Ecco perché indossare jeans sdruciti è un’idea molto infelice anche sotto un piano etico

Il mio primo incontro con i jeans strappati è stato così d’impatto che me lo ricordo ancora. Avrò avuto quattro o cinque anni, stavo andando dalla pediatra, quand’ecco di fronte a me – mirabile visu – due giovanotti che andavano in giro con dei jeans strappati e scoloriti, ginocchia a bella vista. Faceva pure un freddo cane.
Questa visione mi ha turbata nel profondo. Io – nel mio caldo cappottino rosa – non mi ero mai imbattuta, prima di quel momento, con una miseria così totale e vistosa. Cavoli, ero di fronte a dei poveri cenciosi come ne vedevo ogni tanto nei cartoni della Disney!
“Ehm, no, Lucia”, ha spiegato mia mamma, dopo che io avevo ventilato (parrebbe, anche ad alta voce) di dare qualche elemosina a quegli infelici giovini. “Non sono poveri, è che va di moda. Adesso vanno di moda i jeans strappati sulle ginocchia. Per bellezza”.

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Ecco, anche questa foto di Chiara Ferragni mi era rimasta impressa. Cioè, io… boh.

Sembra una barzelletta creata ad arte e invece è storia vera, rimasta scolpita in modo indelebile nella memoria familiare.
Eppure, ragazzi, lo stupore di quella bimba è lo stupore che mi prende ancora adesso tutte le volte che vedo gente spendere fior di quattrini per comprarsi un capo d’abbigliamento che viene fatto a pezzi già nella fabbrica, al solo scopo di metterlo in commercio totalmente rovinato (!).

Naturalmente è una questione di gusti, per carità: ci sarà chi, legittimamente, ama questo stile, e manco morto andrebbe in giro coi vestitini anni ’50 che mi metto io.  Però, forte della mia personale antipatia per i jeans strappati, colgo l’occasione per proporre un approfondimento che potrebbe forse indurvi a voler selezionare con più attenzione i negozi in cui andate a fare shopping quando siete in vena di jeans vissuti.

L’assist perfetto me lo ha dato, stamane, la Duchessa del Sussex, che, impegnata in un royal tour in Oceania, ha deciso di indossare un paio di jeans firmati Outland Denim, un brand australiano molto impegnato nel campo dell’eco-sostenibilità. Se seguite qualche altro blogger attivo nel settore, saprete che oggi tutto il web della moda etica è in fermento per questa cosa.

E sul perché la scelta di un capo eco-sostenibile abbia una così grande importanza soprattutto se parliamo di jeans, ecco che parte lo spiegone non richiesto su un (brutto) pezzo di Storia della Moda che magari non conoscevate.

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Intanto, guardate che bellini i jeans di Meghan

È grossomodo, attorno alla metà degli anni ’80, che comincia a prendere piede la moda del jeans sdrucito. Scolorito ad arte, stazzonato, spesso strappato in scena dai cantanti dei gruppi punk, il jeans sdrucito veniva indossato come simbolo di ribellione all’establishment borghese. Fast forward una decina d’anni, e la mania del jeans vissuto è dilagata a un punto tale che non esiste singola casa di moda che non ne abbia almeno uno nelle sue collezioni. Per soddisfare la crescente richiesta, le aziende manifatturiere si ingegnano per trovare una tecnica produttiva che consenta loro, nel minor tempo e con la minor spesa possibile, di invecchiare artificialmente il tessuto denim. Perché, naturalmente, i jeans sdruciti non nascono così per volontà divina: serve proprio una specifica lavorazione per invecchiare ad arte quello che, in partenza, è un normalissimo paio di pantaloni, dal colore uniforme e dalla stoffa perfettamente intonsa.

