Di quando io e un mago medievale ci mettemmo a chiacchierare del mio nuovo libro

“Non lo so, John. Là fuori c’è un sacco di gente strana. Se sfrutto questo spunto per presentare il libro, se condivido coi miei lettori questa nostra conversazione, rischio pure che salti fuori qualche strambo che dice che questo non è un sogno. Che a forza di studiare all’università la storia della magia, sono stata io a richiamare in terra la tua anima per mezzo della nefanda arte della necromanzia”.
S’è girato a guardarmi con un sorriso divertito e lo sguardo complice di chi ha capito che l’altro ha capito. “Vedi pagina 40 di Ingannatori, malefici e sapienti, eh?”.
“Eh”.
Si è preso qualche secondo per sistemarsi meglio sulle spalle lo scapolare di quell’abito benedettino che già da qualche tempo aveva abbandonato il colore bianco delle origini per tingersi di nero. Avrà avuto all’incirca la mia età, la faccia stanca di uno che si consuma sui libri e le occhiaie di chi non ricorda più cos’è una notte di buon sonno. Mi ha squadrata per qualche secondo e poi ha risposto con un secco, “no, guarda. Capisco il timore astratto, ma onestamente: non direi. Guardati allo specchio e ti rispondi da sola. Visto lo stato di prostrazione in cui hai passato gli ultimi tre mesi, con imprevisti di ogni tipo che ti son piovuti addosso mentre cercavi disperatamente di chiudere questo libro, nessuno stenterà a credere che tu abbia iniziato a sognarti di notte i suoi protagonisti”.
A onor del vero, un’obiezione incontestabile. “In effetti, mi dicono che a un certo punto mi son messa a parlare nel sonno lamentandomi del fatto che una maga mi aveva rubato le caciotte”.
“Quella in effetti è una storia che turba nel profondo”, mi ha concesso John di Morigny con molta serietà. È seguita una breve pausa. E poi: “comunque, vedi? Se ti sogni di notte quella pazza, perché mai non dovresti sognarti di notte anche il sottoscritto? Pura attività onirica, niente necromanzia. Scrivi serena e vai avanti”.

Ho aperto l’editor del blog e mi sono diligentemente messa a digitare le prime righe, mentre John occhieggiava incuriosito dietro la mia spalla studiando il funzionamento di questa nuova tecnologia. Ho finito l’incipit, poi mi sono girata a guardarlo. “Beh? E adesso che facciamo?”.
“Adesso presentiamo il tuo libro, naturalmente”, ha detto lui in tono di ovvietà allungandosi per prendere in mano la copia che se ne stava posata sulla scrivania. L’ha soppesata un po’, poi ha commentato: “un libro che, ti concedo, è discreto, compatibilmente col fatto di essere stato scritto con le sole forze umane, come vi ostinate a fare adesso voi intellettuali moderni. Suppongo sia il massimo complimento cui avresti potuto aspirare da un mago del mio calibro”.
“Ma ti dirò che in effetti non osavo nemmeno sperare tan…”.
“Naturalmente potrei essere di parte”, mi ha interrotta, “lusingato dal fatto di vedere la mia storia raccontata per la prima volta o quasi. Insomma, se escludiamo le pubblicazioni accademiche di nicchia che tanto non legge nessuno. Ma credo che la cosa in effetti più apprezzabile del tuo lavoro”, e lì ha cercato il mio sguardo, bonariamente, “sia stata proprio quella di andare a selezionare storie che sono note solamente agli specialisti, divulgandole con un linguaggio tale da renderle accessibili anche al volgo ignorante”.
M’è scappato un colpetto di tosse. “Io questo pezzo lo cancello, eh. Posso suggerirti che insultare i miei potenziali lettori definendoli ‘volgo ignorante’ non mi sia esattamente di grande aiuto, in termini di marketing?”.
John mi ha reso il volume piegando le labbra in un sorrisetto. “Tu dici? Col mio libro, è una tecnica che ha funzionato benissimo”.
“Il tuo libro è stato bruciato sul rogo davanti all’Università di Parigi, direi che non lo prendiamo come termine di paragone desiderabile, mh?”.
“…ma io in effetti mi rivolgevo a gente che era consapevole dei suoi limiti e desiderosa di superarli”, è andato avanti senza nemmeno dar segno di avermi sentita: “non a gente come voialtri moderni, che amate vivere crogiolandovi nell’umana ignoranza e addirittura ve ne fate vanto come se fosse chissà quale vostro merito spirituale”.

