Che in guerra manchi il cibo, ahimè, è cosa nota: sicuramente i nostri nonni ci avranno parlato mille volte della “tessera” che negli anni ’40 razionava gli alimenti che era possibile comprare. Tutta Europa patì la fame durante la guerra: è una storia così nota da non meritar nemmeno di esser raccontata.
Non tutti sanno, però, che vi fu un paese europeo che si trovò ad affrontare problemi decisamente peggiori della media – e, per buon conto, seppe gestirli con particolare creatività. Questa è la storia del Regno Unito durante gli anni della seconda guerra mondiale; e questa sì che è una storia inusuale, che merita d’esser raccontata.
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Le ragioni per cui, nel Regno Unito, l’approvvigionamento di beni alimentari fu particolarmente problematico dipendono banalmente dalla geografia. Va da sé che, se sei un’isola, sei facilmente isolabile, e Hitler non si fece sfuggire l’occasione di danneggiare il suo nemico anche in quel modo. Quando i suoi U-Boot cominciarono a prendere di mira tutte le navi mercantili che transitavano verso il Regno Unito, rifornire di merci il regno di Sua Maestà cominciò a diventare un lavoro assai rischioso. Il problema non furono solamente i carichi alimentari che andavano perduti a causa delle azioni belliche: più concretamente, Londra fu costretta a venire a patti con l’evidenza per cui molti armatori non avevano più intenzione di impiegare le loro navi in rotte che le portassero vicine ai porti britannici.
E, del resto, come dar loro contro? Nel corso dei cinque anni di guerra, i sottomarini tedeschi affondarono in acque britanniche qualcosa tipo 2500 mercantili: come biasimare gli imprenditori che non erano disposti a mettere a repentaglio la vita dei propri uomini su una tratta così pericolosa?
Nell’arco di pochi mesi, nel Regno Unito, il livello di importazioni calò del 50%. Il che pose l’isola in una situazione ancor più dura rispetto a quella che si viveva nell’Europa continentale: in alcuni casi, non v’era scarsità assoluta di quei cibi che gli Inglesi potevano solo sospirare. Altrove, era ancora possibile trovarli: il problema è che Londra non riusciva a farseli spedire.

Quello che dovettero sopportare i cittadini britannici fu, insomma, un regime molto duro. Verso la fine della guerra, gli unici alimenti che non erano razionati erano le galline e i conigli (di cui c’era abbondanza), le frattaglie (che facevano un po’ schifo a tutti) e i pesci e la selvaggina (a patto ovviamente di trovarne in vendita – il che non era scontato). E non bastò la fine della guerra per riempire gli stomaci degli Inglesi: l’economia britannica era stata provata al punto tale che la carta annonaria rimase in vigore per una dozzina (!) d’anni abbondante. Nel 1948, quando in Italia ci si preparava già ad abolire ogni restrizione, in Gran Bretagna stavano ancora razionando il pane: la tessera smise di esistere solo nel 1954 (!), quando venne meno la necessità di centellinare carne e formaggio.
È necessaria una certa organizzazione, per convincere i civili ad accettare stoicamente dieci anni e passa di privazioni. E il Regno Unito seppe organizzarsi molto bene, aiutato in ciò dalle recenti scoperte scientifiche: gli anni di povertà seguiti alla crisi economica del ’29 avevano permesso alla comunità medica mondiale di studiare a fondo gli effetti della denutrizione (o, più in generale, di una alimentazione non equilibrata). Quando sull’Europa cominciarono a soffiare venti di guerra, le autorità sanitarie avevano perfettamente chiaro quali potessero essere le conseguenze nel lungo termine di un deficit vitaminico importante o di una dieta completamente priva di proteine. Non a caso, il Ministero del Cibo (creato nel 1939 proprio allo scopo di far fronte alle restrizioni di guerra) volle affidare un ruolo di rilievo a Jack Drummond, un biochimico che già da molti anni si occupava di scienza della nutrizione.
Per la prima volta nella Storia, il razionamento dei beni alimentari fu creato sulla base delle più moderne teorie nutrizionali. Non ci si domandò (solo) “quali sono gli alimenti che la nostra nazione è in grado di produrre in abbondanza?”; ci si chiese anche (e soprattutto) “quali sono gli alimenti di cui la popolazione ha assolutamente bisogno per non andare incontro a problemi di salute?”.
