Là dove vive il re dei boschi: il Lešij e la sua storia

Ci sono notti, in Russia, in cui la foresta sembra respirare più forte. Non del respiro degli alberi mossi dal vento, non dello stormire delle foglie che scricchiolano e danzano: talvolta, la foresta respira di un respiro profondo, corale, come se il bosco intero fosse diventato un corpo vivo e pensante. In quelle notti – racconta il folklore – conviene starsene tappati in casa, ben lontani dagli alberi: perché il re della foresta è sceso tra i suoi sudditi, li veglia e non tollera intrusioni nei suoi domini.

Il suo nome è Lešij; e chissà, forse si compiace d’aver guadagnato recentemente una certa fama grazie a un (non brutto) romanzetto fantasy per young adults che l’ha eletto protagonista: Where the Dark Stands Still. La foresta dell’amore eterno. Ecco: casomai foste approdati qui dopo aver cercato su Google quanto ci sia di “vero” dietro al protagonista del romanzo, la risposta è “non poco” – ché il Lešij è realmente un personaggio di spicco all’interno della mitologia slava. E oggi è il momento giusto per conoscerlo un po’ di più.

A Jaroslavl’ lo descrivevano come un uomo piacente con due occhi profondissimi che brillavano di luce propria: un tratto che poteva renderlo seducente o spaventoso, a seconda dell’inclinazione di chi se lo trovava innanzi. Indossava delle strane scarpe fatte di corteccia che aderivano alla sua pelle come un secondo piede; i suoi vestiti, pur impeccabili, erano indossati “al contrario”, cioè col lembo sinistro del cappotto appuntato sopra il destro – un’eccentricità stilistica che era anche un segno di distinzione dal comune volgo, visto che in Russia la consuetudine prevedeva l’esatto opposto. Nella zona di Ulla lo immaginavano più minaccioso, ricoperto di pelo nero e con ali e coda luciferine; decisamente più empatici gli uomini di Smolensk, che solevano pensarlo con gli occhi gonfi e pieni di terrore, come se lui stesso fosse in qualche modo vittima di una maledizione che lo rendeva posseduto dal suo stesso regno: e cioè dalla natura bruta e spietata della foresta.

E chissà, forse ognuno di questi tre ritratti corrispondeva al vero, giacché c’era nel folklore un unico punto fermo circa l’aspetto fisico del Lešij: era cangiante.

Il re delle foreste poteva ingigantirsi fino alla cima degli alberi, trasformando le sue gambe in tronchi così da non essere notato dai viandanti. Poteva diventare minuscolo come un filo d’erba, tondo come un fungo, trasformarsi in un cavallo o in un corvo o – peggio ancora – assumere le sembianze di qualcun altro, quando voleva trarre in trappola le sue vittime illudendole di star seguendo fin dentro al bosco la propria amata in difficoltà, il proprio marito disperso anni prima, il proprio figliolo piccolo. Sì, perché il Lešij amava fare proprio questo con i viandanti che avevano la sventura di incrociare il suo cammino: quando s’avvedeva che un umano si era intrufolato all’interno dei suoi domini (intruso, dunque, in un regno vegetale che avrebbe dovuto essere riservato agli animali del bosco), il re delle foreste decideva di divertirsi un po’, a discapito di quel bifolco che gli era entrato in casa senza suonare il campanello. Confondeva le strade, cambiava il corso dei sentieri costringendo il viandante a un giro senza fine che lo portava sempre alla stessa radura; lo stordiva con risate improvvise, schiocchi di mani, nenie incantate che conducevano al sonno. Aveva il vezzo di uccidere i malcapitati soffocandoli di risate mentre faceva loro il solletico (ellamiseria); più spesso, imitava voci amate, producendosi in strazianti grida di aiuto che conducevano la vittima inconsapevole dritta dentro un burrone.

