Della contessa morente e del buon selvaggio che riuscì a guarirla

È una storia così perfetta che la si potrebbe tranquillamente prendere per la sceneggiatura di un film di Hollywood. E in effetti già questo è un elemento che tendenzialmente basta a far suonare il campanello d’allarme nella testa dei ricercatori. Perché, sì ok, di tanto in tanto gli archivi ci consegnano realmente delle storie da film… però questa sembra davvero esser stata scritta a tavolino.

Siamo a Lima, a inizio Seicento, forse nel 1639 o forse un po’ prima.
Siamo dunque nel Perù coloniale, quello dei conquistadores, delle reducciones dei Gesuiti e dei coraggiosi bandeirantes che si addentravano, armati fino ai denti, in foreste lussureggianti e ancora tutte da scoprire. Mentre la popolazione autoctona lavorava nelle encomiendas in condizioni non propriamente vantaggiose, gli Spagnoli regnavano sulle loro colonie mediante il Vicereame del Perù. Ed ecco: a Lima, nel sontuoso palazzo regio, viveva già da tempo, circondata dai fasti, la bellissima Francisca Enriquez de Rivera, contessa di Chincon nonché sposa del viceré.

Che caratterizzazione si potrebbe dare alla coppia che sta per diventare la protagonista di questa storia?
Le versioni originali del racconto si tengono sul vago, ma a questo punto tanto vale lavorar di fantasia e immaginarle come persone sostanzialmente buone, ma ammantate di quell’orgoglio da conquistatore bianco che si sente rivestito della missione di portare la civiltà in mezzo a terre barbare e selvagge, popolate da genti ignoranti e abbrutite.
Magari non è vero niente, eh. Ma, già che ci sono, io li immaginerò così.

E poi, d’improvviso, ecco la svolta.
La giovane contessa che s’ammala, inspiegabilmente. Il suo bellissimo corpo squassato dalle febbri che vanno e vengono, scompaiono per qualche giorno e poi ritornano con una violenza crescente, debilitando ogni volta di più le forze ormai deboli della nobildonna.
I medici di corte che sempre più numerosi si affollano al capezzale della malata, tentando disperatamente di curarla a suon di salassi. E poi le vane attese di una guarigione, che lasciano ben sperare tutti quando la malata ha qualche giorno di ristoro… salvo poi svanire improvvisamente come l’acqua lasciata al sole, quando la viceregina sprofonda di nuovo nelle febbri violentissime.
A un certo punto, la diagnosi, sussurrata a bassa voce come si fa per quelle malattie brutte che si ha riserbo anche solo a nominare: “maestà, questo è il morbo che viene quando l’aria è corrotta. Questo è il male della mal aria”.
E per la malaria, si sa, non esiste cura.

A questo punto, la sceneggiatura del film dovrebbe mostrare la notizia della disgrazia che si diffonde a macchia d’olio. Chessò: una dama di compagnia che si sfoga con il cuoco del palazzo; quello che torna a casa e racconta tutto alla moglie; la moglie che spiffera la confidenza mentre torna da Messa con le amiche. E così via in un passaparola che in breve tempo permette a tutto il regno di conoscere la tragedia che si sta consumando oltre le porte del palazzo regio: la mal aria si è insinuata nel corpo della viceregina; alla donna restano pochi giorni da vivere.

Ma ecco a noi il colpo di scena. Perché la notizia, viaggiando di bocca in bocca, arriva un giorno nella piccola Loxa, una cittadina abbarbicata sulle pendici andine che s’affaccia sulla valle del Cuxibamba (all’epoca, facente parte del Perù; oggi, appartenente all’Ecuador).
Orbene: nella città di Loxa (così assicura la fantasiosa sceneggiatura) viveva un uomo, un nativo del luogo, che nella sua comunità era considerato un po’ medico e un po’ sciamano; una di quelle figure enigmatiche che maneggiano le erbe, si pongono come custodi di una sapienza arcana e arcaica e probabilmente parlano pure con gli spiriti e seguono una religione che non è quella dei coloni.
Ed ecco: qualcosa si mosse nel cuore di quest’uomo, quando egli venne a sapere che la moglie del viceré stava per morire consumata da una malattia che lui sarebbe stato in grado di curare in un nonnulla.

