Fino a pochi anni fa, non c’era evento ecclesiale (dalla Giornata missionaria alla festa parrochiale) a contorno del quale non fosse previsto un banchetto del commercio equo e solidale.
E porca la miseria, ragazzi, quant’è vero.
Quando, circa una quindicina d’anni fa, ha aperto vicino alla chiesa un negozietto della filiera del commercio equo e solidale, la gente lo considerava “il negozio della parrocchia”. I volontari che prestavano servizio provenivano tutti dal Gruppo Giovani parrocchiale, e di tanto in tanto il sacerdote lo annunciava proprio dall’ambone: “per chi volesse, dal negozio qui di fronte mi segnalano che sono arrivate delle nuove sciarpine confezionate da ragazze thailandesi strappate al racket della prostituzione”.
Non era per davvero “il negozio della parrocchia”, ovviamente. Però la parrocchia era ben lieta di pubblicizzarlo, sapendo che la merce messa in vendita aiutava a far del bene nelle regioni più povere del mondo.
E poi, non so bene cosa sia successo. Durante il quinquennio in cui io studiavo fuori sede, questa comunione di amorosi sensi dev’essersi pian piano affievolita. Adesso, “il negozio della parrocchia” non esiste più. S’è spostato di qualche isolato, è sempre pieno di clienti (nessuno dei quali però mi sembra un volto noto della Messa) e qualche settimana fa, per una sua ricerca statistica, mi ha fatto compilare un questionario in cui mi si chiedeva di indicare l’identità di genere cui sentivo di appartenere. Coi tempi che corrono, un segno abbastanza evidente del fatto neppure la gestione ha particolare interesse a corteggiare una clientela composta da cattolici-hardcore.
Dite che è un caso isolato?
Secondo me, no. Quando mi sono sposata, nel non lontano 2016, non ho avuto neppure un dubbio su dove comprare confetti e bomboniere. Nei negozi del commercio equo e solidale, naturalmente! Era da un po’ che non mi capitava di partecipare a dei matrimoni, ma è noto che se sei cattolico fai quello, no? Ti sposi in chiesa e poi prendi i confetti di Altromercato, no?
Ecco, no, direi di no, a giudicare dalle espressioni piacevolmente stupite degli amici cui via via distribuivo i miei confetti. “Oh ma che bellissima idea, ma come ti è venuta in mente?”.
Ma come, “come”? Non è quello che fanno tutti?
Ehm, evidentemente no. Lo facevan tutti una decina di anni fa (almeno nella mia cerchia di parenti, conoscenti, amici e collaboratori parrocchiali), ma è come se adesso questo circolo virtuoso si fosse interrotto.
E badate bene, non lo dico nell’ottica di dire “io sì e voi no, ahahah, sono meglio io”, ci mancherebbe. Lo dico proprio in un’ottica di studio sociologico, perché evidentemente qualcosa (di brutto) è successo, mentre io ero distratta e guardavo altrove.

Scatto rubato al mio profilo Instagram, ove peraltro sono lanciatissima. Mi trovate lì come @pennaspuntata e vi invito a seguirmi, se siete iscritti, anche perché ormai aggiorno il profilo con molta più frequenza di quanto io non faccia col blog (sigh sob)
Pochi giorni fa mi sono sentita veramente molto compresa, leggendo lo speciale Finanza più equa, sogno e realtà? apparso sul numero di settembre della rivista Jesus. La frase con cui ho esordito in apertura di questo post era l’incipit di un editoriale a firma di Gerolamo Fazzini, che – fatte le mie considerazioni – vorrei riportare con maggior dettaglio:
Fino a pochi anni fa, non c’era evento ecclesiale (dalla Giornata missionaria alla festa parrocchiale) a contorno del quale non fosse previsto un banchetto del commercio equo e solidale. Fino a pochi anni fa, andava di moda avere il conto su Banca etica e discettare di finanza alternativa. Un concetto-slogan quale “consumo critico”, nel recente passato, ha conosciuto una notevole diffusione. […] Con l’avvento della crisi del 2008, però, lo scenario è drasticamente cambiato. […] Il consumo critico e i Gruppi di acquisto solidale (GAS) esistono ancora, certo, ma è come se fosse calato un velo di oblio. In una parola: quella “nuova economia” che in tanti hanno cominciato a sognare (e a mettere in atto, a piccoli passi) ad altri, purtroppo, è sembrata inesorabilmente perdente sotto l’urto della crisi.