Sarei stata tentata di rispondere per le rime, ovviamente; ma quando conosci bene la persona che hai davanti, sai anche quali sono le battaglie che non val la pena di combattere. Sicché ho ripiegato su un sospiro rassegnato e su una domanda diplomatica: “ma tu ci credevi davvero? Tutte le cose che hai scritto, quella tua assurda forma di magia a ispirazione necromantico-mariano-benedettina. Ma eri serio?”.
John, che si stava incamminando verso il mio scaffale della libreria, s’è girato per guardarmi con un’espressione che, in effetti, non avrebbe potuto esser più solenne. “Certo che ero serio. Che, secondo te scherzavo?”.
Mi sono lasciata sprofondare sullo schienale della sedia, fissandolo in silenzio per qualche secondo. I capelli, ancora folti e colorati, gli si diradavano sulla testa in corrispondenza della tonsura e sotto il suo scapolare si intravvedeva la cinta con cui s’era assoggettato alla regola monastica. “Cielo, John. Adesso sì che vorrei che tu non fossi un sogno, ma una vera anima evocata mediante la magia. Giuro che pagherei oro per sapere dove sei finito”. E mentre lui piegava le labbra in un sorriso, senza dargli il tempo di suggerirmi gli svariati rituali che aveva preparato apposta per chi voleva ottenere questo tipo di informazioni, ho buttato lì: “avrai presente Cesario di Heisterbach, no?”.
“Sì, ovviamente”.
“Ecco. Tutte le volte che penso a te, giuro, mi corre la mente al topos narrativo del mago cistercense che muore, e dopo la morte scopre con orrore di essere stato condannato all’Inferno perché, ops, la pratica della magia era più peccaminosa di quanto credesse. E da quel momento in poi, non appena ne ha occasione, si intrufola in tutti i rituali con cui i necromanti ancora vivi invocano anime dannate, per avvisarli della pericolosità del loro gioco”. John ha sorriso e io ho dato il mio affondo: “i libri di Cesario sono pieni di ‘ste storie, non dirmi che non le avevi lette quando eri in noviziato”.
“Sol per quello”, ha replicato lui con una scrollata di spalle, ricominciando a camminare verso la libreria, “mi risulta che Internet sia pieno di gente paranoica che dice che far festeggiare Halloween ai bambini equivalga a innalzare un osanna a Satana (teneri illusi) e che tu abbia passato l’ultima settimana a discuterci animatamente per confutare le loro tesi”.
Ho stretto le labbra: “sì, vabbeh, ma adesso cosa c’entra? Non mi puoi paragonare un testo di magia salomonica alle zucchette intagliate per Halloween”.
“No, di certo”, mi ha concesso lui fermandosi davanti allo scaffale. “Ma se la tua domanda era ‘come hai fatto a non lasciarti spaventare dalle cautionary tales del buon Cesario e degli altri sulle stesse linee’: sai bene che sono cresciuto in un’epoca in cui la Chiesa non aveva ancora una visione univoca della magia ed era perfettamente lecito considerarla una scienza rispettabile, anche santificante”. Ha iniziato a far scorrere il polpastrello sui dorsi dei libri nella mia libreria: “beh, ma che te lo dico a fare? Sono tutte cose che sai e che hai spiegato nel tuo libro. E, devo dire, in modo accettabile pur coi limiti già descritti riguardo un’autrice che si rifiuta di farsi illuminare dall’Ars anche se potrebbe”.
“Quindi il complimento vale doppio?”, ho ammiccato.
Meh”. Il polpastrello del monaco s’è fermato sul grosso volume della Routdledge History of Magic, e lui l’ha estratta dallo scaffale con la cura di chi è abituato a maneggiare codici miniati. “Comunque, sul serio. M’è parsa apprezzabile la decisione di inquadrare la caccia alle streghe nell’ambito del più ampio mutamento culturale che ha riguardato il modo di intendere la magia, fin dai miei tempi in avanti”. Ha aperto il librone dalla copertina rossa e ha lanciato uno sguardo all’indice, concedendo “è oggettivamente una particolarità, a quanto ne so io, nel panorama dei libri divulgativi dedicati alla caccia alle streghe”.
Che poi è esattamente quel tipo di commento che mi piacerebbe ricevere. “Sì, beh. Non è che mi sia inventata niente di nuovo, mi sono ispirata a quel filone di studi accademici inaugurato da Norman Cohn negli anni ’70. Però mi sembrava un approccio importante, che dovrebbe essere riproposto anche nella divulgazione”.
“Hai voglia, se lo è”.
“Sai. Quando si parla di caccia alle streghe, tutti citano il Malleus Maleficarum”, e poi ho aggiunto “anche a sproposito, nella maggior parte dei casi. Ma ignorano che Nicolas Eymerich, solamente un secolo prima, aveva sostanzialmente ordinato agli inquisitori di concentrarsi solo sulla lotta ai maghi e di lasciar perdere le guaritrici di campagna, con i loro piccoli amuleti, le loro divinazioni casalinghe e così via. Si parla sempre della caccia alle streghe a partire dal momento in cui è iniziata, ma pochi, nella divulgazione, si domandano cosa esattamente l’abbia prodotta”.