Teoricamente, anche altri Stati cercarono di adottare soluzioni simili, ma lo fecero con risultati non sempre esaltanti (basti pensare al fatto che, in Italia, si arrivò a un punto in cui il latte era garantito solamente ai bambini – e dietro prescrizione medica). Il Regno Unito, invece, si distinse per una gestione impeccabile e per un’organizzazione meticolosa e certosina… che potrà essere interessante analizzare assieme.

In primo luogo Jack Drummond volle informarsi sullo stato dell’arte, per capire in quale misura il Paese dipendesse dalle importazioni di generi alimentari. Fu calcolato che i cibi prodotti sul territorio britannico fossero in grado di fornire alla popolazione un apporto di circa 900 calorie al giorno – evidentemente, troppo troppo poco.
Il primo compito del Ministero del Cibo fu dunque quello di aumentare questa cifra: entro il 1943, l’industria alimentare britannica era in grado di fornire alla popolazione una media di 1200 calorie quotidiane.
Attraverso la campagna Dig For Victory, il Ministero lavorò per aumentare drasticamente la produzione interna di vegetali. I parchi cittadini, i campi da golf, i giardini privati e persino le fioriere sui davanzali si trasformarono in orti di guerra, mentre gli abitanti che vivevano in campagna venivano incoraggiati a fare passeggiate immersi nella natura, alla ricerca di funghi e frutta selvatica.
I lavoratori attivi nel settore alimentare, in compenso, furono invitati a convertire le loro industrie per aumentare la produzione di tutti quei cibi ritenuti particolarmente preziosi perché ad alto contenuto calorico: principalmente, formaggi, carne e grassi di tipo animale e vegetale.
Prendendo accordi con quegli armatori che erano ancora disposti a far rotta sulla Gran Bretagna, il Ministero del Cibo aumentò drasticamente l’importazione di cibo in scatola a lunga conservazione… e anche di latte in polvere, in previsione del momento non lontano in cui sarebbe stato necessario macellare parte delle mucche da latte per far fronte alla richiesta di carne. La frutta, troppo facilmente deperibile, fu considerata un inutile spreco di risorse; con l’intenzione di farsi bastare quella poca che poteva essere prodotta in patria, il Ministero pose immediatamente fine a tutte le altre importazioni. Unica eccezione: le succose arance, che si conservano abbastanza a lungo ma soprattutto sono un concentrato di Vitamina C.
In effetti, l’apporto vitaminico era (a buon diritto!) una delle grandi ossessioni di Drummond. Il biochimico pianificò il suo lavoro di riorganizzazione delle risorse agrarie ponendosi un obiettivo ben preciso: entro il 1941, i frutti della terra di Sua Maestà avrebbero dovuto essere in grado di fornire a ogni Inglese, su base quotidiana, un terzo del fabbisogno calorico, due terzi del fabbisogno di calcio, un terzo del fabbisogno di Vitamina A, due quinti del fabbisogno di Vitamina B e la totalità della Vitamina C necessaria a un buono stato di salute.
Un piano ambizioso, reso particolarmente sfidante da un’incognita non facilmente controllabile: come avrebbe reagito la popolazione? Drummond non stava solamente chiedendo agli Inglesi di ridurre le porzioni nel piatto: stava ordinando loro di cominciare a mangiare in modo drasticamente diverso dal solito, privandoli di alcuni alimenti amatissimi e costringendoli invece a utilizzare ingredienti che nessuno aveva mai visto prima (latte in polvere? Uova disidratate? La popolazione non sapeva manco come usarli).
Il Ministero dell’Alimentazione si rese conto che bisognava permettere al pubblico di familiarizzare con questa nuova quotidianità… e, se possibile, aiutarlo a viverla in modo non del tutto negativo. Organizzò così dei letterali programmi di cucina volti a insegnare alle massaie nuove ricette (tendenzialmente abbastanza saporite) che potessero essere create a partire dagli ingredienti messi a disposizione dalla tessera annonaria.
