Nonna Rosa, sartina torinese: la donna che insegnò a papa Francesco come pregare

Chissà se, nei prossimi giorni, quando la stampa sarà ormai satura di pezzi tutti identici sulla stessa storia e i giornalisti saranno alla ricerca di qualche variazione sul tema per coprire la notizia, qualcuno si farà venire in mente l’idea di uno speciale sul tema “Torino ricorda papa Francesco”.

E ce ne sarebbe ben donde, in fin dei conti: quel papa che, in visita pastorale alle comunità italoamericane di Buenos Aires, chiedeva ai suoi ospiti la cortesia di cucinargli la bagna cauda, e che dal balcone di piazza san Pietro creava ai Piemontesi un effetto straniamento mica male citando le poesie di Clemente Rebora (un autore ossolano così di nicchia che io pensavo che a conoscerlo ci fossero solo le vecchiette torinesi d’altri tempi, tipo mia nonna)… ecco, quel “papa argentino” molto meno argentino di quanto si potrebbe forse immaginare aveva origini radicatissime nella città che anche a me ha dato i natali.

E allora, sarà questo il mio modo per ricordarlo: raccontando quella parte della sua storia familiare che si interseca con le strade in cui mille volte anche io ho mosso i miei passi. E che, chissà: magari potrebbe anche a voi far scoprire qualche cosa che ancora non sapevate a proposito della donna che più volte il papa ha citato come colei che per prima gli ha insegnato a vivere la fede – Rosa, la sua nonna amatissima.

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Per nascita ligure, più che piemontese, Rosa Margherita Vassallo era nata nel 1884 a Piana Crixia, un minuscolo borgo abbarbicato su quel tratto di Appennini che separa il Piemonte dalla Liguria. Ma si era trasferita a Torino quand’era ancora una bambina, ospite di una zia che s’era offerta di farla vivere con sé per permetterle di proseguire gli studi: nel paesello da cui Rosa arrivava, non esisteva che una scuola di campagna che, come spesso capitava all’epoca, offriva solo le prime due classi del ciclo elementare; e quella bambina era così portata per gli studi che sarebbe sembrato un delitto sottrarle la possibilità di proseguirli. E così, all’età di otto anni, Rosa salutò mamma e papà e, con lo spirito di una collegiale, si trasferì nell’alloggio torinese della zia di città: e, sotto le Alpi, Rosa proseguì gli studi, crebbe e trovò lavoro. Ai tempi in cui conobbe il nonno di papa Francesco, era una sarta sufficientemente stimata da avere un discreto giro di clienti che bussavano alla porta del suo laboratorio per commissionarle abiti su misura. Insomma: una donna piuttosto realizzata, ragionevolmente istruita ed economicamente indipendente, che svolgeva la professione di sarta in quella che (come i Torinesi amano spesso ricordare) era all’epoca la “capitale della moda” prima che Milano le rubasse il titolo. Grazie al suo acume e ai sacrifici della sua famiglia, Rosa aveva quel tipo di vita che, pur nella sua semplicità, molte sue coetanee avrebbero solo potuto invidiarle.

Ed è una storia d’emigrazione ben riuscita anche quella di Giovanni Angelo Bergoglio, che nel 1906, con l’intraprendenza dei ventidue anni, decise di lasciare la campagna astigiana per cercare fortuna a Torino. E infatti non gli ci volle molto per trovare un impiego: quello di commesso in un negozio di tessuti.
Sarà stato forse lì, da un capo all’altro del bancone, che Giovanni ebbe modo di incontrare la donna destinata a cambiargli la vita? Ovviamente non possiamo saperlo, ma allo storico è pur concesso di sognare di tanto in tanto: in questo caso, poi, è irresistibile la tentazione di farlo, se teniamo in conto il fatto che la merceria in cui lavorava Giovanni era a pochi isolati di distanza dall’appartamento occupato da Rosa.

Certo è che, il 20 agosto 1907, i due si univano in un matrimonio nella chiesa di santa Teresa, un piccolo gioiello del barocco piemontese che ben merita il boom di popolarità donatole in questi anni da Papa Francesco: è un edificio costruito da architetti d’una certa fama che custodisce al suo interno opere d’arte non da poco. E poi, certo, presenta la caratteristica non comune d’essere stata la parrocchia della famiglia Bergoglio: subito dopo il matrimonio, i due sposi andarono a vivere proprio davanti alla chiesa, al numero 12 di via Santa Teresa, in un grazioso palazzo che è ancora in piedi e che oggi ospita una banca e vari uffici. E fu proprio quel palazzo, il 2 aprile 1908, ad accogliere i primi vagiti di Mario Giuseppe Francesco: il padre del papa.

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Con comprensibile curiosità, gli storici torinesi si sono divertiti a cercare di scoprire qualcosa in più sulla famiglia Bergoglio negli anni in cui si trovava a vivere sotto la Mole. Poche, le fonti a loro disposizione: perlopiù, gli archivi dell’anagrafe cittadina, che danno conto dei frequenti traslochi della famiglia. Poco tempo dopo la nascita del primogenito, la coppia si trasferì in una casa più grande a qualche isolato di distanza, vicina alla caffetteria in cui Giovanni aveva cominciato a lavorare come cameriere. Nel nuovo appartamento, ci sarebbe probabilmente stato lo spazio per aggiungere una nuova culla al lettino in cui dormiva Mario: purtroppo, “carta canta”, e gli archivi dell’anagrafe consegnano ai posteri uno scenario così straniante che bisogna fare un certo sforzo mentale per razionalizzarlo. Tra il 1909 e il 1919, Giovanni e Rosa andarono incontro a una serie di lutti neonatali così lunga da lasciare senza parole: ebbero altri sei figli, ognuno dei quali nato vivo e successivamente morto entro pochi giorni, in una catastrofe familiare così anomala da aver fatto sospettare ai medici l’esistenza di una qualche condizione clinica mai diagnosticata, senza la quale questa mattanza sembrerebbe francamente a-statistica.

