Quando, mesi fa, per ragioni di lavoro, m’è capitato di spulciare un bel po’ di documentazione relativa al terremoto della Marsica, certamente non immaginavo che di lì a poco tempo avrei riutilizzato questo materiale per un post di “attualità”.
Quando, sugli ingialliti giornali d’epoca, leggevo testimonianze relative a vescovi affranti che di notte, nel gelo, in mezzo alle rovine, si aggiravano tra le macerie per prestare conforto ai terremotati, certamente non credevo che, di lì a poco, i telegiornali d’oggi mi avrebbero restituito testimonianze di tenore simile.
Mi spiace non aver trovato altre immagini di monsignor Bagnoli, vescovo dei Marsi all’epoca della strage, se non questa fotografia sbiadita, pubblicata su un giornale che se n’è viste di cotte e di crude, in questi ultimi cent’anni.
Però, a ben vedere, forse è vero che questa fotografia ha un suo certo pathos. Arriva a noi direttamente dall’epoca dei fatti; vibra di sentimento più di qualsiasi HD che avrei potuto trovare in rete.
Sarebbe esagerato dire che “dopo la scossa di terremoto, ad Avezzano non rimase in piedi un singolo un singolo edificio”. Sarebbe esagerato, perché un singolo edificio in effetti resistette: era, ironicamente, l’abitazione di un fabbricante di cemento, e se andate ad Avezzano la trovate ancora lì. Vicino al portone è stata apposta una targa commemorativa: “unica casa rimasta in piedi dopo il terremoto del 13 gennaio 1915”.
Per il resto, assoluta distruzione. Nell’arco di pochi secondi, la cittadina abruzzese di Avezzano perse 10.700 dei suoi 13.000 abitanti (!), cifra alla quale andrebbero aggiunti, in un macabro calcolo, tutti i feriti che morirono nei giorni successivi.
Complessivamente, il terremoto della Marsica causò un totale di 30.500 vittime (!), e nel dire questi numeri continuiamo a non tenere conto dei sopravvissuti che però morirono a distanza di tempo, per effetto delle ferite. Bastò un’unica scossa, distruttiva, di magnitudo 11 della scala Mercalli (!), che fu avvertita distintamente dalla Pianura Padana alla Basilicata.
Era il gennaio del 1915. L’Europa era in guerra (l’Italia non ancora, ma già aveva i suoi grattacapi per la testa); Internet, ovviamente, non esisteva ancora, né tantomeno i telefoni cellulari. La totale distruzione di interi paesi (ivi compresi i loro uffici del telefono) provocò un inevitabile ritardo dei soccorsi: al Governo era ben chiaro che qualcosa di terribile doveva essere successo da qualche parte, ma capire come e dove… beh: era tutto un altro discorso. La scossa arrivò poco prima delle otto del mattino; solo nella tarda serata – a dodici ore di distanza dal sisma – il governo riuscì a individuare con precisione quali dovevano esser state le aree più colpite. Farci arrivare i soccorsi, poi, fu ancora un altro problema: raggiungere quei comuni montani della Marsica abruzzese voleva dire avventurarsi su su per stradine ripide e tortuose, che sarebbero state disagevoli già di per sé, anche senza un terremoto disastroso a causare smottamenti e frane.
I primi aiuti arrivarono sul posto dopo quasi ventiquattr’ore dalla scossa: nel frattempo, i (pochi) superstiti erano stati costretti a dormire all’addiaccio, nel gelo di gennaio, senza cibo, senza soccorso medico, e senza alcun tipo di conforto logistico.
Ciliegina sulla torta, quella notte nevicava pure.
Non che il governo non si sia dato da fare! Una volta partita la macchina dei soccorsi, gli ingranaggi funzionarono anche decentemente.
Il problema è che c’erano proprio delle difficoltà logistiche: immaginate voi un terremoto così tanto distruttivo che colpisce tante piccole città di montagna, isolata l’una dall’altro e difficilmente raggiungibili, negli anni ’10 del ‘900 – e oltretutto in pieno inverno.
Non esistevano più ospedali, non esistevano più gli uffici anagrafe, non esistevano più locali in cui conservare beni di prima necessità per proteggerli dalle intemperie… niente: non esisteva più niente. Non esistevano nemmeno più le strade per portare ai superstiti tutto quello che mancava.
Il nulla.
