Avete presente la povera Rosmunda, che fu costretta a bere vino da una coppa ricavata dal cranio del suo stesso padre?
Ecco: se questo episodio è così celebre da esser entrato nel linguaggio comune, va detto che la povera Rosmunda non è certamente l’unica dama medievale ad essere andata incontro a questa triste sorte. Anzi: il tema della dama costretta a mangiare il corpo dei suoi cari è così ricorrente in certa letteratura da diventare un vero e proprio topos letterario, come ben ci spiega Angelica Montanari nel suo libro Il fiero pasto, un saggio interessante tanto quanto creepy dedicato allo studio delle Antropofagie medievali.
E allora esaminiamone qualcuna, di queste antropofagie. Esaminiamo anzi quella che io trovo la più creepy in assoluto: l’antropofagia come atto d’ammmore. Perché chi è che non troverebbe romantico mangiare il cadavere del proprio innamorato?!
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“Io preferirei che il mio innamorato restasse in vita”, mi dite? “E tutt’al più gradirei fare altre cose col suo corpo”, aggiungerete se non avete pudore?
Eh: il problema è che in genere il topos letterario entra in scena quando la dama in questione ha già esperito una conoscenza fin troppo approfondita del corpo vivo del suo innamorato. Il quale, va detto, non avrebbe alcun diritto di amarla, giacché la dama è rigorosamente sposata. Quando il marito scopre il fattaccio, ecco la gelosia accecarlo: infuriato, ordina ai suoi sgherri di uccidere il terzo incomodo e, come atto di vendetta estrema, costringe la moglie a mangiarne le carni.
A quanto scrive la Montanari, la prima attestazione di questo topos letterario si ha in un rapido inciso contenuto nel Roman de Tristan di Tommaso d’Inghilterra (ca. 1175). A un certo punto della vicenda, vediamo la triste Isotta canticchiare tra sé e sé i versi che raccontano la storia di un certo Guiriun: scoperto amante di una donna sposata, egli fu ucciso dal marito di lei; il suo corpo smembrato fu cucinato e poi dato in pasto alla donna sconvolta.
Quando Tommaso d’Inghilterra raccontava la macabra storia, era ancora un bambino piccolo il trovatore che avrebbe reso universalmente noto il topos letterario. Sto parlando di Guglielmo di Casteban, poeta e cavaliere spagnolo, che morì nel 1212 e presumibilmente sul campo di battaglia, lottando per la Reconquista della patria. Guglielmo era un poeta famoso: verrebbe da dire che per l’epoca era un VIP e i suoi carmi d’amore erano noti ovunque, facendo infiammare il cuore di chissà quante dame. Non sorprende che, poco dopo la sua morte, abbiano cominciato a circolare fantasiose biografie che raccontavano le sue gesta… e che (questo sì, soprendentemente!) descrivevano la sua morte in termini assai curiosi.
Evidentemente, agli uomini dell’epoca, piaceva l’idea che il poeta del loro cuore morisse così come era vissuto: e cioè, vittima di passioni turbinanti. Attorno alla figura di Guglielmo di Casteban fiorì conseguentemente una curiosa leggenda: il trovatore sarebbe stato l’amante della moglie di Raimondo di Rossiglione, potente signore locale (che fra l’altro esisteva davvero, poraccio). Scoperta la relazione adulterina, Raimondo avrebbe ordinato ai suoi sgherri l’omicidio di Guglielmo. Ma non solo: recuperato il cadavere, ne avrebbe estirpato il cuore e poi avrebbe dato ordine ai suoi cuochi di cucinarlo e servirlo alla moglie, ancora ignara del dramma consumatosi. Sarebbe stato proprio Raimondo a rivelare alla sposa la provenienza delle carni, una volta ultimato il banchetto: a quel punto, sconvolta per quanto scoperto, la donna avrebbe scelto il suicidio, gettandosi da una finestra del palazzo.
“Dei morti non si parla mai male”, come vuole l’antico adagio, sicché risulta veramente strano a noi moderni pensare che qualcuno possa aver voluto elogiare la memoria del povero Guglielmo appioppandogli leggende strane che lo vogliono fedifrago, traditore, morto male e financo arrostito. Eppure, nel Medioevo la gente era pazza ragionava diversamente e la storia piacque un sacco, dando il via a un moltiplicarsi di varianti e testimoni che, per tutto il corso del secolo XIII, spuntano or qua or là nella letteratura italiana, tedesca, francese e provenzale.
Come non citare, ad esempio, la nona novella della quarta giornata del Decamerone, che racconta la rabbia di un certo Guglielmo, che non solo scopre d’esser tradito dalla moglie, ma addirittura scopre che d’esser tradito col suo migliore amico. Infuriato, il marito fa uccidere l’amico poco fidato, ne fa cucinare il cuore e lo serve alla moglie, anche in quel caso rivelandole solo a fine pasto “l’ingrediente segreto” della cena appena gustata. Seguirà istantanea la morte della donna, di crepacuore.