La rivista Jesus – editoriale a parte – struttura il suo inserto speciale con un’intervista a più mani a vari economisti cattolici. Leonardo Becchetti, ordinario di economia a Tor Vergata e, tra le altre cose, collaboratore di Avvenire, tornando su questo tema osserva:
A dieci anni dalla crisi, riscontro paradossalmente una risposta etica più intelligente e consapevole nelle élite piuttosto che nei cittadini. E questo mi sorprendente molto. I grandi fondi hanno capito che l’irresponsabilità ambientale e sociale rischia di diventare un fattore di rischio
(…ma mica peraltro, aggiungo io. Ricordate quando, dopo il crollo del Ponte Morandi, le non integerrime policy aziendali di Benetton (azienda di vestiti) hanno dato origine a una campagna denigratoria in rete che Benetton (gruppo imprenditoriale) di certo sarebbe stata lieta di poter evitare? Ecco: se non altro per evitare casi come questi. Oggigiorno le notizie corrono veloci in rete, e la gente si indigna fin troppo facilmente)
e oggi in borsa le aziende che hanno una reputazione ambientale più bassa valgono meno di quelle che hanno una reputazione ambientale più alta, a parità di dimensioni.
Poco più avanti nello stesso inserto, suor Alessandra Smerilli, docente al Master di Economia civile e non-profit dell’università Bicocca, sottolinea che addirittura i grandi colossi come Black Rock e Vanguard Group stanno iniziano a investire nei settori del sostenibile.
Solo che, ai consumatori, non gliene può importar di meno; anzi, nove su dieci lo considerano un interesse di posa per radical chic.
Fazzini, nel suo editoriale, attribuisce questo crescente disinteresse “dal basso” a una mera questione economica: i prodotti fairtrade, in media, costano più dei prodotti “normali”, dunque il consumatore impoverito dalla crisi vorrebbe ma non può acquistare in modo equo.
Senza offesa per Fazzini, ma io non ci credo manco un po’. Tanto per cominciare, i prodotti faitrade hanno sì un prezzo più alto rispetto a quelli “da supermercato”, ma siamo nell’ordine di poche decine di centesimi. Non dico che l’Italiano medio sia nelle condizioni di poterci fare la spesa settimanale, ma togliersi lo sfizio ogni tanto, oppure dire “toh, il prodotto X d’ora in poi lo compro solo faitrade”… beh, dai, quello sì. Mediamente, lo si potrebbe fare; mediamente, lo fanno in pochi.
Anzi, nei confronti del commercio equo e solidale c’è un sentimento di acredine che sale dal basso e che onestamente mi lascia basita – e per capire cosa intendo, vi invito a leggere i commenti presenti su Facebook sotto al lancio di questo libro Piemme sul tema della moda etica o sotto a questa pubblicità per illustrare il marchio di certificazione Fair Trade.
Non è che la gente, poverina, vorrebbe ma non può. È che non vuole proprio!
Tornando alle parole di Becchetti intervistato su Jesus,
oggi il vero problema è che ci siamo persi il popolo. Il dopo-crisi ha innescato una reazione arrabbiata, populista, che però ha una sua ragione. I costi della crisi sono stati scaricati soprattutto sui più deboli, con l’aumento del debito, la riduzione del welfare, l’incremento delle disuguaglianze. Di conseguenza, c’è un sentimento di rivolta contro le élite, che qualcuno ha buon gioco a strumentalizzare.
Sicché, quando un uomo ti mette di fronte una confezione di banane che sono state prodotte dando la giusta remunerazione ai coltivatori dell’America Latina, tu rispondi che non ne vuoi manco sentir parlare per principio, perché in Italia gli allevatori sardi non hanno agevolazioni dal governo e ciò fa schifo. Sullo schifo concordo con te, ma che stiamo a fare, la guerra tra i poveri? Ma che davvero?
Eppure, conclude l’editoriale di Jesus, questo è un nonsenso, un pericoloso paradosso.
