La neonata di pietra di Sens

Colombe Chatri era incinta, e su questo non c’erano dubbi: le mestruazioni erano scomparse, l’appetito si era modificato, i seni si erano gonfiati e il ventre era ormai tondo. Insomma, la signora Chatri era chiaramente in stato di gravidanza; e, con l’aiuto di Dio, presto sarebbe diventata mamma di un bel bambino.

Verrebbe da commentare che Dio non l’aiutò un granché.

Quando, nei primi mesi del 1544, la signora Chatri entrò in travaglio, fu immediatamente chiaro alle levatrici che c’era qualcosa che non stava andando per il verso giusto. Le doglie furono fin da subito violentissime, il liquido amniotico uscì a fiotti sporcato da sangue che non avrebbe dovuto esserci e che in ogni caso non si trasformò in emorragia… e poi basta. Dopo alcune ore di contrazioni, una confusa Colombe sentì i dolori regredire e un perplessissimo team di levatrici dovette constatare che il travaglio (?) sembrava finito: il problema è che non era nato alcun bambino. E che (dettaglio ancora più sconcertante) la partoriente non dava l’idea di star morendo, come invece in quei tempi capitava inevitabilmente alle donne che, per loro disgrazia, non riuscivano a espellere il feto.

Ma in quel caso il feto non dava l’impressione d’esserci, né vivo né morto; e, poco ma sicuro, non c’era nemmeno una madre in agonia. Anzi: col passar delle ore, Colombe migliorava invece di peggiorare, come chi gradualmente riprende le forze dopo un malessere che è stato serio, ma non mortale.
Boh?
Dopo aver appurato che nessuno aveva l’aria di voler nascere o di voler morire, le perplessissime levatrici lasciarono la casa di Colombe, raccomandandole di chiamarle senza esitazione e in ogni momento, se le contrazioni avessero dovuto tornare. Ma la sconcertante verità è che le contrazioni non tornarono mai. E che (cosa ancor più assurda) Colombe non si riprese mai del tutto, restandosene sospesa in quello strano limbo in cui sembrava essere ancora incinta e non esserlo più, al tempo stesso.

Sì, Colombe non era morta di parto, e probabilmente rese a grazie a Dio mille volte, per questa grazia: ma chiaramente era successo qualcosa di molto anomalo nel ventre di quella povera donna, che pian piano perse l’appetito, gradualmente si indebolì e presto fu costretta a trascorrere a letto una grossa parte delle sue giornate, come chi ha contratto una brutta malattia. Il ventre restava gonfio, come se al suo interno continuasse a vivere un bambino mai nato… ma no, uno scenario simile risultava inconcepibile persino per le menti elastiche del XVI secolo – ché le gravidanze non possono di certo proseguire in eterno e ché tutti sapevano bene che è una sola, la fine che attende le donne che non riescono a espellere un feto morto: seguirlo presto nell’Oltretomba. E invece.

E invece, Colombe Chatri visse in quello stato per ventotto anni: non al pieno delle sue forze, ma nemmeno in uno stato di salute così degradato da giustificare interventi (peraltro, quali?) che avrebbero rischiato di far più male che bene. Solo nel 1582, quando la donna morì a sessantotto anni, suo marito Loys decise che quella loro strana avventura non poteva chiudersi così, con quel mistero insoluto. E dunque convocò Claude le Noir e Jehan Couttas, i migliori chirurghi della città di Sens, fornendo loro la curiosa anamnesi di sua moglie e mettendo la salma a loro disposizione per praticare un’autopsia. Non sorprendentemente, i chirurghi non se lo fecero dire due volte e, con un certo entusiasmo, si misero al lavoro.

