Di quando san Francesco iniziò a maledire gli animali

Innanzi tutto, una comunicazione di servizio: da qualche tempo, la mia presenza infestante si è spinta fin dalle parti di Aleteia, ove potrete trovare ogni giorno un nuovo articolo della vostra beniamina (?), nello stesso stile che di norma utilizzo qui. Per chi ci tenesse a fare il bis di storie strane e antiche leggende, questa è la pagina da tenere sottomano per rimanere aggiornati su quello che scrivo.

Ieri, ad esempio, parlavo su Aleteia di san Francesco e del modo in cui la cultura contemporanea tenda a dipingerlo come una strana via di mezzo tra l’attivista di Greenpeace, l’hippie no-global e la principessa Disney che parla con gli uccellini. Un ritratto parziale, che certamente può sedurre e che non è del tutto errato, ma che ha oggettivamente il demerito di ridurre a macchietta una figura assai complessa: la lettura delle fonti originali, cioè le biografie medievali scritte dai frati che avevano personalmente conosciuto il Poverello, ci restituisce l’immagine di un san Francesco molto più profondo e sfaccettato. E anche molto più interessante da conoscere, per quel che vale la mia opinione personale.

Per esempio, la storia che sto per raccontare mette in scena un san Francesco che indubitabilmente vi stupirà, a voler usare un eufemismo.
Il primo a raccontarla fu frate Leone, la cui testimonianza permise a Tommaso da Celano di inserire l’episodio nella Vita Seconda: tutto accade in diocesi di Gubbio, presso il monastero di San Verecondo, dove san Francesco era giunto a sera per riposare e chiedere ospitalità per la notte.
E proprio quella sera: che bellissima sorpresa! Una delle pecore del monastero diede alla luce un piccolo agnellino, che aveva incantato tutti i frati per la sua dolce bellezza e per quell’innocenza proverbiale che intenerisce i cuori.

Ahilui: il povero agnellino ebbe ben poco tempo per bearsi di quelle cure. Nel corso della notte, una delle scrofe del convento fece irruzione nella stalla delle pecore e uccise il piccoletto: tragedie (anche economiche!) che dovevano essere relativamente frequenti nel Medioevo, a giudicare dalla severità con cui molti statuti cittadini punivano quei proprietari di bestiame che permettevano ai loro maiali di vagare per la città incustoditi, con conseguenti incidenti su questo stesso genere.

Immaginate il dispiacere di san Francesco e degli altri frati, quando realizzarono cos’era accaduto. Per citare le parole di Tommaso da Celano:

Al mattino, alzatisi, trovano l’agnellino morto e riconoscono con certezza che proprio la scrofa è colpevole di quel delitto. All’udire tutto questo, il pio padre [Francesco] si commuove e, ricordandosi di un altro Agnello, piange davanti a tutti l’agnellino morto: «Ohimé, frate agnellino, animale innocente, simbolo vivo sempre utile agli uomini! Sia maledetta quell’empia che ti ha ucciso. E nessuno, uomo o bestia, mangi della sua carne!».
Incredibile! La scrofa malvagia cominciò subito a star male, e dopo aver pagato il fio in tre giorni di sofferenze, alla fine subì una morte vendicatrice. Fu poi gettata nel fossato del monastero, dove rimase a lungo e, seccatasi come un legno, non servì di cibo a nessuno per quanto affamato.

Aehm: come commentare questo episodio?
Evidentemente, non in un’ottica di stretto animalismo: nemmeno il più fervente degli attivisti del WWF mostrerebbe tanto malanimo nei confronti una scrofa che, tutto sommato, si era limitata a fare ciò che natura le aveva suggerito. I cuccioli di animale vengono predati da che mondo è mondo; e per quanto spiaccia vedere il loro corpicino martoriato, nessuno sarebbe così folle da prendersela col predatore: è il normale ciclo della vita, dopotutto.

La rabbia di san Francesco, in questo caso, è chiaramente motivata da ragioni simboliche. Nel povero cadavere di quell’agnellino, morto anzi tempo e senza avere alcuna colpa, Francesco vedeva (dichiaratamente) “un altro Agnello”: il Cristo e la pecorella si fondevano in un tutt’uno, nella lettura simbolica che il santo diede a quell’episodio. E, di conseguenza, il maiale assassino diventò simbolicamente l’incarnazione stessa del male: un male da debellare, come infatti Francesco fece, provocando con la sua maledizione la morte della scrofa.
Significativamente, si trattò di una morte inutile: “nessuno mangi della sua carne!” ordinò il santo; e neppure i vermi osarono avvicinarsi a quella carcassa maledetta, che infatti fu abbandonata al suo destino e andò incontro a una sinistra forma di mummificazione, svuotandosi anche di quell’ultima funzione sociale che ancora le sarebbe rimasta: quella di dare un senso alla sua morte sfamando la brava gente.

Tommaso da Celano, evidentemente un uomo semplice, ritiene che questo episodio possa essere di grande edificazione per il fedele: con ammirevole nonchalance, l’agiografo ce lo descrive per sottolineare la straordinaria efficacia delle preci di san Francesco: «la sua parola era di una potenza sorprendente».

Diciamo che anche “Avada Kedavra”, nella saga di Harry Potter, è una parola di una potenza sorprendente, che non per questo procura molta simpatia verso chi la pronuncia con disinvoltura; e se pensate che il mio paragone sia azzardato… beh, no: storicamente, non lo è. Lo stimatissimo storico André Vauchez, uno dei più grandi esperti nello studio dell’agiografia medievale, commenta la vicenda in questi termini:

Alla luce di questo episodio e della sua brutale conclusione, comprendiamo meglio certe reazioni ostili che Francesco ispirava al mondo contadino, se diamo credito a una testimonianza, di provenienza non identificabile, raccolta in una compilazione francescana del XV secolo: “San Francesco era uscito dal convento per pregare, e un gruppo di pastori iniziò a dire: ‘Ecco, questo è l’uomo che lancia maledizioni al bestiame e lo fa morire!’, perché poco tempo prima c’era stata un’epidemia di peste bovina. E per questa ragione, quei manigoldi cominciarono a tirargli addosso dei sassi".

Fossimo stati a fine Quattrocento, sarebbe bastato molto meno per rischiare di far scattare un processo per stregoneria. San Francesco messo al gabbio perché malediceva gli animali provocandone la morte: riuscireste a immaginarlo?
Fa ridere solo a pensarlo; eppure, a quanto pare, fu un’accusa che gli fu rivolta per davvero.


Per approfondire: l’episodio che ho riportato è descritto nel Capitolo LXXVII della Vita Seconda di Tommaso da Celano: Una scrofa malvagia uccide a morsi un agnello. Il saggio di André Vauchez che citavo è Francesco d’Assisi (Einaudi, 2010), un vero e proprio evergreen del settore.

2 risposte a "Di quando san Francesco iniziò a maledire gli animali"

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