Uno degli aneddoti che gli storici amano più frequentemente raccontare quando sono fuori a cena è “voi lo sapevate che una volta i pomodori erano gialli e venivano considerati parenti della mela?”. Anche perché, scusate: per quale altra ragione al mondo, se non quella, il pomodoro dovrebbe chiamarsi (appunto) pomo d’oro?
Il primo a paragonarlo a un piccolo pomo dorato fu Pietro Andrea Mattioli († 1578), che lo ribattezzò in questo modo usando il termine latino di malum aureum: verdolini per buona parte della loro vita – spiega il botanico – questi ortaggi si coloravano d’un tratto di vivaci tinte accese quando giungevano a maturazione. Alcuni diventavano rossi come il sangue, ma la maggior parte di loro acquisiva un acceso color giallo con piacevoli sfumature dorate: a uno sguardo distratto, aggiunge Mattioli, questi strani frutti provenienti dal Nuovo Mondo avrebbero facilmente potuto sembrare delle mele in miniatura.
Verrebbe da chiedersi su quale tipo di pomodoro si fosse posato lo sguardo di Mattioli; ché oggigiorno qualche pomodoro giallo lo si trova ancora sui banchi del mercato (se si ha fortuna), ma di certo non rappresenta le varietà più comuni. Ma quello che ci piace mangiare in insalata ha l’aria d’essere qualcosa di significativamente diverso dall’ortaggio che arrivò in Europa dal Nuovo Mondo – e, probabilmente, è diverso per una vasta serie di ottime ragioni. A partire da quella per cui, a inizio Cinquecento, ‘sta strana mela color dell’oro faceva schifo un po’ a tutti: a citare l’impietoso ritratto che ne diede Costanzo Felici († 1585), i pomodori erano molto più belli da guardare di quanto non fossero buoni da mangiare.
E belli da guardare dovevano esserlo di sicuro, visto l’entusiasmo con cui molti nobili europei cominciarono a piantarli nei loro giardini a mo’ di pianta ornamentale: quelle perfette sfere tonde dai colori accesi dovevano fare lo stesso effetto delle bacche di agrifoglio nelle ghirlande di Natale, e il profumo particolarissimo che spandevano tutt’intorno piaceva quanto quello dei fiori delle aiuole. Ma che questi ortaggi potessero anche essere buoni da mangiare… beh: quello era tutto da vedere. Pur non mancando, a livello concettuale, la consapevolezza di come i pomodori fossero commestibili, i cuochi non morivano dalla voglia di sperimentare con ‘sti cosi strani. Troppo acidi per essere consumati quando erano ancora acerbi, erano troppo rapidi nell’andare a male nel momento in cui giungevano a maturazione (che coincideva oltretutto col loro periodo di massima bellezza, se consideriamo che ce li si metteva in casa per godere della loro estetica). Difficili da cucinare (in un’epoca in cui le insalate non piacevano un granché, e la maggior parte delle verdure veniva consumata in crosta o cotta al forno), avevano oltretutto un sapore che non era molto amato. O che era oggettivamente sgradevole per davvero: eventualità non da escludersi, se vogliamo ipotizzare che all’epoca fossero diffuse varietà di pomodoro diverse rispetto a quelle che mangiamo oggi. Gli uomini del Cinquecento, che di solito non erano troppo schizzinosi col cibo, emettono sul pomodoro dei commenti così tranchant da lasciar perplessi: perché, insomma, sui gusti non si discute, ma definirli più acidi dell’aceto…
Non che il pomodoro non venisse mangiato in toto: qualche intrepido volenteroso ci provava pure, a utilizzarli. Pietro Mattioli, per esempio, testimonia come, a metà Cinquecento, alcuni li tritassero per ridurli in purea e altri ancora li gustassero acerbi, suggendone piccoli spicchi di color verde chiaro. Alcuni li impanavano, li friggevano in olio e li condivano con sale e pepe (“come si fa con le melanzane”, spiega il botanico); e sul finire del Seicento, Antonio Latini inserisce nel suo manuale per Lo scalco alla moderna la ricetta per ricreare la prima conserva della Storia, una «salsa di pomodoro alla spagnuola», con cipolla, timo, pepe, sale, olio e aceto, che si prestava abbastanza bene a condire la carne bollita, stando al giudizio del cuoco. Ma stiamo parlando di eccezioni alla regola, tentativi, esperimenti: mediamente, il pomodoro non aveva molti fan. E anzi, numerosi cuochi che erano di stanza in quei palazzi nobiliari i cui giardini erano zeppi di piante di pomodoro hanno consegnato alla Storia la loro frustrazione nel non riuscire a dare un impiego a tutti ‘sti ortaggi che spiaceva pure buttar via, ma che non valeva nemmeno la pena di cucinare. Poco nutrienti, mollicci, pieni d’acqua e con la tendenza a marcire in fretta, i pomodori sembravano (nella migliore delle ipotesi) un alimento francamente inutile da introdurre nella propria dieta.