C’era modo di proteggersi da questo re insidioso? Sì: per esempio, prima d’addentrarsi nel bosco era opportuno sostare per qualche istante al limitare della foresta piegando il capo in una preghiera devota, nel senso più pagano del termine – una supplica al nume tutelare del luogo, per invocare la sua protezione durante il viaggio. Altri escamotage prevedevano di far ricorso all’oscenità (il Lešij, evidentemente galantuomo, si sentiva a disagio di fronte a uomini che si comportavano in modo più animalesco degli animali); c’era anche chi, prima d’addentrarsi nella foresta, invertiva le scarpe (indossando la destra al piede sinistro) e indossava i vestiti al contrario (ché, per combattere un essere che vive di inversioni, non farà male porsi al suo stesso livello).

E poi, beh: c’erano giorni specifici del calendario in cui, semplicemente, la brava gente sapeva di doversene stare al largo. Uno di questi era la festa di san Giovanni, il 24 giugno, giorno in cui si credeva che la foresta vivesse in uno stato di particolare fermento e di eccitazione incontrollata, smaniando per l’estate che stava per arrivare al culmine. C’era da star cauti anche il 23 aprile, giorno in cui tradizionalmente il bestiame veniva fatto uscire dalle stalle per essere portato al pascolo, e per la prima volta si trovava dunque esposto agli attacchi dei predatori. I feroci lupi aspettavano con ansia quella data, che per gli animali del bosco equivaleva probabilmente a un invito a festa: e allora anche il Lešij si manifestava con tutta la sua potenza, pronto a banchettare al fianco dei suoi sudditi. E infine, anche il 4 ottobre era una data critica: nella fredda Russia, si riteneva che fosse quello il giorno in cui gli animali andavano in letargo e la natura si preparava per il suo lungo sonno. E nessuno vuole dar fastidio a un’entità selvaggia e imprevedibile proprio mentre lei si sta infilando il pigiama, stanca per il lungo lavoro, pregustando il sonno.

Non sempre, però, il contatto col Lešij era ostile. Nelle regioni settentrionali della Russia, dove v’era la consuetudine di far pascolare il bestiame nella foresta, i mandriani cercavano addirittura la sua protezione, stringendo una sorta di “patto col diavolo” che non aveva nulla da invidiare a quello che, nell’Europa occidentale, le streghe stringevano con Satana per ottenere da lui i loro poteri. In Russia i pastori si liberavano dei crocifissi che portavano al collo e offrivano al Lešij il pane consacrato per ottenere da lui protezione sul loro gregge: pare la fotocopia esatta di quanto viene descritto in diversi processi per stregoneria celebrati in Francia a carico di pastori (maschi). (Per inciso, ne parlo approfonditamente nel mio libro sulla caccia alle streghe: di tanto in tanto, un promemoria non fa male).

Il Lešij poteva dunque scendere a patti con chi si comprava il suo favore con l’abiura; ma in altri casi poteva porre qualcuno sotto la sua ala protettrice anche senza essere interpellato. Capitava spesso, per esempio, che prendesse con sé le fanciulle incaute che si erano avventurate da sole nel bosco, usandole come cameriere e talvolta come mogli. E per quanto non sia mai piacevole essere rapite da un mostro assassino, la convivenza – come spesso capita nelle migliori fiabe – si rivelava poi meno tragica del previsto, secondo le testimonianze di quelle donne che, di tanto in tanto, ottenevano di poter tornare indietro. Capitava di vederle alle porte del villaggio dopo anni, se non decenni, dalla loro scomparsa: ancora nel fiore della giovinezza, come se per loro non fossero trascorsi che pochi giorni di prigionia; confuse, nel realizzare che i loro mariti erano ormai morti e che i loro figlioletti stavano per diventare nonni. Spesso portavano con sé un bagaglio d’esperienze e di conoscenze che le aveva trasformate in fattucchiere temibili e preziose, come se il Lešij avesse trasmesso loro la sua arte e i suoi segreti; più spesso, ahiloro, tornavano indietro segnate da una follia che le aveva cambiate per sempre. Incapaci di integrarsi in un mondo – quello umano – che non riuscivano più a sentire come loro, si riducevano a vivere ai margini della società, con sguardo spiritato e anima squassata da esperienze che nessuno mai sarebbe stato in grado di capire. Talvolta decidevano di ritornare nei boschi che ormai consideravano la loro vera casa; talora capitava che, dopo la cattività, queste donne riuscissero a rifarsi una vita, tornando a essere mogli e madri, ma spesso e volentieri cedevano alla tentazione di mantenere una relazione parallela col loro amante dei boschi, dalla cui rete non erano mai davvero scappate. O da cui non volevano davvero scappare.