Come se non bastasse, nel mezzo di tutte queste lacrime arrivò la guerra. Nel 1904, Giovanni era stato dispensato dal servizio militare obbligatorio, per ragioni che non risultano peraltro ben chiarite: il certificato della sua visita di leva descrive un giovane in buona salute eccezion fatta per i «denti guasti», che forse sono un po’ poco per scampare alla naja.
Certo è che anche i soldati col mal di denti diventano preziosi quando scoppia una guerra mondiale: il 2 luglio 1916, l’uomo fu richiamato alle armi e inviato al fronte.

A fare cosa? Non lo si sa, o più probabilmente nessuno storico, che io sappia, si è (per il momento) preso la briga di fare una indagine seria sull’esperienza del soldato Bergoglio (che qualche traccia di sé dovrà pure aver lasciato negli archivi militari, dopotutto). Quel che è certo è che, negli anni della guerra, Giovanni e Rosa maturarono la decisione di abbandonare la città di Torino (dove, oltretutto, il costo della vita era schizzato in alto, visti i razionamenti) e di trasferirsi ad Asti, non lontano dall’ormai “famoso” paesello di Portacomaro in cui vivevano i parenti paterni e che spesso viene citato come la culla della famiglia Bergoglio.

I coniugi traslocarono ad Asti nel 1918 e lì vissero fino al gennaio 1929, in un decennio denso di vita e di impegni ecclesiali per Rosa, che divenne una figura di spicco nella sezione femminile dell’Azione Cattolica astigiana. Ma, chissà: questo potrebbe forse essere argomento per un futuro articolo.
Ai fini di quello che, più modestamente, io mi proponevo di scrivere quest’oggi, più utile sarà non divagare oltre e virare direttamente sulla chiusura: quand’è che la famiglia Bergoglio smise d’essere piemontese? Insomma: quando e perché Giovanni e Rosa decisero (come molti altri piemontesi di quel tempo) di emigrare per l’Argentina?

Presero la decisione nel 1928 – e no, non perché fossero poveri in canna, come spesso alla stampa è piaciuto dire, affascinata dall’idea romantica di questa famigliola di migranti che parte coi suoi pochi stracci per un viaggio incerto a bordo d’un piroscafo, manco fossero gli ospiti vessati della terza classe del Titanic.

No, col cavolo: i Bergoglio (che comunque non stavano messi poi così male neanche prima) si imbarcano per l’Argentina con la ragionevole convinzione di star andando incontro al loro American Dream: nella città di Paranà, alcuni parenti di Giovanni gestivano da qualche anno un’azienda che si occupava di pavimentazioni stradali e che stava vivendo un momento di forte espansione, tanto che s’era reso necessario provvedere a nuove assunzioni… e chiedere un aiuto a casa, casomai qualche parente avesse voluto entrare a far parte dell’impresa di famiglia. E Giovanni, allettato dalle possibilità di guadagno, aveva evidentemente pensato: “perché no?”.

Purtroppo, Giovanni non possedeva la sfera di cristallo: il 1929 non era esattamente l’anno migliore per lanciarsi in progetti di impresa, e l’azienda di famiglia di non resse ai contraccolpi del crollo di Wall Street. Fallì un paio d’anni più avanti, costringendo i Bergoglio a reinventarsi una volta di più, partendo da zero o quasi: e ci riuscirono piuttosto bene, tutto sommato, pur con le prevedibili difficoltà del caso. Chissà se anche loro amavano consolarsi nei momenti di crisi ripetendosi quel versetto tanto caro ai cattolici d’oggi, per cui tutto – anche ciò che sembra una disgrazia – concorre al bene.

Del resto, i signori Bergoglio dovevano avere una certa dimestichezza col concetto: negli ultimi mesi del 1928, un altro fastidioso contrattempo era arrivato a scombinare i loro piani, suscitando in loro chissà quanta legittima irritazione. Fu papa Francesco a raccontarlo nel 2017 in un’intervista concessa al giornale di strada Scarp de’ tenis: «i miei nonni e mio papà avrebbero dovuto partire alla fine del 1928, avevano il biglietto per la nave ‘principessa Mafalda’, nave che affondò al largo delle coste del Brasile». Fu una tragedia, con trecentosessanta morti, tanto che spesso la nave viene ricordata con l’appellativo di ‘Titanic italiano’. «Ma non riuscirono a vendere in tempo quello che possedevano», continuava papa Francesco, ripercorrendo i suoi ricordi, «e così cambiarono il biglietto e si imbarcarono sulla ‘Giulio Cesare’ il 1 febbraio del 1929. Per questo sono qui».


Per approfondire:

Lucia Capuzzi, Rosa dei due mondi. Storia della nonna di papa Francesco (San Paolo, 2014) (ma una ricerca online vi segnalerà millemila altri titoli sulla storia di questa donna, giustamente diventata celebre)

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