John, che stava scorrendo con evidente compiacimento il capitoletto che gli era stato dedicato nella miscellanea della Routledge, mi ha lanciato una veloce occhiata al di sopra delle pagine. “Suppongo che, in certa misura, farsi questo tipo di domande possa essere pericoloso, perché porta a scoprire che i meccanismi culturali che hanno prodotto la caccia alle streghe sono ancora in azione o potrebbero diventarlo da un momento all’altro”.
“È esattamente la stessa cosa che mi diceva Jenny, sai?”, ho interloquito. “Cioè, Babacio. L’artigiana che mi ha affiancata nel progetto, confezionando le bambole ispirate a dieci delle storie che racconto nel libro. Discutevamo qualche giorno fa su cosa avessimo imparato da queste dieci storie, e lei mi ha risposto che la cosa che l’ha più fatta riflettere è stato realizzare che la caccia alle streghe fu il modo in cui si espresse il malessere di una società in crisi. Né più né meno”.
“E in crisi a più livelli”, ha commentato lui. “Economica, ecclesiale, sociale, sanitaria”.
“Tipo la nostra”, ho detto a mezza voce. “E comunque sì. Jenny, a buon diritto, mi faceva notare che è facile approcciarsi al tema facendo demagogia e dicendo ‘la caccia alle streghe ci insegna che non dobbiamo discriminare più’. E, aggiungo io, col sottinteso che tanto noi moderni siamo persone migliori di quei bruti e non faremmo più quelle brutte cose”. Ho lanciato un’occhiata al monaco e ho continuato: “ma, per citare le parole di Jenny, e io concordo, sarebbe bene andare oltre la facciata delle cose e fare una riflessione più ampia. Anche a livello personale. Io stessa me lo sono chiesta più volte, immedesimandomi nei protagonisti delle storie: se fossi vissuta in quell’epoca e m’avessero detto che la mia vicina di casa era una strega… in quel contesto culturale, a chi avrei creduto? Non sono mica sicura di quale sia la risposta”.
Evidentemente soddisfatto di quello che aveva letto su di sé nel saggio della Routdlege, John l’ha richiuso e l’ha rimesso a posto. “Sì: nell’ignoranza in cui vi crogiolate voi moderni, avete fatto un sacco di semplificazioni. Tendete a descrivere la caccia alle streghe come un fenomeno prodotto dal patriarcato e dal rigorismo religioso. Ma il patriarcato e il rigorismo religioso non mandano al rogo vescovi, sacerdoti e ricchi imprenditori”.
“…e monaci benedettini…”.
“Anche loro, a volte, sì”, ha concesso con un sorriso. “E invece il tuo libro è pieno di queste storie”.