Poiché è vero proprio il contrario: quando l’economia e la finanza predatorie mostrano il loro vero molto, […] è tempo di una nuova iniezione di idealità nel pensiero e nei comportamenti […], partendo dalla base.
Se non lo facessimo, vorrebbe dire che dalla crisi del 2008 non abbiamo imparato niente.
***
Che per caso vi state chiedendo qual è il fine ultimo di questo sconclusionato post sui generis? Vi capisco, eh.
Diciamo che i fini ultimi sono ben due:
- Scrivere qualcosa senza scrivere niente, aka “fare copiaincolla di roba d’altri e spacciarlo per un post tuo”, visto che una maggiore attività intellettuale non è alla tua portata dopo due settimane in cui in casa ci si rimpalla a vicenda un’influenza di inizio stagione che se è solo un preludio di quella invernale… estote parati;
- Offrire al mercato dell’equo e solidale uno spottone (ovviamente) non richiesto, per informarvi che proprio oggi prendono il via, in centinaia di supermercati italiani, le Settimane Fair Trade. Dal 13 al 28 ottobre, in duecento punti vendita a marchio Bigstore, Carrefour, Coop e Mercatò, potete trovare una selezione di prodotti a marchio fair trade, a prezzo ribassato. Per tutte le informazioni sull’iniziativa: https://promo.fairtrade.it/cambiailmondo/
Se siete tra chi non ha l’abitudine di comprare equo e solidale, o se (a maggior ragione!) siete quelli che l’abitudine vorrebbero avercela ma devono fare letteralmente i conti con il loro budget… beh, che ne dite? Questa potrebbe essere un’occasione per provare! No?
Luca
Ciao Lucia, ho letto con interesse il tuo scritto qui, e mi sono sentito chiamato ad esprimere un parere, visto il mio passato di volontario in una delle Botteghe del Mondo di Roma. Quando la BdM fu aperta era il 1995;era il momento in cui nell’aria si cominciava a parlare di questo nuovo commercio, e dell’abbattimento del rapporto produttore/intermediario. Lodevole, senza dubbio. All’apertura di questa BdM eravamo tutti volontari, di cui alcuni si conoscevano; altri, invece, approdarono in quella realtà tramite terzi. In breve, si formò un clima fraterno, in cui tutti ci davamo una mano a regolare le cose interne: dalla disposizione sugli scaffali, al carico/scarico delle merci e così via.
Qualche anno fa la BdM si è trasferita, consorziandosi con AltroMercato; da quel momento non c’è più stato quell’affiatamento, e quella voglia di mettersi in gioco; forse perché un ragazzo ha deciso di fare quello come lavoro, ed allora il ruolo dei volontari è pian piano scomparso.
Ti ho raccontato questo per dirti che anche io ho sentito qualcosa nell’aria cambiare; a contribuire in questo, è stata il calo netto della clientela: mentre prima c’era un cliente dietro l’altro più o meno in tutti i momenti dell’anno, ora si contano sulla punta delle dita le persone che la visitano.
Infine, voglio chiederti una cosa: sai se e dove è possibile leggere la rivista Jesus? Mi hai incuriosito…
Grazie,
Luca
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Lucia
Parto dalla fine 🙂
Io, Jesus lo trovo sempre nelle librerie Paoline o San Paolo (che però per me sono comode da raggiungere nei miei giri di commissioni, ma mi rendo conto che non è così scontato per tutti.
Sennò se vai sul sito https://www.jesusonline.it/ puoi sfogliare una anteprima degli ultimi numeri ed eventualmente comprare la versione digitale (anche se a quanto pare non è possibile comprare un numero singolo ma bisogna per forza sottoscrivere un abbonamento >.>)
Per quanto mi riguarda, non sono una lettrice fissa in realtà, ma curioso sempre tra le varie riviste cattoliche del mese quando passo dalle librerie, e se c’è un articolo che mi interessa me le compro. Questo era uno dei casi in questione 🙂
Per la tua esperienza da volontario nelle Botteghe del Mondo… wow! Questo sì che è interessante :-O
Peraltro, all’epoca del mio matrimonio e delle bomboniere equo-solidali, io mi trovavo proprio a Roma, e, in prima battuta, di fronte allo stupore generalizzato di tutti i Romani a cui distribuivo i miei confetti Altromercato, avevo pure pensato “beh dai, si vede che a Roma è pieno di enti caritativi che fanno di questi servizi, non conoscono Altromercato perché magari si perde nel mare magnum della Città Santa”.