Davvero numerose sono le attestazioni di questo topos letterario, che col passar delle decadi diventa così popolare da prestarsi anche a reinterpretazioni di vario tipo. Ad esempio, assai godibile è la rilettura ironica proposta dal Lai d’Ingaure: un noto tombeur de femme viene ammazzato, ma quando arriva il momento di estrarre il cuore dal cadavere ci si trova in un certo imbarazzo perché salta fuori che c’è almeno una dozzina di cornuti che se lo contendono, ognuno di loro intenzionato a farlo mangiare alla propria moglie.
Molto più nobile e angelicata è la storia raccontata dal Roman du Câthelain de Coucy et de la dame de Fayel, risalente alla fine del XII secolo (e poi rispolverata da Donizzetti nella sua opera Gabriella di Vergy).
In questo caso, vi è sì un tradimento (ché la dama di Fayel e il castellano di Coucy ardono vicendevolmente di tenero amore), ma non è perfettamente chiaro se e fino a che punto questo amore adulterino sia mai passato ai fatti. Certamente, non è infamante la morte del castellano di Coucy, il quale viene ferito in battaglia combattendo da eroe contro al nemico e, essendo ormai in agonia, strappa una promessa al suo scudiero: una volta sopraggiunta la morte, egli dovrà asportare dal suo petto il cuore e farlo consegnare alla dama di Fayel, perché sia per lei ricordo dell’amore eterno che li ha uniti. Lo scudiero ubbidisce ma, disgraziatamente, non è la dama di Fayel a ricevere personalmente il macabro dono. Il pacco viene consegnato al marito di lei, che lo apre, si prende un colpo e giustamente inizia a farsi qualche domanda, ché la gente normale di solito non manda in giro proprie parti anatomiche alle signore, se non c’è sotto qualcosa di tenero. Fatto due più due, anche il signore di Fayel opta per la strada gastronomica facendo cucinare per la moglie il cuore dell’amante: anche in questo caso, di fronte all’orrore della scoperta, la dama muore sul colpo, uccisa dallo shock.
Deriva chiaramente da quest’ultima storia una rielaborazione tarda che ci viene offerta, attorno al 1630, dal vescovo francese Jean-Pierre Camus. In una delle sue novelle, si canta l’amore di Crisele e Menmon, due giovani teneramente innamorati ma, ahiloro, separati dagli eventi: Crisele, per volontà dei genitori, va infatti sposa a un ricco signore. Menmon parte per la guerra e viene ferito a morte; in agonia, scrive un’ultima lettera a Crisele e invia il suo cuore alla sua propria famiglia. Venuta a sapere della morte di Menmon, la pur casta Crisele è così inconsolabile da far montare su tutte le furie il vecchio marito, che si sente tradito anche solo moralmente. Ecco dunque il marito recuperare il cuore di Menmon ed ecco dunque questo cuore (…peraltro ormai stantio!) venir cucinato e dato in pasto a Crisele. Anche in questo caso, orripilata, l’innocente giovane muore pressoché sul colpo.
E va detto che la morte di lei è un tema ricorrente in tutte queste storie, come fa notare Angelica Montanari. Se l’amante muore, anche la moglie deve morire, o per suicidio o per crepacuore.
A prima vista, verrebbe da pensare che la sorte della donna sia segnata perché l’autore sente la necessità morale di punire anche il personaggio femminile: non può esistere happy ending, per una fedifraga. In realtà, scorrendo le pagine con maggior attenzione, si nota invece che la morte della dama sembra voler suscitare l’emozione esattamente opposta. Vale a dire: la sorte di lei è già scritta… perché l’autore vuole nobilitarla. Insomma, vuole rendere chiaro al lettore che, sì, il tradimento esisteva, ma non era solamente una storiella di passione: la dama amava il suo amante di amore vero, tale da farle preferir la morte come alternativa a una vita senza di lui.
Ma non solo! Come sottolinea ancora la Montanari, solo il sacrificio della dama può compiere il miracolo e nobilitare la fine dell’amato, andato incontro di per sé a una delle morti più infamanti che si possano immaginare: assassinato e poi cotto e mangiato, cioè ridotto alla stregua di un animale.
Paradossalmente, è proprio l’amore della dama a ribaltare la situazione, nobilitando la fine indegna. Come dice a suo marito l’amante di Guglielmo di Cabestan pochi istanti prima di togliersi la vita: “mio signore, mi avete dato un cibo così buono che mai più ne mangerò dell’altro”. Dopodiché, s’uccide.
Il corpo del cavaliere, custodito nelle viscere della donna che l’ha sempre amato, sarà risparmiato dalla profanazione estrema grazie al sacrificio di lei. Vale a dire: non verrà digerito, non seguirà il corso di qualsiasi altro alimento; anzi, resterà per sempre custodito in lei, lei che s’è improvvisamente trasformata in scrigno prezioso ed eterno sepolcro per quel corpo che così teneramente ha amato.
Davvero i due amanti saranno, da quel momento in poi, due in una sola carne e per sempre, in un ultimo sfregio alla vendetta del marito, che vince e vincendo viene sconfitto.
“T’amo così tanto che vorrei mangiare il tuo cadavere e poi togliermi la vita”.
Una dichiarazione d’amore un po’ contorta, ma a quanto pare piaceva a quei pazzi medievali. Chissà se la scriveranno mai in un bacio Perugina.
ilnoire
…solo perché non avevano i reality. Mica come noi! 😀
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