La torta pasqualina, fragrante allegoria della Resurrezione

Papa Pio V doveva gustarlo di frequente, a giudicare dalla frequenza con cui questo piatto viene citato tra le pagine del ricettario di Bartolomeo Scappi, il suo cuoco personale. E papa Ghislieri, diciamolo pure, era in buona compagnia: Caterina de’ Medici serviva a corte lo stesso piatto quando doveva organizzare un banchetto per i suoi ospiti; a fine Cinquecento, anche il patriarca di Gerusalemme Fabio Biondi aveva avuto occasione di assaggiarlo con piacere.

Di cosa sto parlando?

Di quella che, all’epoca, era chiamata gattafura (“perché le gatte volentieri le furano e vaghe ne sono”, per citare l’inquietante etimologia che nel 1553 ci viene fornita da Ortensio Landi nel suo Commentario delle più notabili e mostruose cose d’Italia. Ove si legge anche: “ma chi è si svogliato che non le furasse volentieri? A me piacquero più che all’orso il miele”).

In effetti, nel XV secolo, ‘ste gattafure dovevano piacere un sacco. Sotto il nome di “torta alla genovese”, che fa più chic, venivano portate in tavola nei banchetti più importanti, come abbiamo visto; solo alla fine del secolo, col mutare dei gusti alimentari, finiscono con lo sparire dalle cucine dei gran signori…
…ma non certo da quelle delle massaie genovesi, affezionatissime a quel piatto della tradizione.

Nel XIX secolo, la gattafura torna a far parlare di sé nei taccuini dei cronisti che descrivono gli usi e i costumi regionali delle varie zone d’Italia. Ma, entro quella data, ha già cambiato nome: tutti la conoscono come “torta pasqualina”: ché a Genova, nel frattempo, si era consolidato l’uso di portarla in tavola proprio a Pasqua, assieme alle immancabili lattughe ripiene e al piatto di agnello al forno d’ordinanza.
E proprio di questa specialità ligure abbiamo deciso di parlare io e Michela di Mani di pasta frolla, nella puntata pasqualina della nostra collborazione gastro-cattolica.

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Le torte ripiene sono una delle preparazioni più antiche della cucina ligure. O per meglio dire, della cucina mediterranea: risale probabilmente alla notte dei tempi il momento in cui una qualche cuoca ebbe l’intuizione di preparare una torta salata racchiudendo un ripieno di verdure tra due strati di pasta sfoglia.
Nel caso della torta pasqualina, però, le cose sono un po’ più complicate.

In primo luogo, se uno volesse fare le cose con tutti i crismi, dovrebbe prendere armi e bagagli e avventurarsi nell’entroterra ligure per raccogliere personalmente il suo preboggion, termine dialettale con cui si indica quell’insieme di erbette spontanee che, coi primi caldi della primavera, fanno capolino sulle coste assolate. La gente del posto le raccoglieva e ancor oggi le raccoglie per farne minestroni, frittate e insalate cotte. Va da sé che il preboggion è un insieme d’erbe sempre variabile, la cui natura è determinata da quanto offrono il caso e la stagione. La vera torta pasqualina, di conseguenza, non è mai uguale a se stessa, anzi: di anno in anno, ha una sfumatura sempre diversa, determinata dall’insieme di erbe a disposizione (…e quindi, più indirettamente, determinata dal periodo in cui cade la Pasqua).

Immutabile e universalmente noto in tutta la Liguria è invece il sapore caratteristico della prescinseua, il formaggio tipico del Genovesato che si mescola alle erbette nel ripieno della torta. Preparato con latte di mucca che, dopo la cagliatura, viene fatto riposare a temperatura ambiente, il preboggion è un formaggio leggermente acidulo che ben si sposa con gli aromi delle erbe di stagione e col sapore dell’uovo sodo, immancabile ingrediente in ogni piatto di Pasqua che si rispetti.

Ultima accortezza per la massaia che volesse preparare una pasqualina come si deve? Il numero delle sfoglie di pasta da utilizzare: più ce n’è meglio è, dice la tradizione, spingendosi a dire che la pasqualina perfetta è quella che viene preparata con trentatré strati di sfoglia sovrapposti (!), in numero pari a quello degli anni di Cristo.

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Sì: perché, come accade spesso con molti piatti legati alle feste religiose, nulla è lasciato al caso nella preparazione della specialità. Agli occhi di un gourmand anni Duemila, la pasqualina potrebbe sembrare solo una torta di verdure come tante; ma ben altri significati assumeva il piatto agli occhi attenti della gente di una volta (quando si viveva in un mondo pieno di simboli in cui ogni cosa, per speculum et in aenigmate, rimandava a una verità più grande).

Del valore simbolico della torta pasqualina dà conto il giornalista genovese Giovanni Ansaldo, autore di un meraviglioso articoletto su Le ventiquattro bellezze della torta pasqualina apparso sul quotidiano Il Lavoro il 20 aprile 1930, domenica di Pasqua.
L’intero articolo è trascritto da Sergio Rossi in un bel libro che le edizioni Sagep hanno dedicato alla famosa torta ligure. Io mi limiterò a riportarne alcuni stralci, per sottolineare il fascino con cui l’Ansaldo ha voluto tracciare similitudini e legami tra il piatto pasquale, la narrazione evangelica e addirittura la liturgia dell’epoca (!).