Le cronache raccontano che, quando i due cominciarono l’incisione, si imbatterono subito in un ostacolo inatteso: nel basso ventre trovarono una massa dura e compatta, che al tatto ricordava la scorza di una conchiglia. Lame e coltelli non riuscivano a penetrarla; dopo vari tentativi, le Noir e Couttas dovettero ammettere a malincuore che toccava passare a strumenti meno delicati e, deposti i bisturi da chirurgo, si armarono di martelli e scalpelli da muratore. E finalmente, dopo ore e ore di lavoro in quello che ormai sembrava un tentativo di scasso più che una dissezione anatomica, quella specie di conchiglia umana cominciò a cedere.

Quel che apparve al suo interno fece ammutolire tutti i presenti. Dapprima un bagliore di superficie liscia, simile a un osso levigato; poi, una forma che prendeva contorno: una spalla, una testa, un braccio. Quando i due medici riuscirono ad aprire del tutto quella sorta di corazza, sotto i loro occhi increduli apparve un feto di sesso femminile, già ben sviluppato, completamente calcificato. Sembrava una statua di marmo. O una bambina di pietra, a seconda di come la si vuol vedere.

Jean d’Ailleboust, medico di Sens che era presente all’autopsia, ce ne lasciò una descrizione dettagliata. Le ginocchia erano piegate, con le gambe raccolte contro il petto e i piedi fusi insieme in un unico blocco. La testa era leggermente inclinata a destra, sostenuta dal braccio sinistro; il destro, invece, scendeva verso l’addome. La pelle mostrava a tratti piccoli ciuffi di peluria e il cranio, con le fontanelle traslucide, pareva traslucente e fragile – pur non essendolo, nei fatti. Dalla mandibola spuntava un unico dentino, bianco.

Era uno spettacolo che disorientava e rapiva al tempo stesso. I chirurghi non riuscirono a trattenere l’ansia di mostrare al mondo la scoperta: con ganci e leve ruppero in due il contenitore calcificato, rompendo vasi e membrane che probabilmente sarebbero stati materiale di studio preziosissimo per gli anatomisti… e rompendo anche la mano destra della neonata, che nel corso di quelle operazioni si staccò dal polso frammentandosi. Ebbe la meglio la fretta: fretta di esibire, raccontare, cercare spiegazioni. Tra medici, anatomisti e semplici curiosi, accorsero a centinaia ad ammirare lo spettacolo stupendo e raccapricciante di quella neonata morta che viveva in pietra: nessuno, però, fu in grado di avanzare una spiegazione razionale per quanto stava osservando.

Nessuno fu in grado di farlo all’epoca, intendo. Oggigiorno, la medicina moderna dispone di un termine tecnico per definire e per spiegare questo fenomeno, meno fiabesco di quanto si penserebbe: la neonata di Sens era tecnicamente un litopedio; letteralmente “bambino di pietra”. La National Library of Medicine mi spiega che quello di cui i medici di Sens avevano dato conto è un un rarissimo fenomeno che si verifica, in circostanze eccezionali, a seguito di una gravidanza extrauterina: dati alla mano, Colombe Chatri aveva lo 0,0054% di possibilità di andare incontro a tal destino. Il meccanismo è suppergiù il seguente: l’embrione si impianta in una sede che non è la cavità uterina, circostanza che ovviamente mina il buon esito della gravidanza. Il feto, dunque, muore. In condizioni normali, l’organismo cerca di espellere la massa o di riassorbirla nelle strutture circostanti; ma se il feto era già arrivato a un grado di sviluppo tale da rendere impossibili queste operazioni, il corpo materno deve adottare un piano B decisamente strong per difendersi dalla decomposizione del feto e dalle infezioni che ne conseguirebbero. Dunque, produce sali di calcio con cui ricoprire il corpicino, come a sigillarlo in una specie di guscio minerale. In soldoni: lo pietrifica, per difendersi da conseguenze che sarebbero assai peggiori.

