX secolo (Tillich, Barth, Brunner e Bonhoeffer, per citare i nomi che lui stesso proponeva) avevano vissuto in un’Europa flagellata dalle guerre; inoltre, i filosofi tedeschi erano anche stati costretti a vivere sotto il peso di un gigantesco senso di colpa collettivo, dovuto al fatto d’esser stati compatrioti del genocida guerrafondaio che tante sofferenze aveva inflitto agli innocenti.
Era dunque comprensibile, secondo lui, che la visione del mondo di questi pensatori fosse cupa, lugubre e ossessivamente ripiegata sul pensiero della morte e sulla paura del peccato. Probabilmente, era quel tipo di riflessione di cui le popolazioni occidentali avevano effettivamente bisogno, in quel momento storico.
Ma, grazie al cielo, non tutto il mondo si trovava altrettanto malmesso: ed ecco perché doveva essere radicalmente diversa la pastorale da rivolgere alle popolazioni delle isole pacifiche (gente che raramente avuto intere famiglie distrutte dalla guerra, e in compenso aveva un disperato bisogno di crescere ed elaborare decadi umilianti di vessazioni subite durante l’esperienza coloniale).
Non sorprendentemente, la Coconut Theology non ebbe un gran successo. Qua e là, in giro per le isole del Pacifico, alcune comunità metodiste ripropongono ancora, in certi momenti, la liturgia a base di cocco elaborata da Havea, ma lo fanno più che altro a livello simbolico, senza troppa convinzione. In anni recenti, persino il figlio del teologo ha avuto modo di dichiarare che le parole di suo padre vanno considerate più che altro come una provocazione, poco più che una boutade.
Anselm Schubert, storico e teologo, ha l’aria di non concordare più di tanto. Pur ammettendone la portata estremamente limitata, trova comunque molto affascinante questo fenomeno, che per la prima volta in quasi duemila anni di storia cristiana “rifiuta i simboli e i segni tradizionali, in quanto connotati in senso etnico e culturale, e li sostituisce consapevolmente con simboli e narrazioni legate alla propria storia e al proprio potere”. Lo storico ritiene che quello di Havea avesse, in potenza, le potenzialità per diventare “un movimento in grado di mettere in discussione, oggi, i fondamenti europei del cristianesimo”; forse una affermazione un po’ ardita, a mio giudizio… ma su un punto concordo: a suo modo, questa strana storia è decisamente una Storia interessante.
Una Storia interessante che, se volete, potete approfondire qui: Anselm Schubert, Pasto divino. Storia culinaria dell’eucaristia (Carocci, 2019) ma soprattutto Matt Tomlinson, God Is Samoan (University of Hawai’i Press, 2020)
Elena
Probabilmente sbaglio ma mi sento d’accordo con Schubert, al di là delle modifiche macroscopiche della liturgia che personalmente trovo un po’ sconcertanti , non mi sembra sbagliato utilizzare “simboli” di una specifica cultura per fare comprendere meglio il significato della comunione…mi spiego male ma il concetto è quello!
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Lucia Graziano
Io lo trovo utile in senso generale, ma molto pericoloso all’atto pratico.
Nel senso che (al di là di ogni altra considerazione di fede), penso che la grande forza delle grandi religioni sia quella di essere immutabili, fuori dal tempo, e quindi adatte per ogni tempo. Se inizi a modificare qua e là pezzettini di religione per adattarli al contesto socio-culturale specifico, magari nel momento ottieni anche qualche buon risultato, ma la religione comincia a cambiare forma e nell’arco di qualche secolo rischia di diventare una roba diversa da quella che era prima. Ti ritrovi con un Cristianesimo occidentale che è diverso da quello del Pacifico, e in prospettiva storica non mi sembra una cosa brillante.
😅
Però concordo sul fatto che la metafora del cocco era intelligente. In questo caso direi che le avevano dato troppa importanza, ma in un’ottica di pastorale o predicazione sarebbe stato probabilmente utile utilizzarla (affiancandola e non sostituendola all’immagine del pane, magari. Come una integrazione e non una sostituzione, secondo me).
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Elena
Ho capito cosa intendi, forse in maniera poco chiara anche nel mio pensiero stavo ragionando sul catechismo, quindi l’utilizzo di una immagine conosciuta per trasporre un concetto.
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Celia
Meno male che da noi non è nata la teologia del chewingum (oggetto che una volta, lo ricordo come fosse ieri, la mia catechisa utilizzò per esemplificare il concetto di Trinità).
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Celia
*catechista.
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