E questa storia probabilmente potrebbe anche chiudersi qui, ché mi trovo sempre abbastanza fredda di fronte all’ostinazione di chi pretende di trivellare nel folklore alla ricerca di un appiglio con cui spiegare su base razionale la genesi di certi personaggi o di certi miti. Talvolta le leggende nascono punto e basta, perché l’uomo ha bisogno di dare un corpo alle sue paure o di convincersi d’avere un modo per sconfiggerle: e, in quest’ottica, che i boschi siano infestati da presenze minacciose e imprevedibili mi sembra anche cosa abbastanza inevitabile. Ma sono comunque suggestive le osservazioni, non banali, fatte dall’antropologo Felix Oinas, che analizzando la figura del Lešij si è soffermato su due tratti che l’hanno colpito in particolar modo.

Il primo è che, in molte zone della Russia, il Lešij è popolarmente chiamato con l’appellativo di kornoukhii, “colui che è privo di orecchie”. Certo: per un mostro che ha i piedi di corteccia ed è in grado di cambiare aspetto a suo piacimento, la mancanza delle orecchie potrebbe essere un’aberrazione fisica come tante – un ennesimo tratto volto a sottolineare la sua totale alterità rispetto al genere umano. Vero è però che, per secoli, la legge russa prevedeva che i ladri fossero menomati mediante l’amputazione di un orecchio, in modo tale che gli onesti cittadini sapessero di non dover aver a che fare con quella gentaglia: è possibile, dunque, che la figura del Lešij sia almeno in parte l’incarnazione di quelle bande criminali alla Robin Hood che vivevano nei boschi per profittare dei viandanti che si trovavano costretti ad avventurarsi in quelle zone non sorvegliate?

Chi lo sa. Magari sì. E Felix Oinas fa notare un altro tratto che l’ha colpito: cioè che nella zona della Carelia (al confine con la Finlandia, dunque ottima per l’espatrio dall’immensa Russia) il folklore vuole che il Lešij indossi una divisa militare. Senz’altro un tratto opportunamente perturbante per un’entità che è quanto di più lontano potremmo immaginare dal rigore dell’esercito; ma forse anche un richiamo a quei soldati fuggitivi che, dopo aver disertato, cercavano rifugio nelle foreste tentando di far perdere le loro tracce e trovandosi a vivere d’espedienti finché le acque non si fossero calmate, o finché non fossero giunti al confine.

Difficile dirlo. Sono solo supposizioni. Ma, se così fosse, potremmo dire – sotto un certo punto di vista – che, a suo modo, il Lešij esiste davvero.


Per approfondire: Linda J. Ivanits, Russian Folk Belief (Routledge, 1989)

2 risposte a "Là dove vive il re dei boschi: il Lešij e la sua storia"

  1. Avatar di ac-comandante

    ac-comandante

    A tradizione paurosa se ne va a sovrapporre un’altra, forse ancora più paurosa.

    Quella del demone in uniforme mi ha subito fatto pensare ad Arcipelago Gulag e Una giornata di Ivan Denisovič

    Sì, molte “isole” dell’Arcipelago Gulag si trovavano nella Taiga, erano i famosi “campi del legname”, forse fra i più duri (Solženicyn disse più volte di essere stato fortunato, quando ci è finito lui i campi esistevano già* e fu inviato in altri tipi di campo di lavoro). Se già giravano storie su demoni paurosi in quelle aree, l’uso che ne fu fatto deve aver generato una sorta di sincretismo.

    *in diverse testimonianze (mi pare anche ne Il dottor Živago) anche anteriori a Solženicyn, si riferisce che agli inizi e all’epoca delle “grandi purghe”, ogni invio di prigonieri significava la costruzione di un nuovo campo. Ad opera dei prigionieri stessi, ovviamente.

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  2. Avatar di Claudia Semproni

    Claudia Semproni

    L’idea di un’entità che ti inganna con la voce di una persona conosciuta è un topos molto diffuso o è presente solo in questa leggenda e nelle moderne creepypasta? 🤔

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