Con grande gioia del settore manifatturiero, una tecnica rapida ed economica viene individuata in poco tempo: si chiama “sabbiatura”. In pratica, consiste nello sparare sui jeans, ad altissima pressione, della sabbiolina che esce fuori da un compressore. La sabbia “gratta” sulla stoffa jeans invecchiandola precocemente, e provocando quegli assottigliamenti e quelle scoloriture che ci piacciono tanto.
Sulla carta, un’eccellentissima soluzione, che permette di produrre in poco tempo e con poca fatica pantaloni il cui design, fino a pochi anni prima, richiedeva procedure ben più costose. Felici tutti, dunque, se non per un piccolo dettaglio…
…e cioè che i lavoratori addetti alla sabbiatura cominciano a morire in massa tra sofferenze atroci.

Muoiono di una brutta malattia chiamata “silicosi”: la causa un’esposizione prolungata nel tempo al biossido di silicio, una sostanza che – guarda un po’ – viene rilasciata nell’aria durante il processo di sabbiatura.
La malattia è nota da tempo: già nei secoli passati si era osservato che i lavoratori che avevano a che fare con materiali sabbiosi tendevano a mostrare problemi respiratori che si aggravavano, via via, negli anni. Mastri vetrai, minatori, vasai, tagliatori di pietre… tutti quanti, prima o poi, cominciavano ad avere problemi.
La cosa allarmante è che, nel settore moda, i lavoratori addetti alla sabbiatura contraggono la malattia in una maniera così acuta che alcuni di loro muoiono dopo pochi mesi (!!) dal loro primo giorno di lavoro. Tale è tanta, infatti, è la concentrazione di biossido di silicio che si disperde nell’ambiente a seguito di questa lavorazione.

Nel 1996, dopo un’accurata indagine disposta a seguito di tutta ‘sta moria, l’Organizzazione Mondiale della Sanità stabilisce che il biossido di silicio, se inalato, è effettivamente da considerarsi un potente cancerogeno per l’organismo umano. Da che – penserebbe una persona dotata di un minimo di ragionevolezza – l’industria del settore fashion, inorridita alla scoperta, rinuncia immediatamente a lavorare i jeans mediante sabbiatura: no??
Ehm, no.

Avida e piena di sé come manco Ebenezer Scrooge, l’industria del settore continua tranquillamente per la sua strada, ché tanto quando ci muore un operaio dov’è il problema? ricambio ce n’è.
Semmai, sono i singoli Stati a legiferare per tutelarsi. Nel 2009, a fronte della morte accertata per silicosi di settantaquattro operai nell’arco di poco tempo, la Turchia vieta per legge il ricorso al processo di sabbiatura nelle industrie che hanno sede sul suo territorio nazionale. Un provvedimento in virtù del quale centinaia di lavoratori turchi impiegati nel settore si salvano la vita e contemporaneamente finiscono sul lastrico – nel senso che le aziende della moda reagiscono togliendo gli appalti ai loro concessionari turchi e spostando la produzione dei jeans in quei Paesi in cui non vige un analogo divieto.

Capite come mai mi infiammo tanto quando si parla di scelte etiche nell’abbigliamento? Ecco, per storie come questa. Io non ce la faccio proprio a sentirmi a posto con la coscienza se penso di star alimentando un settore così crudele per quello che tutto sommato è solo un mio capriccio di stile: voglio i jeans vissuti perché vanno di moda, e li voglio pure a basso costo perché, per questo vezzo, non son manco disposta a pagare il giusto.
E tutto questo per un paio di jeans?
No, è un pensiero con cui personalmente non riesco a convivere.

Tornando sul tema “sabbiatura”, la coraggiosa mossa della Turchia ha spronato alcuni movimenti a lanciare, nel 2010, la campagna di sensibilizzazione Killer Jeans, in cui si invocava a gran voce una presa di posizione netta da parte delle case di moda. Le prime a reagire sono state Levi Strauss e H&M, annunciando la loro intenzione di abbandonare quanto prima i processi di invecchiamento mediante sabbiatura (ché questa lavorazione non è l’unico modo per raggiungere il risultato desiderato. Ne esistono moltissime altre, sicure per la salute, che sono però decisamente più costose).
Nei mesi a venire, lo stesso impegno è stato preso da altri big come Armani, Benetton, Burberry, C&A, Esprit, Gucci, Mango, New Look, Pepe Jeans e Versace, per citare i marchi più famosi. Il che è molto bello, se non fosse che, all’atto pratico, alcune indagini svolte negli anni successivi da fonti indipendenti hanno portato a scoprire che, nelle fabbriche del Terzo Mondo cui questi grandi marchi avevano appaltato la produzione, il processo di sabbiatura continuava ad essere usato eccome.