Ho guardato per qualche secondo lo scapolare nero che gli proteggeva il cuore, domandandomi quali fossero i ricami che di certo (sarei stata pronta a scommetterci) erano stati apposti sul lembo nascosto della stoffa. “Sai che Jenny mi ha stupita, su questo dettaglio? Lei è cresciuta a pochi chilometri da me, ma in ambiente protestante; anzi, una piccola enclave protestante che esiste in territorio piemontese fin dal Duecento. E mi diceva che lei, crescendo, ha sempre sentito parlare di caccia alle streghe come di un fenomeno che prendeva di mira primariamente gli eretici, maschi e femmine indifferentemente. Da ragazzina, non l’aveva mai inteso nei termini di una lotta di genere”. Ho sbattuto le palpebre un paio di volte in rapida successione: “pazzesco. Parlo di una mia coetanea, cresciuta a pochi chilometri da casa mia. È davvero incredibile la varietà di letture che si possono dare a questo fenomeno a seconda degli ambienti e a seconda di quello che ci si vuole scorgere”.
“Beh, scusa”, ha fatto John. “Non mi dicevi che, quando sei andata a studiare storia della magia nel Regno Unito, i tuoi compagni di università ti consideravano già una mezza strega per il semplice fatto di essere cattolica?”.
E lì sono scoppiata a ridere. “Vero, sì! Ma ovviamente con molta simpatia, eh. Mi sembra che lì, l’associazione mentale tra cattolicesimo e magia sia ancora abbastanza diffusa, almeno tra chi ha già un po’ di dimestichezza con la materia. Ne parlo anche nel libro, Cromwell deve aver lavorato bene”.  
“Non aveva nemmeno tutti-tutti i torti” ha commentato, e anche a buon diritto, il monaco-mago che mi stava davanti. “Immagino che osservazioni come queste siano state di un certo interesse per quell’eretica attiva nel campo della stregoneria cui t’accompagni…”.
Ma John!”.
Non ha manco dato segno di aver sentito: “la bambolaia, intendo, ovviamente. Che oltre a esercitare le arti femminili si interessa anche di antropologia, se non sbaglio”.
“Eh”.
“Si sarà ben divertita, a isolare nelle tue storie gli elementi che la società dell’epoca declinò in chiave stregonesca di volta in volta, a seconda del bisogno che doveva soddisfare. No? Come quando gli eretici anglicani accusarono di stregoneria tutti i sacerdoti cattolici, facendo ciò che i cattolici avevano fatto con gli eretici fino a centocinquant’anni prima”.
Ho annuito. “Di sicuro; e me lo diceva, infatti. E mi diceva anche che le è piaciuto molto riflettere sui modi in cui gli elementi del nostro immaginario si sono ricombinati in epoche moderne dando origine alla figura della strega come la intendiamo oggi. Sai, la donna ribelle e sexy coi riccioli rossi, il cappello a punta e la scopa di ordinanza. Anche quello, probabilmente, risponde a un bisogno, che…”.
“Fra l’altro”, mi ha interrotta il mago. “Ci hai fatto caso, che nel tuo libro è pieno di streghe che vanno al sabba, ma non ce n’è nemmeno una che ci vada volando su una scopa?”.
“Me ne sono accorta solamente correggendo la bozza, quando ho riletto le storie tutte assieme. Sì, è vero, manco l’avessi fatto apposta”.
“Da questo punto di vista, trovo apprezzabile anche la cura con cui la tua amica eretica…”.
“Ma la smetti? è offensivo!”.
“…ha cucito le sue bambole”, ha concluso come se io non avessi proprio fiatato. “Si discostano parecchio dalla classica immagine di strega”.
E lì ho annuito, con un sorriso: “sì, sono streghe diverse dal solito. Vanno capite. E non hai idea dell’attenzione con cui ne ha curato i costumi: con alcune libertà artistiche, ovviamente, ma ogni abito è ispirato a quelli che si vedono in quadri d’epoca, dipinti nel periodo e nella zona d’Europa in cui ha vissuto la strega. Veramente un lavoro artigianale di livello. Dato a chi lo sa apprezzare, per me sarebbe il perfetto regalo di Natale”. John s’era di nuovo distratto curiosando tra i miei libri, ma io ho continuato imperterrita: “l’ha fatto, ovviamente, per la volontà di inserire ogni storia nel contesto, e di distaccarsi dalla nostra immagine stereotipata di streghetta col cappello a punta. E poi, a quanto mi diceva, anche per far vedere che alcuni elementi che oggi fanno parte del nostro immaginario stregonesco vi sono entrati per motivazioni storiche reali. La bambola ispirata a Maria de Ximildegui, per esempio, indossa veramente un cappello a punta, ma è il cappello tipico delle donne della tradizione basca, che compongono la quasi totalità degli individui processati per stregoneria in Spagna. È interessante domandarsi se e fino a che punto questi reali elementi di folklore si siano ricombinati per dare origine all’immagine di strega che abbiamo oggi”.