E forse non è nemmeno da lodare più di tanto, quel povero vescovo che, a poche ore dal sisma, già si aggirava a piedi sulle macerie cercando di prestare aiuto ai superstiti.
Voglio dire: è stato in gamba, ok, ma è anche vero che forse era l’unico in grado di far qualcosa.
Che sia stato lui a coordinare i soccorsi, sotto un certo punto di vista, è anche ovvio: era l’unico “pezzo grosso” a conoscere realmente la zona.
Che sia stato lui a mettere in piedi una rete in grado di fornire alle autorità un elenco delle vittime, dei superstiti e dei dispersi, è, sotto un certo punto di vista, altrettanto ovvio: essendo distrutti gli uffici anagrafe, informazioni preziosissime poterono arrivare dai parroci, che conoscevano bene – casa per casa – tutte le famiglie che avevano in cura d’anime.
Che siano stati i sacerdoti marsicani a fornire un sostegno psicologico d’emergenza alle famiglie distrutte dal trauma, è, sotto certi punti di vista, altrettanto ovvio e naturale. E, in tal senso, il vescovo fece davvero cose grandi: ai nostri giorni potrebbe sembrare piuttosto strano, un vescovo che, in mezzo a quell’ecatombe, si affanna per mettersi in contatto con la Santa Sede e chiedere (tra le altre cose) la spedizione di rosari per i superstiti, breviari per i sacerdoti, e abiti talari nuovi per renderli immediatamente riconoscibili tra la folla.
Strano, sciocco, superfluo forse… O forse no.
Eppure: sapete quale fu uno dei più grandi meriti del vescovo Bagnoli, nel gestire il post-terremoto?
La lotta per evitare delle New Town in stile aquilano.
I giornali dell’epoca la raccontano così, e io così ve la riporto fedelmente. A distanza di qualche settimana dal terremoto, quando i superstiti erano già stati fatti oggetto di attenzioni e cure mediche, monsignor Bagnoli si recò un giorno a Roma per visitare i feriti che erano stati ricoverati nei vari ospedali della città. Con l’occasione, ne approfittò per amministrare la Cresima a un gruppetto di orfani che, nei mesi precedenti al sisma, si stavano preparando per il sacramento.
Ci fu la Messa, che si svolse con molta solennità e commozione popolare; e, dopo la Messa, furono presentate a monsignor Bagnoli un gruppetto di ragazzine smunte e intimidite, che avevano animato la celebrazione cantando in un coro di voci bianche. Al vescovo marsicano fu spiegato – quasi con un certo orgoglio, come se fosse una bella cosa! – che quelle ragazzine erano le orfane del terremoto di Messina. Persi i genitori nel 1908, erano state trasferite a Roma e lì dimoravano ancora, sotto le cure di generosi benefattori.
Lode ai benefattori che avevano tolto quelle bambine dalla strada, per carità. Fra l’altro, uno dei più agghiaccianti aspetti del terremoto della Marsica – roba che, la prima volta che l’ho letta, ho faticato a crederci – era stata una vera e propria tratta delle schiave che aveva coinvolto alcune ragazzine, piccolissime!, rimaste orfane dopo il terremoto. Loschi figuri arrivati poco tempo dopo il sisma promettevano alle ragazze un buon posto da cameriera in case signorili del Meridione, con possibilità di carriera… ma dietro alle apparenze, si celava ben altro. Anche in questo caso, i giornali d’epoca attribuiscono al nostro vescovo il merito di aver denunciato la scandalosa situazione, ottenendo dalle autorità un divieto a che si allontanassero dalle zone del sisma tutte le ragazze dai 12 ai 16 anni (salvo, ovviamente, valide ragioni).
Insomma: lode ai benefattori che nella Messina del 1908 avevano raccolto dalla strada queste bambine e le avevano portate al sicuro a Roma… però, alla vista di queste povere ragazze, che a distanza di otto anni ancora vivevano accampate in una qualche opera pia romana, il vescovo dei Marsi si sentì stringere lo stomaco.
Non voleva e non poteva permettere che ai suoi fedeli capitasse la stessa cosa: non poteva cioè accettare che le popolazioni marsicane, già lacerate dal lutto, dallo shock e dalla distruzione, dovessero provare l’ulteriore strazio di doversi allontanare a forza dalle loro terre, per più non ritornare.