E invece no, oh, non lo conoscevano proprio >.>
Ma quindi secondo te questo cambiamento è stato causato in parte dal consorzio con Altromercato (come è successo a tantissime altre botteghe del mondo)?
Un po’, ci ho avevo anche pensato anch’io. A me, da cliente, Altromercato piace, ma mi domando se magari ci sia qualcosa nella sua strategia di marketing, nella sua comunicazione, che ha finito con l’alienare un certo tipo di clientela e con l’attirarne dell’altra, molto diversa. Magari anche più disposta a spendere, boh?
Anche la questione volontari/dipendenti è molto interessante, però non so se possa spiegare questo graduale alienarsi delle simpatie nella classe media.
Del resto, non mi risulta che i prezzi siano saliti in modo significativo, la qualità di certi prodotti secondo me è migliore adesso rispetto a dieci anni fa, il packaging anche lo trovo migliorato…
E quindi, ‘sti clienti che prima vi riempivano i negozi e adesso son spariti, che fine hanno fatto? :-\
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Luca
Buongiorno Lucia! 🙂
Grazie del link, appena ho un attimo ci faccio un salto (compatibilmente con il tempo che voglio dedicare allo studio… vorrei dare l’esame di Dottrina Sociale della Chiesa all’Angelicum… 😉
Detto ciò, in merito al commercio equo, non ho idea se questo cambiamento si è sentito in tutte le BdM consorziate AltroMercato; però posso dirti che per come mi ricordo io, c’è stata proprio la moria della clientela e (penso) anche del volontariato.
Buona giornata! 🙂
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sircliges
La mia ipotesi è che il mercato equo e solidale goda di cattiva fama perché agli occhi di molta gente (la mitica classe media impoverita dalla crisi) sembra una roba radical chic da centro sociale, il classico “roba da ricchi che giocano a fare i comunisti”.
Non sto dicendo che sia davvero così. Dico che questa è la percezione che può arrivare nella testa di molti.
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Lucia
Grazie eh, l’ho detto io per prima all’inizio del post… 😛
(Lettori, non è che son diventata maleducata così di punto in bianco: Sircliges è mio marito, quindi lo sfottò non conta u_u)
Comunque, ripeto, una volta non era così. Almeno non nel mio ambiente, non nel mio quartiere, non nella mia parrocchia (e stiamo comunque parlando di ambienti normalissimi con gente normalissima). Però, davvero, non era percepita come una roba da radical chic: era percepita come una scelta etica e buona, alla pari del comprare i biglietti di auguri di Natale dell’Unicef, per capirci.
Ora, io non lo so perché l’Unicef continui (che io sappia) a ricevere donazioni e sostegno morale, mentre invece il faitrade riceve, da parte di molti, questa magra considerazione. Magari è anche una questione di marketing fatto male o di campagne di comunicazione errate eh, non lo so. Però è chiaro che c’è qualcosa che non funziona.
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mariluf
Grazie, Lucia
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alegenoa
Personalmente non ho vissuto in maniera “obiettiva” la transizione perché me ne ero già allontanato.
Avevo assaggiato la quinoa penso almeno 10 anni prima dell’inizio della sua diffusione modaiola fuori dal sudamerica (sai quando le botteghe solidali vendevano soprattutto cioccolato e caffé ma devono aver detto “mettiamo in negozio qualcosa per i più curiosi, fa assortimento ma ne venderemo pochissimo”? Ecco). Ora che ci penso sarà stato tra i 25 e i 30 anni fa… Erano proprio agli esordi.
Poi lessi questo articolo, poteva essere il 2004 o al massimo 2005:
http://www.weirdrepublic.com/episode41.htm
In qualche modo dava una risposta circostanziata a certe mie sensazioni non ancora chiaramente espresse.
Anche se alcune certificazioni specifiche potrebbero essere molto utili, il commercio equo e solidale è, ritengo, al limite dell’immoralità.