Con un certo interesse, John ha tirato fuori dalla scrivania un librettino dalla copertina nera dedicato ai Grimoires. “E questo, per l’antropologa che cuce le bambole”, mi ha detto. “E per la storica della Chiesa, qual è stata la cosa più interessante invece?”.
Ho cercato il suo sguardo, fra l’altro inutilmente visto che lui s’era subito buttato nella lettura del libretto. “Oh cielo. A domanda diretta, posso dire che sei stato tu?”.
Indubbiamente le parole giuste per fargli risollevare gli occhi. Non s’è nemmeno sforzato di nascondere il compiacimento, quel mago orgoglioso, orgoglioso come tutti i maghi. E io mi sono affrettata a precisare “no, ma non per altro. La tua autobiografia spirituale si legge come un romanzo, e fra l’altro io prego di essere riuscita a renderne almeno in parte la bellezza, col riassunto che ne ho fatto nel mio libro. Perché, te lo giuro, è una delle cose più belle che abbia mai letto in vita mia, sarebbe la sceneggiatura perfetta per un film hollywodiano”. E mentre John se ne stava lì davanti a me con un sorriso gongolante, ho aggiunto: “eppure, no. Dico che si legge come un romanzo, ma non è vero che si legge come un romanzo. La magia della narrativa fantasy non ha la stessa profondità, non ha regole così sfaccettate e così tanti chiaroscuri, non si mescola così tanto alla scienza e alla religione. È infinitamente più piatta rispetto alla magia che tu dipingi”.
“E che era la forma vera e originaria in cui la magia è arrivata in Occidente, eh”, ci ha tenuto a precisare.
“Lo so. Ed è incredibilmente più affascinante, rispetto alla visione di magia e di mago che abbiamo oggi. Anche livello letterario, eh”. E lì ho esitato per qualche secondo, cercando il miglior modo per esprimermi. “Io gioco spesso a un gioco di ruolo. Se mi mettessi in testa di muovere un personaggio che è mago, e al tempo stesso chierico, e al tempo stesso scienziato, e al tempo stesso mosso da affetti familiari fortissimi, mi sgriderebbero dicendo che sono fuori ruolo. E infatti lo sarei, per i canoni di oggi”. John ha piegato le labbra in un sorriso, e io ho sorriso di rimando. “E invece, incontrare te… ma non solo te, eh! anche don Guichard, padre Richardson; un po’ tutti, globalmente. È stata una rivelazione. Direi che siete i personaggi di mago più belli che abbia mai incontrato, ma la realtà è che siete così belli proprio perché siete lontanissimi da qualsiasi canone letterario riguardo il personaggio del mago”.
John ha sorriso ancora, ricominciando a sfogliare il manualetto sulla storia dei grimorii. “Quindi, salta fuori che non sono solo le streghe a esser state appiattite su uno stereotipo, nel nostro immaginario?”.
“Niente affatto, non sono state solo loro”, ho detto a colpo sicuro. “Anzi, secondo me a voi maghi è andata ancora peggio. E la gente non ha la minima idea di quanto abbia perso, appiattendovi sullo stereotipo del Gandalf”.