Ad esempio, non ricorda forse il sepolcro chiuso, quel bel “monte di fior di farina che la mattina del Sabato Santo quando ancor Cristo non è risorto e le campane non sono slegate, aspetta sulla madia le mani sapienti delle donne”?
E la pasta che da quella farina si viene a formare, “menata, rimenata e distesa” e “or riposante dopo il travaglio in un angolo della madia”, “tutta raccolta in se stessa, tutta pudica sotto le due salviette protettrici”, non richiama forse il corpo di Cristo, che riposa nel sepolcro dopo il travaglio della passione?
Agli occhi dell’autore, persino i mazzi di erbette selezionate per il ripieno “attendono sull’armadio la loro metamorfosi magica, la morte e la resurrezione”, riempiendo tutta la stanza dell’irripetibile “odore della campagna di aprile”.

C’è qualcosa di affascinante e di vagamente incantato anche nel trucchetto con cui le massaie esperte riescono a dare ariosità alla torta evitando che i trentatré strati di sfoglia si appiccichino l’uno sull’altro. In che modo? Con quel “miracolo di accorgimento” che è quello “della bocca che talvolta rapidamente si abbassa a soffiare dolcemente sotto la sfoglia già in parte distesa per farla rigonfiare e tendere, così che sopra vi si imperli e vi si pesi l’ultima goccia di olio. Or ditemi voi, o genovesi: credete che si possa essere uomini completi e conoscere il male e il bene della vita, se da bambini”, alla vigilia di Pasqua, “non si è soffiato un po’ sotto le sfoglie soavi?”.
Dopo aver soffiato dolcemente sull’ultima sfoglia, è già il momento di spennellarla d’olio con quella che l’autore definisce, non a caso, “l’estrema unzione”. Tra una cosa e l’altra, si sarà fatto ormai mezzogiorno: è il momento della “partenza, gloriosa e trionfante, della torta per il forno”, proprio “mentre le campane della chiesa, finalmente slegate, squillano a gloria di Cristo risorto”.
…ebbene sì: oggidì diciamo che Gesù risorge a mezzanotte; prima della riforma liturgica, faceva prima e le chiese annunciavano la resurrezione di Cristo già al mezzogiorno del Sabato Santo. Strano ma vero.

E così, mentre le campane tutt’intorno suonano a festa, “la massaia, stanca e orgogliosa per il duplice mistero della fabbricazione della torta e della resurrezione di Cristo, si lava le mani al lavandino, consapevole che in quel giorno di Sabato Santo, e in quell’ora del mezzodì, mentre suonano le campane e le torte partono per i forni, tutte le acque scorrenti da tutti i rubinetti delle cucine sono benedette come quelle delle acque santiere”.
Questa era evidentemente una credenza popolare, non un vero uso liturgico, ma l’autore sorride nel dire che a suo giudizio si tratta di “un privilegio che certo Santa Madre Chiesa ha concesso, a vantaggio delle massaie che il Sabato Santo devono restare a casa”. Il duro lavoro di una casalinga, si sa, non concede momenti di tregua, specie alla vigilia delle grandi feste: le brave donne di casa avrebbero festeggiato la Pasqua nella prima Messa della domenica mattina, pronte per rincasare in fretta e impiattare il pranzo della festa.

E a quel punto… oh, quanta emozione al momento di portare in tavola la torta e tagliare la prima fetta! Lì sarebbero finalmente mostrate agli occhi dei commensali “tutte le recondite bellezze: le sfoglie digradanti dal dorato al bianco”, “lo strato molle e bianco della prescinseua”, “la massa compatta e soffice delle bietole, di un verde scuro come quello dei tendoni che si mettono nelle chiese attorno alle statue dei santi, i giorni della Passione” (altro uso liturgico del pre-Concilio che ancor oggi, di tanto in tanto, si ammira ancora qua e là).
E vogliamo poi parlare del “gran divertimento, consentito per indulgenza ai più ghiottoni, di tastar la torta col coltello e sentire dove, sotto le sfoglie, si nasconda il rigonfiamento dell’uovo sodo; e tagliare proprio lì, a colpo sicuro, e arrivare d’un tratto nella dolce intimità dei nidi bianchi aprentisi sotto il taglio, a mostrare le uova splendenti col loro rosso fiammante e dorato che interrompe la massa scura delle bietole”? Visti i presupposti, è quasi inevitabile far correre al pensiero a “come il giorno di Risurrezione (oh, che coincidenza dei riti!) nelle chiese scomparisce dai palii disadorni lo squallore del viola e torna sugli altari l’usato splendore dell’oro”.

Sì: agli occhi di Giovanni Ansaldo (…e, probabilmente, di infiniti altri prima di lui), la torta pasqualina ha una simbologia meravigliosa, capace di trasformare in allegoria un semplice piatto della tradizione. Anche se – precisa il giornalista con squisita dolcezza – non è questa simbologia e non sono gli ingredienti a rendere il piatto così nobile e prezioso.
La più grande e profonda bellezza della torta pasqualina sono “quelle impronte dei polpastrelli di dita femminili sull’orlicchio della torta. E avviene talora che l’occhio indugi su queste impronte, e vi trovi il segno di mani conosciute e care, come sigillo messo sulla pasta da amate dita; e gli uomini allora sorridono d’intesa da un capo all’altro della tavola alle donne che ieri furono diligenti dinanzi alla madia ed ora seggono liete al convito pasquale. E questa è un’altra bellezza ancora. Ma non compete più alla torta; compete alle donne di casa. È la bellezza spirituale ch’esse si son create con le loro mani industriose; è la bellezza pasquale, anzi pasqualina, che le incorona, fiorenti nel dolce lume di aprile”.

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