Cosa si mosse esattamente?
Mah, la storiella non lo spiega, come se non fosse un dettaglio importante: a me invece piace, lavorar di fantasia per dare un po’ di profondità psicologica al personaggio.
Forse, albergava nel cuore del guaritore la benevola intenzione di salvare vite umane, sopra tutto e al di là di tutto, anche se a essere in pericolo di morte era la moglie del conquistatore presumibilmente odiato?
O forse, a spingerlo fu l’orgogliosa volontà di dimostrare al viceré la superiorità intellettuale della popolazione autoctona? Quella popolazione le cui conoscenze mediche erano evidentemente mille volte superiori a quelle dei guaritori bianchi, che se ne andavano in giro ammantati di tanta prosopopea e poi non erano nemmeno in grado di curare una malattia tra le più banali?

Poco ma sicuro, non lo sapremo mai. Fatto sta che – racconta la storiella – il guaritore lasciò la sua capanna in mezzo al bosco per addentrarsi nella città dei bianchi, bussando di buon mattino alla porta del palazzo in cui viveva il prefetto di Loxa. Con sé, portava una boccetta piena di un liquido marrognolo: la mise a forza nelle mani del funzionario supplicandolo di dargli ascolto, perché (doveva crederci!) quella era una cura miracolosa, l’unica che avrebbe potuto salvar la vita della viceregina ormai morente! Qualsiasi nativo glielo avrebbe potuto confermare: fin da quando era bambino lui, il guaritore, curava in questo modo i pazienti che mostravano gli stessi sintomi. E così prima di lui suo padre, e suo nonno prima ancora, in una catena ininterrotta di sapere che affondava le sue radici nella notte dei tempi…

Detto questo, l’uomo sparì com’era venuto, lasciando il prefetto di Loxa alle prese con quell’intruglio e con mille interrogativi a cui dar risposta.
Tipo: che fare?
Obbedire all’ordine di quel mezzo sciamano e tentare il tutto e per tutto, considerato che ormai la donna era già data per spacciata? Oppure, respingere con orrore le cure fantasiose suggerite da quel selvaggio, nel timore che esse potessero solo peggiorare le sofferenze dell’agonizzante?

Nel dubbio, il prefetto fece spedire a Lima quella pozione, affidandola al più rapido dei suoi corrieri. A palazzo, le reazioni e i dubbi furono gli stessi che abbiamo già descritto: cadde sulle spalle del viceré la responsabilità di prendere la decisione finale. E lui, ormai rassegnato all’idea di restar vedovo ma determinato a non lasciare nulla all’intentato, ordinò ai suoi medici di somministrare alla viceregina quello pseudo-farmaco misterioso. Tanto, peggio di così come poteva andare?

Ed ecco: si compì il miracolo.
La contessa di Chincon bevve quel liquido amarognolo con labbra tremanti; dopo di che, spossata dalle febbri, sprofondò nel sonno. Ma quando dopo qualche ora riaprì gli occhi, la temperatura s’era abbassata e i tratti del suo viso parevano meno sofferenti.
E più la donna beveva di quella pozione, più le febbri si abbassavano e la sua salute migliorava. Non vi fu nessuna ricaduta, quella volta; nessuna recidiva tornò a colpire il fragile corpo della contessa.
Si gridò al miracolo, si mormorò persino la parola “magia”, ma la realtà era molto più banale. La viceregina del Perù era semplicemente stata una delle prime occidentali a essere curata con un farmaco che, sì, era prodigioso per davvero, ma senza che vi fosse sotto alcun segreto arcano. Semplicemente, quel misterioso guaritore aveva fatto arrivare alla donna una bottiglia piena di chinino: una sostanza che si ricava dalla corteccia dell’albero di china, un sempreverde che non esisteva in Europa e che invece era assai diffuso sulle montagne andine.

Per quanto ne sappiamo noi, davvero potremmo dire che si perdeva nella notte dei tempi il giorno in cui le popolazioni autoctone avevano realizzato che quella sostanza era dotata di proprietà preziose. Essiccata, ridotta in polvere e mescolata con acqua dolcificata ad alleggerirne il sapore aspro, la si utilizzava con successo per la cura di quella malattia che gli Europei chiamavano “malaria” e che spesso consideravano sinonimo di “condanna a morte”.
Perché in Europa non esisteva, fino a quel momento, una sostanza capace di curarla con efficacia; e invece, quella sostanza esisteva nel Nuovo Mondo… e funzionava anche dannatamente bene! Quel morbo che i medici bianchi non erano in grado di curare era, agli occhi dei guaritori andini, una rogna da gestire con le dovute attenzioni ma sicuramente non una malattia che dovesse automaticamente portare alla tomba.