Riecheggiando uno slogan che l’aveva fatto da padrone durante il terremoto del 1908 (“la Calabria ai Calabresi!”), monsignor Bagnoli si fece promotore di una corrente che gridava a gran voce “la Marsica ai Marsi!”.
I giornali d’epoca ne fecero una vera e propria campagna di opinione: perché mai questi poveretti dovrebbero essere costretti ad andarsene (come suggerivano esplicitamente le autorità) se invece hanno desiderio di restare? E inoltre: che ne sarà di questi paesi, se mandiamo via le uniche persone che avrebbero interesse a rimettere in piedi ‘sto macello? Facciamo morire la Marsica intera?
Last but not least: come possiamo sperare che i soccorsi riescano nella loro opera di rimuovere le macerie e di dare degna sepoltura ai morti, se mandiamo via le uniche persone che, conoscendo queste delicate zone di montagna, sono in grado di dare aiuto a soldati volenterosi, ma provenienti da tutt’altre zone? Come argomentava Il Popolo Marso nel numero 4 dell’anno 1915, tra i sopravvissuti si contavano, peraltro, “molti vecchi robusti, salvi dal terremoto perché nel mattino fatale già desti erano nelle campagne!”: pure a questi montanari volenterosi, che non desideravano altro che rimboccarsi le maniche, il governo doveva dire “no grazie, non siete utili”?
Proprio no, non ha senso: il vescovo si mobilita, e con lui si mobilita l’intera opinione pubblica. Ciò che non era stato fatto nel terremoto del 1908 (se non in singole città più “fortunate”) fu invece fatto nella Marsica del 1915, grazie alle fatiche del nostro indefesso vescovo. Numerosi patronati, soprattutto di area cattolica, si attivano per fondare ricoveri, asili e orfanotrofi che operino direttamente sul territorio. Non era una cosa così facile e così scontata (soprattutto – ripeto – in paesini di montagna, in cui non restava in piedi nessun edificio a cui appoggiarsi): eppure, i benefattori si attivano con entusiasmo, permettendo ai terremotati di rimanere in loco.
Con l’unica eccezione degli orfani piccolissimi, che vengono trasferiti altrove per meglio ricevere adeguate cure, tutti i superstiti e tutti gli orfani trovano un modo di rimanere ancorati alle loro radici. La Gioventù Cattolica Italiana costruisce, ed anima a sue spese, un asilo per i bambini più grandicelli rimasti orfani; l’Unione Donne Cattoliche appronta una sala di lavoro per signore, in cui le superstiti potranno radunarsi, stare al caldo, e ricominciare a guadagnarsi il pane quotidiano. Gli uomini e i ragazzi sono ospitati in ricoveri d’emergenza in attesa di impiegarli, in primavera, col lavoro nei campi, che necessitano di essere arati e coltivati. E in moltissimi paesi, il governo comincia a costruire “casette asismiche”, cioè piccoli prefabbricati costruiti con tecniche teoricamente antisismiche, in cui i terremotati potessero immediatamente trovare un riparo e un luogo caldo in cui dormire. Ma non a chilometri dalla casa di una volta: lì, a due passi, il più vicino possibile a quella vita che era stata strappata loro.
Spiace dire “siamo in Italia”, epperò è pur vero che ci siamo: tutto quello che ho raccontato è molto bello, ma, come in ogni cosa, ci sono luci e ombre. Non in tutte le località colpite fu possibile permettere agli abitanti di restare vicino al centro abitato (qui, l’INVG ripercorre i vari eventi). Non tutte le imprese incaricate della ricostruzione si comportarono in modo onesto, e anzi sono noti alcuni casi di speculazione sulle spalle dei terremotati. Non tutto quanto andò come dovette andare, tant’è vero che a me non sembra molto normale che ci sia gente che ancor oggi, in Abruzzo, vive nelle casette asismiche concepite come soluzione d’emergenza a seguito di un terremoto avvenuto cent’anni fa.
Però, è pur vero che erano anche altri tempi: e tutto questo, nel 1915, secondo me è un piccolo miracolo, calcolando soprattutto il modo in cui erano state trattate, nel 1908, alcune zone del Sud Italia, che avevano avuto l’unica sventura di essere meno “popolari” di Messina.
Non è stato tutto rose e fiori, ma è pur sempre stato un inizio importante.
Chapeau per quanto fatto, vescovo del passato (e buona fortuna per quanto che c’è da fare, vescovo di oggi)!