Cinicamente, vien da dire che è molto facile dichiarare ai giornalisti “ah sì sì, noi queste brutte cose non le facciamo più”, se poi non vai a controllare che il tuo fornitore sia sulla stessa linea. Per il fornitore, d’altro canto, è cinicamente più conveniente continuare, in segreto, a ricorrere a questo tipo di lavorazione, più economica e veloce rispetto alle altre che pure esitono: riduce i tempi di produzione e massimizza i guadagni.
E per non dare sempre la colpa alle grandi aziende, aggiungerò anche che – ovviamente – non è facile per un CEO controllare cosa succede effettivamente dall’altra parte del mondo nelle millemila fabbriche cui ha appaltato la produzione. Occorrerebbe un monitoraggio attento, sì – ma oggettivamente, non è facile.

Probabilmente, il problema si potrebbe risolvere in modo efficace una volta per tutte solamente se si agisse su tre livelli, come suggeriscono le varie associazioni che si interessano di questi temi.

Livello numero uno: i governi locali. Se tutti avessero il coraggio di vietare per legge pratiche dannose per la salute dei lavoratori, i lavoratori locali ringrazierebbero. (O magari no, se il risultato finale è perdere il lavoro e trovarsi a mendicare ai lati della strada. Aehm).

Livello numero due: gli organismi internazionali. Ché fa sempre un po’ specie quando un organo delle Nazioni Unite dice “ok sì, questa cosa è effettivamente causa di morte” ma poi nessuno fa niente di concreto per fermare la morìa. Nella Comunità Europea, ad esempio, esistono delle normative ben precise per praticare la sabbiatura in totale sicurezza (ad esempio, attraverso macchinari che impediscano agli operai di respirare l’aria inquinata). Per altre nazioni, invece, non esiste niente di tutto questo.

Livello numero tre: le singole case di moda. Che potrebbero di tanto in tanto fare controlli a sorpresa, essere più rigorose con i fornitori scoperti a barare. Dirò di più: potrebbero persino domandarsi se le scadenze ristrettissime e i pagamenti risicati imposti fornitori siano davvero compatibili con i divieti fatti a parole, o se non “costringano” invece i fornitori a sotterfugi non dichiarati. Ma dirò di più ancora: potrebbero persino (e sarebbe davvero una cosa molto banale) provare a cambiare essi stessi lo status quo… semplicemente, riducendo il numero di jeans sdruciti presenti nelle loro collezioni, e lanciando una nuova moda. Ché qui davvero si tratta solo di mode – per loro natura passeggere… se davvero le si vuol far passare.

Quanto a noi consumatori… beh, non sarà il nostro gesto a cambiare il mondo, ma anche una piccola goccia ha il suo ruolo nel formare il mare. E quindi: potremmo domandarci se davvero val la pena di alimentare questo mercato solo per l’ennesimo paio di jeans low cost. Potremmo anche risponderci che, sì, ‘sto paio di jeans scoloriti lo vogliamo proprio, ma almeno lo compriamo da quei marchi che hanno preso un impegno netto contro le lavorazioni pericolose (sperando che poi sia vero). Potremmo persino, se ne abbiamo la disponibilità, decidere di fare una buona azione e di investire in jeans italianissimi fatti col cuore. Qui vi linko una e un’altra azienda che hanno fatto della sostenibilità la loro ragion d’essere. Personalmente non amo i jeans e non ho mai provato i loro prodotti, quindi non posso farvi una recensione sulla qualità… però, adesso non siete curiosi di provare?

