In un’Europa dilaniata dalle guerre di religione, ebbe una risonanza facilmente immaginabile la notizia per cui regina di Svezia aveva deciso di rinunciare a tutto ciò che aveva (compreso il regno!) per convertirsi al Cattolicesimo.
Figlia di uno dei più vivaci difensori del Protestantesimo nella guerra dei trent’anni, Cristina sedeva già sul trono svedese quando andò incontro a una grave crisi di fede che la portò a un atto di abiura. Nel 1654, non prima d’essersi garantita per legge una cospicua rendita, abdicò in favore di suo cugino Carlo Gustavo, lasciò il suo regno, sostò per qualche tempo nei Paesi Bassi e poi si mosse verso l’Italia, dove il papa aspettava ansiosamente di poter abbracciare quella pecorella tornata all’ovile.
Nel corso del suo viaggio verso Roma, Cristina fece tappa in varie città europee, accolta ovunque con grandi onori. Ai fini della nostra storia, sappiate che il 27 novembre 1655 si trovava a Mantova, ospite del duca Carlo II di Gonzaga-Nevers.
Va da sé che se un duca si trova ad ospitare una (ex-)regina, oltretutto divenuta paladina del Cattolicesimo, sarà bene accoglierla con tutti i fasti del caso. E così, Carlo II organizzò per Cristina un banchetto di gran lusso, la cui gestione viene affidata alle sapienti cure di Bartolomeo Stefani, il capocuoco dei Gonzaga.
“Io stesso la servii ne’ trionfi, rifreddi e in altre portate” ci terrà a sottolineare il cuoco alcuni anni più tardi, dando alle stampe un trattato dedicato a L’Arte di Ben Cucinare. Il banchetto organizzato per Cristina di Svezia è citato dal cuoco al fine di illustrare ai suoi lettori il modo corretto di gestire un pranzo di livello. Per i più curiosi, citerò solamente alcuni dei piatti forti del menù, di per sé articolatissimo: in quel 27 novembre 1655, Cristina mangiò – tre le altre cose – zuppa di piccioni, pasticcio di fagiano, arrosti di selvaggina, torte di marzapane, frutti canditi, vellutate di verdura, formaggi e confetture (…sì, in questo preciso ordine).
Ma la cosa veramente interessante del menù è, per così dire, l’antipasto: l’entrata in scena. Ovverosia, la primissima portata che Bartolomeo (proprio lui in persona!) consegnò a una stupefatta Cristina. E cioè, “un innocente piattino di fragole”, per citare le parole sornione del capocuoco. Per la precisione: fragole intinte nel vino bianco, servite con zucchero spolverato, impiattate in una cornice di conchiglie di zucchero a loro volta riempite di fragole, e inframmezzate da uccellini di marzapane “che dal loro moto sembra[va]no voler beccare dette fraghe”.
Qualcuno potrebbe dire a questo punto “embeh?”. O anche: “ma ti pare il caso che sia una notizia tale da scriverci sopra un articolo?”.
E io risponderei: beh, in effetti sì. Perché, se prestiamo attenzione al calendario, ci renderemo conto che non era niente affatto normale mangiare fragole al 27 novembre 1655, immersi nel brumoso inverno mantovano. Quello che il nostro capocuoco definiva un “innocente piattino di fragole” tutto aveva in sé tranne che l’innocenza: era una provocazione, un guanto di sfida. La gente di metà Seicento sapeva perfettamente in quale stagione si raccolgono le fragole; dunque le era perfettamente chiaro quanto lavoro dovesse esistere dietro a un menù che portava in tavola frutta fuori stagione. Alla faccia dell’innocenza: con una entrata in scena di quel tenore, Bartolomeo aveva già vinto la sua sfida! Aveva sconvolto tutti i commensali, non si sarebbe parlato d’altro per giorni interi: quel banchetto sarebbe passato alla Storia! (E infatti…).
Come cavolo fece il buon Bartolomeo a procurarsi fragole nell’inverno mantovano di metà Seicento? Purtroppo non ce lo spiega – anche se, più avanti nel libro, ci informa di non essere affatto nuovo a questi giochetti. Scrive infatti: “io ordino alcune cose, come per esempio sparaggi, carchioffi, piselli, ne’ mesi di Genaro, e Febraro, e cose simili, che a prima vista paiono contro stagione”.
A prima vista. È questa la chiave di tutto: anche perché, secondo Bartolomeo, questa ingenuità può affacciarsi unicamente alle menti dei poveri (poveretti loro) o di quegli aristocratici eccessivamente conservatori. Quelli “a chi troppo piace il pane della Città natìa” e dunque rifiutano di sperimentare sapori nuovi: quelli che oggi non troveremmo nei ristoranti di nouvelle cuisine, viene da dire.
Al contrario, Bartolomeo ben sa che chi sa apprezzare queste finezze, e “ha valorosi destrieri, e buona borsa, in ogni stagione troverà tutte quelle cose, che io loro propongo, e ne’ medesimi tempi, che io ne parlo”. Era questa, secondo il capocuoco, la sostanziale differenza tra la tavola della gente dappoco e la tavola della gente raffinata, quella cioè che è disposta a spendere pur di mangiare come si deve.
Oggigiorno, la gente danarosa che vuol mangiare come si deve inorridirebbe al pensiero di un ristorante che serve fragole in pieno novembre. Il gusto moderno tende semmai a preferire una offerta a chilometro zero, all’insegna dello slow food. Ma queste selettività, con ogni evidenza, è un lusso che possiamo permetterci solamente perché forti del nostro benessere. Nei secoli passati, una cucina che non segue il ritmo delle stagioni e che offre la stessa frutta in ogni periodo dell’anno era invece un miraggio, una preghiera, un’ambizione.
Era, in fin dei conti, il sogno del paese di Cuccagna.
Era anche – di tanto in tanto – la vera tavola di un gran signore.
[Aneddoto tratto da I racconti della tavola di Massimo Montanari, pieno di altre storielle curiose di questo genere]
klaudjia
Che articolo carino! Ma come avrà fatto…
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Lucia
Le magie che fanno le borse disposte a spendere e i cavalli molto veloci, a quanto parrebbe… 😛
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Murasaki Shikibu
Serre?
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Lucia
Massimo Montanari, che è esperto di Storia della cucina, dice che in effetti a quell’altezza cronologica le prime serre cominciavano ad esistere, sì. Ma pare che la via più “rapida” e facilmente attuabile fosse quella di far arrivare i cibi da lontano, o comunque da zone con clima più mite: es. tanti frutti che sarebbero stati fuori stagione nelle regioni del Nord venivano fatti arrivare al galoppo dal Sud Italia, dove il clima era più mite.
(Evidentemente non è il caso delle fragole, che non crescono a novembre nemmeno in meridione, ma per altri tipi di frutta e verdura si faceva).
Del resto sembra alludere a questa spiegazione anche il cuoco Bartolomeo laddove parla di buoni cavalli e borse disposte a spendere. Al di là del caso specifico delle fragole, di cui nessuno conosce la provenienza (e che magari erano davvero state coltivate in serra da qualche parte), l’importazione di cibo da paesi più caldi era probabilmente una pratica relativamente “comune” per i banchetti dell’epoca.
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Tigre da Laptop
“Montava”? Magari “Mantova” piuttosto, anche se con le fragole la panna ci sta bene.
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Lucia
LOL! Grazie, e dire che ho anche il marito che mi fa da correttore di bozze cercandomi i refusi nei post! 😛 Quello è sfuggito pure a lui!
In effetti però la panna montata sulle fragole ha un perché, probabilmente era un lapsus 😛
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