Nella peggiore delle ipotesi, venivano addirittura ritenuti pericolosi: in parte, perché all’epoca gli alimenti eccessivamente acquosi erano considerati un cibo spazzatura, da centellinare; in parte, perché i botanici del Cinquecento avevano le idee poco chiare su cosa fosse un pomodoro esattamente. In uno svarione destinato a fare la Storia dell’alimentazione, Pietro Mattioli li aveva erroneamente inseriti nella stessa famiglia di cui facevano parte le mandragole, le temutissime piante delle streghe cui la tradizione popolare attribuiva (tra le altre cose) dirompenti poteri afrodisiaci. Ecco: gli stessi poteri furono attribuiti anche all’ortaggio; e rifacendosi agli scritti italiani di Mattioli, il botanico fiammingo Rembert Dodoens ebbe strada facile nel ribattezzare il pomodoro poma amori, in un gioco di parole che appunto sottolineava i pericolosi effetti collaterali che potevano conseguire a un consumo smodato di questi insidiosi vegetali.
E che il pomodoro avesse effetti afrodisiaci è convinzione che ritroviamo attestata in tutta Europa, da Nord a Sud, lungo il corso del XVI e XVII secolo (addirittura, gli Inglesi li chiamavano love apples e i Tedeschi, analogamente, Liebesapfel. Solo nella tarda età moderna si impose un altro sostantivo derivante da quel tomatl con cui i nativi americani chiamavano l’ortaggio). La prossima volta che vi capiterà di affettare i datterini da mettere in insalata, siate consci di star compiendo un atto talmente osé da trasformarsi in sé e per sé occasione prossima di peccato: a sentire alcuni moralisti del Cinquecento, era praticamente impossibile concludere una cena a base di pomodori senza finire con lo strapparsi i vestiti di dosso assieme agli altri commensali; e secondo alcuni bastava inalare il profumo stesso del pomodoro per essere immantinente invasi dalla libidine (ellamiseria).
Insomma: per un motivo o per l’altro, questi benedetti pomodori tendevano a suscitare ribrezzo e disgusto. Uniche eccezioni di rilievo: gli ebrei sefarditi stanziati sulle coste del Mediterraneo, che fin da subito avevano mostrato di apprezzare la verdura del Nuovo Mondo (le comunità ashkenazite dell’est Europa invece tendevano a guardarlo con gran sospetto, e alcuni rabbini non erano nemmeno convinti che si trattasse d’un cibo kosher). E poi: i religiosi cattolici che appartenevano a un ordine religioso, specie se si trattava d’un ordine con vocazione missionaria che aveva già fatto erigere dei monasteri nel Nuovo Mondo.
In quel caso, va da sé che i (pur comprensibili) timori legati al consumo di un alimento esotico che non ha mai fatto parte della propria dieta venivano pesantemente ridimensionati dall’evidenza per cui i propri confratelli in terra di missione consumavano abitualmente i cibi del luogo, e senza morire avvelenati, senza ammalarsi e senza trasformarsi in erotomani. E, in effetti, furono proprio attraverso i conventi e i monasteri che molti degli alimenti provenienti dal Nuovo Mondo riuscirono a fare breccia e a imporsi piano piano nei gusti e nella cucina degli Europei.