13 risposte a "Ecco perché indossare jeans sdruciti è un’idea molto infelice anche sotto un piano etico"

  1. mariluf

    Magari comprarli normali, e spazzolarli da nuovi con una spazzola ruvida e sale grosso,poi lasciarli una notte a bagno nell’aceto… suggerisco cosìa caso, ma io sperimeterei….(se f0ossi interessata)

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    1. Lucia

      O, ancor più drasticamente, metterli a mollo nella candeggina per un po’. O spennellarli con la candeggina nei punti che si desidera schiarire, toh. Mia mamma mi raccontava che negli anni ’70, quando cominciava ad andare la moda ma non era facilissimo trovare in commercio certi tipi di vestiti, le ragazze si facevano i jeans scoloriti e/o i tessuti batik mettendo a mollo i vestiti in strani miscugli da Piccolo Chimico nella vasca di casa, spesso con risultati poco esaltanti 😛

      Però insomma, con la candeggina dovrebbe funzionare!

      Certo che, con quel che costa ormai un paio di jeans al mercato, chi te lo fa fare di spendere soldi e tempo fatica per il fai-da-te?

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  2. Laurie

    Non avevo idea di cosa succede dietro questa moda!! Grazie per l’articolo, interessante come sempre.
    Moda che ho anch’io sempre trovato di dubbio gusto e mi sono sempre chiesta perché la gente compri questi jeans a un preso folle quando sarebbe più conveniente comprarli interi e poi tagliuzzarseli… XD
    Comunque è veramente tremendo scoprire cosa c’è dietro alle cose!!
    E pensare che in ben altre epoche si sono smesse alcune produzioni perché uccidevano gli operai: parlo dei cristalli russi (ma forse non solo russi, non lo so) verde germoglio che provocavano la morte degli operai perché il colore era ottenuto dall’ossido di uranio (mi pare l’ossido, comunque da qualcosa d’uranio!) e di una tecnica (di cui non ricordo il nome) di lavorazione per fare disegni d’oro nel metallo (facendo dei lavori artisticamente meravigliosi: ho visto i portali di una chiesa in Russia) in cui l’oro veniva fuso con il mercurio e i vapori facevano morire gli operai. E tutto questo in epoche dove il diritto del lavoro non era propriamente sviluppato!!!

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  3. claudia

    Per me l’amore per i jeans trappati è un mistero. Ho incontrato una ragazza che indossava un paio di jeans letteralmente a brandelli e la prima cosa che ho pensato è che fosse stata aggredita da una muta di cani inferociti. L’articolo è bellissimo, penso che faremo prima a cambiare la moda che la legislazione o l’economia.

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  4. Sandra

    Articolo interessante. Non ero a conoscenza che un trattamento sul denim potesse far male a persone o comunque sia poco sostenibile per l’ambiente…. A quanto pare per produrre questi “pantaloni” si usano grandi quantità di acqua…. Riguardo poi alla moda di indossare jeans lacerati e sdruciti ormai non conosce più limiti alla decenza.. L altro giorno una signora attempata andava in giro con un jeans chiaro strappatissimo… Un infinita’ di squarci e tagli dalle cosce fin sotto le ginocchia… Una volgarità

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  5. nihilalieno

    Penso che se uno intende indossare jeans sdruciti per protestare contro la società borghese e consumista, dovrebbe come minimo indossare lo stesso paio di jeans finchè non è sdrucito, no?

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  10. Paola

    Io i jeans strappati non li capisco proprio tant’è che quando mi si buca un paio li faccio rattoppare a mia mamma (ormai espertissima!). Da fanatica dei jeans li butto solo quando sono completamente distrutti e tutte le loro scoloriture sono originali opere del tempo e degli sfregamenti dovuti all’uso. Sapevo del problema della produzione, ma speravo avessero già rimediato. Purtroppo stare dietro alla moda etica è molto impegnativo e spesso anche costoso

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