“Ecco, andiamo bene”, s’è fatto sfuggire John a mezza voce, guardando malissimo chissà cosa che aveva appena letto nel manualetto. E poi ha sospirato: “a noi maghi è andata peggio perché siamo stati noi stessi a tagliarci le gambe da soli”. E mi ha allungato il libro, aperto al capitolo sui grimorii settecenteschi: “guarda che schifo!”. Ha soffiato aria dal naso, visibilmente scocciato: “i testi di magia scritti dopo la Riforma, in ambiente protestante ma non solo, si muovono in contesti teologici completamente diversi rispetto a quelli usati da noi padri fondatori. E il colpo di grazia l’hanno dato gli Illuministi, cominciando a parlare di una assurda magia atea che funziona, sostanzialmente, perché il mago è una specie di super-uomo. Magari addirittura dotato di poteri preclusi alla gente normale, in stile Harry Potter”. Era così irritato che ha buttato il librettino sulla scrivania, senza troppi complimenti. “La realtà è ben diversa, come sai. E il mago è un uomo normalissimo. Al limite, un santo in terra, se vogliamo”.
“O un eretico, a seconda dei punti di vista”, l’ho rimbrottato; e lui ha sorriso. “Ed è un uomo normalissimo, sì, ma anche meravigliosamente anomalo, per i canoni a cui siamo abituati oggi. Posso dirti che sono le storie di maghi, e non le storie di streghe, quelle di cui vado più orgogliosa tra quelle che ho raccontato nel mio libro?”.
“Ma sì che puoi”, ha commentato lui con nonchalance, “lo sanno tutti che noi maghi abbiamo il nostro fascino. Altro che quelle donnette di campagna”.
Ho abbozzato un sorriso e lui ha accennato a una risata di rimando: “quindi che facciamo, la chiudiamo così, con me come testimonial? Tipo: comprate il libro di Lucia Graziano così avrete il non comune onore di fare la mia conoscenza?”.
Ho riso anche io: “vabbeh, mo’ non esageriamo. Capisco l’orgoglio del mago, ma con tutto l’affetto…”.
“Ma guarda che secondo me funziona, invece”. E prima ancora che potessi protestare, si è impossessato del mouse e ha premuto PUBBLICA. “Fidati, lascia così. Se tanto mi dà tanto, ormai si sono incuriositi un sacco!”.


E se vi siete incuriositi davvero, cliccando sulla copertina del mio libro verrete reindirizzati su Amazon, dove sarà possibile acquistarlo o anche solo curiosare un po’ nell’indice.
Il libro resterà in vendita in saecula saeculorum; chiuderà invece il 3 novembre il temporary shop su Etsy in cui Babacio vende le bambole ispirate alle storie che racconto nel mio libro. Possono essere acquistate da sole, oppure in bundle assieme al mio libro in una graziosa confezione perfetta per i regali: e se è vero che manca ancora un bel po’ al Natale… è sempre il momento buono per portarsi avanti, come si suol dire!

4 risposte a "Di quando io e un mago medievale ci mettemmo a chiacchierare del mio nuovo libro"

  1. Francesca

    Tu, nel giro di meno di una settimana mi hai già fatto sforare due volte. Ho ammollato (nel senso di elargito) la mia mail ad Aleteia… Mentre su Amazon avevo già messo nel carrello ‘sta spesa-libro imprevista (che ha sfrattato altre cose là in attesa).

    Adesso, con questo post, hai avvicinato il momento del clic Acquista… Oltre ad avermi confermato che il testo potrebbe interessare (anche) ad un’altra persona di mia conoscenza…
    Qui Volgo Ignorante 😁.
    Che ringrazia.

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  2. Ago86

    Ti ringrazio perché il post mi ha suscitato diversi spunti di riflessione, anche se non prettamente attinenti la storia della magia ma questioni antropologiche più ampie.

    Continua così!

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