Non credo che nel sentire della gente abbia pesato qualche scandaletto che pure c’è stato. Anche senza capire di mercati (anzi, sempre più sottoscrivendo teorie economiche folli) la gente ha iniziato a vedere con diffidenza queste realtà. C’è un livello di sfiducia massimo in chi fa cose “no profit”.
Per cui, concludendo, non conosco le dinamiche di questa evoluzione, concordo con Claudio, ma dico che il sottostante è anche peggio di quel che si è detto.
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sircliges
Ho letto la storiella ma non ne ho capito il senso…
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alegenoa
Quale storiella?
Se ti riferisci all’articolo “molto americano” di Thomas Clough che ho linkato, il senso è ben chiaro: è un business dal nostro lato Primo Mondo il prodotto equo e solidale, con ricarichi che vanno solo marginalmente sui “beneficati”; questi ultimi sono una minoranza -scelta non si sa bene come- che ottiene una garanzia di ricevere un pagamento per un lavoro svolto, al prezzo di entrare in cooperative politicizzate, ma questo non ha relazione nè con la qualità del lavoro svolto, né con l’opportunità di produrre ciò che producono. Si crea un sistema di incentivi perversi che fa fossilizzare su produzioni inefficienti e di scarsa qualità, creando una dipendenza ineliminabile, e se prendesse piede potrebbe solo creare maggiori distorsioni al mercato (se rimane di dimensioni trascurabili assurdo disperdere lì le energie migliori di chi vuole impegnarsi per fare il bene).
Se il prezzo del caffè è troppo basso convinci le persone a fare altro, non a continuare a produrre sempre più caffè, di scarsa qualità e con margini di guadagno ridotti, possibilità di crescere e migliorare inesistenti, pur attraverso un sistema di prezzi calmierati.
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laralaforestachecresce
Ciao Lucia, molto interessante la tua osservazione sul commercio equo.
Vorrei condividere alcuni punti su cui ragionare
1) bottega vs ipermercato: la prima nella maggioranza dei i prezzi più alti perchè non può fare economia di scala
2) fair trade vs tradizionale: la mia percezione è che il delta di prezzo non sia nell’ordine di pochi centesimi, ma ben più alto. es il caffè fair trade primo prezzo costa a confezione 3.65 dalle mie parti, circa 16€/kg. Un banalissimo lavazza ne costa mi pare sui 12€/kg, un Illy ne costa 18€/kg.
3) il potere di acquisto: partendo dall’esempio sopra, chi compra illy ha un potere di acquisto maggiore rispetto a chi compra lavazza, quindi è in genere benestante. Da cui l’associazione all’aspetto “radical chic”
4)Il volontariato: un conto è fare il mercatino di natale 5 giorni, un conto è tenere in piedi una attività commerciale 365g l’anno. Non è la stessa cosa. Il volontariato non può che essere a termine. La professionalità è importante in tutti i settori,
5) Non esiste solo altromercato come importatore di fairtrade in italia (ravinala, vagamondi, altraqualità….) ma sicuramente è quello che tiene maggiormente le fila del settore e che guida credo anche molto egregiamente le attività delle botteghe.
Quello che hai vissuto tu è stata l’epoca d’oro, un fasto del passato. Come gli anni 80 per gli yuppies.
Sui quei valori credo che serva costruire una nuova epoca. Non sarà un commercio rivolto a tutti, ma a coloro che sono interessati, come del resto non è rivoto a me il commercio delle louis vuitton.
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Lidia
ciao Lucia! Io non conoscevo questo aspetto del commercio equo e solidale, sinceramente l’avevo visto solo nella sezione del PD sotto casa mia a Roma, mai in parrocchia. Io cerco di comprare fair trade al supermercato (caffè, cacao, ecc.) anche se a volte la borsa prevale sull’etica 😦
Forse in Italia c’è anche una diffusa contrapposizione dei “cattolici tradizionalisti” (un ampio spettro, da quelli che Papa Francesco l’ha eletto la mafia di San Gallo a quelli solo leggermente pro-Salvini) contro tutto ciò che sappia di “sinistra” e “preti alla don Gallo”. Tutto fra virgolette – solo per esemplificare.
Grazie mille di avermi ricordato da dove viene l’afflato per il fair trade.
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