Ai fini della nostra storia, il nome da citare è quello di Vincenzo Corrado, un monaco celestino che aveva ricevuto dai suoi superiori il compito di dirigere le cucine della piccola comunità religiosa di San Piero in Maiella, a Napoli. Nell’arco di pochi anni, Vincenzo era diventato un cuoco provetto; cosa che gli tornò grandemente utile nel momento in cui – quando la congregazione religiosa di cui faceva parte fu sciolta – al monaco (ormai non più tale) toccò inventarsi un altro modo per guadagnarsi da vivere. E quel modo lo individuò nella stesura di un testo di cucina che divenne rapidamente un best seller: edito nel 1773, il suo Il cuoco galante godette di un numero di ristampe e di una tiratura che sono francamente sorprendenti per l’epoca. Tra le molte ricette incluse nell’opera, ve ne sono diverse a base di pomodori: alcune, tali da far inarcare le sopracciglia (i pomodori ripieni di vitello cotti in latte, burro, zucchero e cannella sono qualcosa che francamente non vorrei provare); altre, decisamente più accettabili, se non proprio stuzzicanti. Le sue crocchette di pomodoro, uovo e ricotta hanno l’aria d’essere un cibo che gusterei oggi stesso e volentieri, e la salsa di pomodoro, aglio e ruta con cui il cuoco suggeriva d’accompagnare la carne di montone mi sembrerebbe interessante da provare. La sua ricetta per i pomodori al forno con acciughe, prezzemolo, originano e aglio ha poi un tocco così moderno che vale davvero la pena di replicarla (in effetti l’ha fatto proprio oggi Mani di pasta frolla: curiosi di vedere se è venuta buona?).
Sarebbe esagerato dire che fu Vincenzo Corrado a far riscoprire col suo ricettario il sapore buono del pomodoro: diciamo che il cuoco napoletano fu probabilmente il primo a descrivere su carta quello che doveva essere il trend del momento. Entro la fine del XVIII secolo, gli archivi di molte famiglie religiose, in Italia e all’estero, ci consegnano un profluvio di ricette di pomodori: i gesuiti di Roma li mangiavano in frittata nei giorni di magro; le suore celestine di Trani li consumavano in brodetto e quelle di Catania avevano sviluppato la ricetta dei mortaretti, mini-proiettili di pasta ripieni di pomodoro e erbe. Ma non solo: in Sardegna, diversi monasteri avevano preso l’abitudine di far seccare i pomodori al sole o di metterli sott’aceto per poterli sfruttare anche nei mesi invernali; in Spagna, piaceva moltissimo il gazpacho, che molte comunità femminili consumavano a colazione (!).
Ormai, era solo questione di tempo prima che il pomodoro riuscisse a vincere le ritrosie dell’uomo-qualunque e cominciasse a penetrare anche nelle cucine delle abitazioni private. Accadde in fretta, e anche per ragioni economiche: entro il XIX secolo (e soprattutto nell’Italia meridionale, dove il clima caldo ne agevolava la coltivazione), il pomodoro era diventato così diffuso e a buon mercato che i poveri lo mangiavano su base quasi quotidiana, in quei periodi dell’anno in cui ne avevano disponibilità (nella zona di Napoli, si osservò che nei mesi estivi le vendite di carne e di cereali colavano a picco, proprio perché le classi meno abbienti preferivano sfamarsi della buona verdura dei campi). Nelle regioni del Nord, il pomodoro si impose con un po’ più di fatica, ma l’unità d’Italia diede una netta accelerata al processo: del resto ne era passata, ormai, di acqua sotto ai ponti, da quando il malum aureum dei Rinascimentali era guardato col sospetto diffidente delle novità.
Per approfondire:
Clarissa Hyman, Tomato. A Global History (Reaktion Books, 2019)
ac-comandante
Acidi che sembrano limoni capitano ancora oggi, eh!
Sulla presunta tossicità delle prime cultivar avevo trovato pure io qualcosa, e lo stesso pure per l’altro ortaggio di importazione, poi diventato simbolo della cucina nordeuropea, la patata. E oggi non si riesce ad immaginari la cucina italiana senza pomodori nè la cucina tedesca e inglese senza patate! Forse semplice avversione per la novità?
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Anonimo
Molto interessante, congratulazioni
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Anonimo
Le aggiungo una curiosità: lo stesso accadde per la patata, considerata cibo per il bestiame l’uso alimentare umano si diffuse nel secolo XIX per iniziativa de Alessandro Volta. Più o meno nello stesso periodo un ufficiale napoleonico di nome Parmentier fu preso prigioniero dai tedeschi che, per manifestare il loro disprezzo, nutrivano i prigionieri appunto con le patate considerate cibo da maiali. La “vendetta” di Parmentier fu quella di presentare le patate in modo tale che il loro uso per alimentazione umana si diffuse, in particolare in Germania. La patata fu comunque un elemento fondamentale nel superare la crisi alimentare del XIX secolo, periodo in cui la popolazione crebbe più delle risorse. Saluti e buona giornata.
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Anonimo
Non so perchè i miei commenti siano uscito come anonimi: Gianluca di Castri
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