La BBC trasmetteva ogni mattina un programma radiofonico eloquentemente titolato The Kitchen Front, pieno di suggerimenti pratici. Personaggi di fantasia come Potato Pete, eroico feldmaresciallo tuberoso, cercavano di convincere i bambini a sperimentare i vari tipi di verdure. Opuscoli e volantini distribuiti gratuitamente nei negozi di alimentari fornivano idee sfiziose per preparare piatti che non erano tipici della gastronomia inglese… e tuttavia, non erano poi così male. O, per contro, suggerivano modi alternativi per ricreare (qualcosa che fosse vagamente simile a) i grandi piatti della tradizione (soprattutto quelli a cui “non si poteva” rinunciare, tipo il pudding di Natale o altri piatti delle feste).
Sorprendentemente, come fa notare Jill Norman, “nonostante i razionamenti e le privazioni, i cittadini ebbero globalmente una buona alimentazione”. Vi dirò di più: alcuni cominciarono addirittura a mangiar meglio: “fino ad allora, molti poveri erano stati troppo poveri per potersi permettere una dieta equilibrata. Ma (complice un tasso di disoccupazione praticamente inesistente) il sistema di razionamento, con i suoi prezzi calmierati, mise i meno abbienti nelle condizioni di avere una dieta più varia che in passato. Le mense scolastiche, con i loro pasti a base di latte, succo d’arancia e olio di fegato di merluzzo, sfamarono i bambini di famiglie povere con cibi molto più nutrienti di quanto non avvenisse fino al 1939”. Nel complesso, “gli Inglesi dell’immediato dopoguerra erano molto più snelli e più in salute di quanto non siano oggi; avevano un’alimentazione fatta di pochi grassi, poco zucchero, poca carne e molti vegetali”.
Proprio per questa sua particolarità (e cioè quella d’esser stata tutto sommato varia ed equilibrata), la tessera annonaria degli anni Quaranta è ricordata con un certo affetto dagli Inglesi. Di tanto in tanto, c’è addirittura qualcuno che decide di vivere per brevi periodi di tempo adottando quello stesso regime alimentare.
È ad esempio il caso di Carolyn Ekins, una donna che per sua stessa ammissione versava in uno stato di obesità a causa di un’alimentazione profondamente squilibrata. Amante della Storia, nel 2006 si pose la sfida di vivere per quattro mesi seguendo il regime alimentare imposto agli Inglesi del 1940: perse ventisei chili nell’arco di poche settimane, riscontrando anche un netto aumento delle sue energie. Da allora, pubblica periodicamente ricette di guerra nel blog The 1940s Experiment.
Ben altre ragioni furono quelle che, qualche anno fa, spinsero a una sfida analoga Claud Follwood. La donna scelse di adottare i razionamenti di guerra a mo’ di mortificazione corporale per la Quaresima: ne nacque un libro titolato The Rations Challenge che ebbe una certa eco durante i mesi del primo lockdown del 2020, quando gli scaffali dei supermercati ricominciarono a svuotarsi di nuovo.
Insomma: per una ragione o per l’altra, pare siano in molti ad apprezzare l’alimentazione più parca e più frugale di un tempo. Io, che l’apprezzo come storica, lascio qui sotto altri due titoli che potrebbero soddisfare la vostra curiosità archivistica:
- Victory in the Kitchen. Wartime Recipes a cura dell’Imperial War Museum
- Eating for Victory. Healthy Home Front Cooking on War Rations. Reproductions of Official Second World War Instruction Leaflets a cura di Jill Norman
chiamatelaneuro
Non per la diretta, ma è uno dei miei articoli preferiti di questo blog da oggi! 🧠❤
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Lucia
Ma grazie! 🙂
Sì, davvero brillante il modo in cui in questo caso il governo è riuscito a gestire bene una situazione complessa, traendone addirittura qualcosa di positivo.
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vogliadichiacchiere
MI sa che potrei provarla anch’io questa “dieta” . . . all’epoca erano tutte belle magre e scattanti! 😉
Ciao, Fior
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Lucia
Sarebbe interessante sottoporre la dieta al giudizio di un medico di oggi, per capire se è ancora valida ed equilibrata anche alla luce delle scoperte più recenti. Sono sicura che qualcuno in UK ci ha già pensato, eh!
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