Va da sé che la nostra storia si conclude con un happy ending.
E non solo perché la viceregina si ristabilì completamente; il vero happy ending risiede nel fatto che quella guarigione eclatante spinse tutta la corte spagnola a guardare con occhi nuovi la popolazione locale. Il viceré volle conoscere quel guaritore che aveva salvato la vita a sua moglie, e con umiltà gli chiese di condividere il segreto di quel farmaco prodigioso. Il guaritore ubbidì volentieri e consegnò alla coppia reale un bel barile di polvere di china; tornando in Spagna per riabbracciare la sua famiglia d’origine dopo il brutto spavento che s’era presa, la viceregina portò con sé quel tesoro, più prezioso dell’oro… e fu così che il chinino sbarcò finalmente in Occidente. La malaria diventava finalmente una malattia che poteva essere curata.

***

Bella storia eh?
Peccato che sia quasi sicuramente falsa, e probabilmente inventata a tavolino proprio con lo scopo di raccontare una storiella edificante. L’aneddoto fu citato per la prima volta nel 1663 dal medico genovese Sebastiano Bado che ne parlò nella sua Anastasis corticis Peruviae, seu Chinae Chinae defensio contra ventilationes… e, in assenza di prove che potessero far dubitare della sua veridicità, fu preso per buono per secoli e secoli! E anzi, ispirò (inevitabilmente) una vasta produzione di opere letterarie che si divertirono a romanzare ulteriormente la già fantasiosa vicenda: l’esempio più recente e più popolare è probabilmente La santa virreina che fu composta nel 1939 dal poeta spagnolo José María Pemán.

Agli archivisti, dispiacque quasi dover rovinare un mito così bello. Eppure, in anni recenti, la riscoperta dei diari personali di Antonio Suardo, segretario personale dei viceré, ha portato la storiografia a mettere in forte discussione l’effettiva veridicità di questa storia. E diciamo pure che “mettere in discussione” è l’understatement del secolo.
Sì, perché Antonio Suardo fornisce nei diari una cronaca dettagliatissima della sua vita a palazzo, descrivendoci con meticolosa precisione anche le più piccole minuzie vissute da lui o dai suoi signori. Davvero improbabile che il segretario abbia omesso di raccontare un aneddoto così eclatante, soprattutto alla luce delle conseguenze che avrebbe avuto di lì a poco, cambiando letteralmente le sorti dell’umanità intera.

Con buona pace della viceregina del Perù e del suo immaginario guaritore andino, le proprietà medicamentose del chinino furono scoperte in altro modo. Fino a quando un altro ritrovamento archivistico non ci costringerà a smentire anche quest’altra storia, sembra di poter affermare che i veri benefattori dell’umanità furono i missionari cattolici che, all’inizio del Seicento, vivevano a strettissimo contatto con le popolazioni locali al fine di evangelizzarle. Non è chiaro se siano stati i Gesuiti oppure gli Agostiniani i primi a rendersi conto che, quando la febbre cominciava a salire, i nativi erano soliti curarsi con un farmaco ricavato dalla corteccia di una pianta che nessuno ricordava di aver mai visto nel Vecchio Mondo. In ogni caso, furono probabilmente loro i primi europei a rendersi conto, dopo un po’ di sperimentazione, che quella sostanza era davvero un farmaco miracoloso.

Chi fu il primo a portarla in Europa?
In questo caso, il primato è conteso tra due gesuiti. Secondo alcuni, fu padre Bernabé da Cobo a portarla con sé durante il viaggio che lo vide tornare in patria nel 1632 dopo anni di missione nel Nuovo Mondo. Secondo altri, fu padre Agostino Salumbrino a precedere di qualche mese il suo confratello, facendo spedire in Europa, via nave, un po’ di polvere di china.

Insomma: ammesso e non concesso che la viceregina del Perù si sia mai ammalata di malaria attorno al 1639, non ci sarebbe stato bisogno di ricorrere a guaritori andini dalla dubbia fama per salvare la sua vita: le proprietà medicamentose del chinino erano già note (e ormai da qualche anno!) anche agli stimatissimi speziali gesuiti che operavano nelle missioni circostanti.
Vien proprio da pensare, insomma, che le vicende romanzesche della viceregina siano nulla più di una bella storia inventata a tavolino… ma è una trama talmente ben riuscita che val la pena di raccontarla in ogni caso, non trovate?


Per chi invece preferisse le informazioni serie alle storielle di fantasia: The Miraculous Fever-Tree di Fiammetta Rocco vi racconterà tutto ciò che volevate sapere sul chinino, The Cure that changed the World (e per davvero!).

2 risposte a "Della contessa morente e del buon selvaggio che riuscì a guarirla"

  1. Pingback: The Sardinian Project: il piano di Rockefeller per liberare l’isola dalla malaria – Una penna spuntata

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