Naturalmente, al giorno d’oggi, le ecografie e i controlli prenatali hanno reso quasi impossibile il verificarsi di casi simili a quello occorso a Colombe Chatri (se non altro perché, nella malaugurata circostanza, si interviene chirurgicamente per rimuovere la massa); ma, nel Cinquecento, le cose erano ben diverse. Ed erano ben diverse anche sul piano concettuale: ché, se la medicina moderna ci offre una spiegazione scientifica rassicurante, i contemporanei di Colombe dovevano necessariamente cavarsela con le categorie del prodigio: e così, la bambina di pietra di Sens fu rapidamente consegnata al mito.


Jean d’Ailleboust, il medico che aveva assistito all’autopsia, diede conto dei fatti in un trattato molto dettagliato, corredato da incisioni suggestive (vedi sopra) che lasciavano ben poco all’immaginazione. Inevitabilmente, la pubblicazione fece un gran clamore: e se d’Ailleboust aveva scritto in un Latino pieno di tecnicismi, rivolgendosi innanzi tutto ai suoi colleghi medici, nell’arco di pochi mesi cominciarono a circolare adattamenti in volgare che apertamente si rivolgevano ai curiosi non professionisti – insomma, agli amanti dello scoop.

Il cadaverino della bambina di pietra, richiestissimo, fu messo in vendita e si trasformò in pezzo da museo: negli anni ’90 del XVI secolo fu acquistato da Monsieur Prestesiegle, un eccentrico mercante parigino che lo espose nel suo gabinetto di curiosità. Entro la fine del secolo successivo, il reperto era entrato nella proprietà di un orafo parigino, Estienne Carteron, che nel 1628 lo rivendette a Gillebert Bodéy, proprietario di una gioielleria a Venezia. E nella città italiana, la fama del reperto crebbe ulteriormente: nel 1640, destò incredibile stupore in Thomas Bartholin, un anatomista danese che, ritornando in patria, segnalò l’esistenza di questo prodigio della natura a re Federico III di Danimarca. Proprio in quegli anni, il re di Danimarca s’era messo in testa di allestire nel suo palazzo un gabinetto di curiosità degno delle più grandi corti europee: e così, nel 1653, Federico III acquistò il reperto a peso d’oro e lo fece entrare nel museo regale di Copenaghen.

Poi, lentamente, arrivò l’oblio. Nel corso del Settecento, cominciò a scemare quella fascinazione per i “mostri di natura” che aveva caratterizzato l’immaginario della prima età moderna; e quando, nel 1826, le collezioni reali danesi furono smantellate per essere riallocate in nuove sedi, della bambina di pietra si persero le tracce. Forse il direttore del museo reale decise scientemente di sbarazzarsene, donando finalmente un eterno riposo a quella povera salma; forse il reperto finì semplicemente in polvere (scenario non impossibile, visto che nei decenni precedenti i curatori museali ne descrivevano il crescente stato di degrado, simile a quello di una pietra che si va sgretolando).

E così, della bambina di Sens non resta più nulla. Se non la memoria, l’eco della sua fama. E quelle, probabilmente, sopravviveranno a lungo, tra le pagine dei libri: perché un corpicino può anche sparire (e per il meglio), ma le Storie – quando sono buone – non si lasciano seppellire così facilmente.


Per approfondire:

  • Jan Bondeson, The earliest known case of a lithopaedion, in: Journal of the Royal Society of Medicine (89/1966)
  • Jan Bondeson, The Two-headed Boy, and Other Medical Marvels (Cornell University Press, 2004)
  • Alessandra Foscati, Le meraviglie del parto. Donare la vita tra Medioevo ed Età moderna (Einaudi, 2023)

3 risposte a "La neonata di pietra di Sens"

  1. Avatar di ac-comandante

    ac-comandante

    Non me ne ricordo più (anche perchè c’erano dei lavori e non era completamente agibile), ma forse qualcosa del genere c’è anche alla Narrenturm di Vienna, solo che si tratta di reperti veterinari: in veterinaria pare sia un caso meno raro: attenzione, non più frequente.

    Non ho provato nausee e simili ma… diciamo che mi sono trovato più a mio agio il giorno dopo alla Heizhaus di Strasshof (cercate e capirete cosa sia).

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