Il primo “vero” Giorno del Ringraziamento? Lo tennero i Francescani in Texas, nel 1598

Nel novembre 1991, qualche giorno prima della Festa del Ringraziamento, una banda di texani vestiti da conquistadores occupò aggressivamente una delle principali vie di Plymouth, la cittadina del Massachusetts che – come ben sappiamo – accolse i padri fondatori sbarcati dalla Mayflower e li vide celebrare nel 1621 il primo Thanksgiving Day della Storia.

…ma è proprio così che stanno le cose?

Assolutamente no, affermarono i texani, brandendo spade sugli attoniti passanti: Plymouth non aveva alcun diritto di definirsi la patria del primo Thanksgiving Day, rubando questo titolo alla cittadina che lo meritava per diritto! Come spiegò infatti il portavoce della combriccola – un tipo che parlava in accento texano strettissimo indossando un elmetto da conquistadores tutto decorato da piume in stile pellerossa – la vera patria del primo Thanksgiving Day era la sua città natale: San Elizario, Texas. Proprio lì, nell’aprile del 1598, s’era tenuto il primo vero Giorno del Ringraziament- ma il texano non riuscì mai a finire la sua frase. Fu prontamente atterrato da un gruppo di poliziotti, che ridussero a più miti consigli quei belligeranti conquistadores e provvidero ad arrestarli con l’accusa di «blasfemia». Seguì, a strettissimo giro, un vero e proprio processo, durante il quale gli imputati ebbero modo di esporre la loro tesi e un’impassibile giuria popolare fu chiamata a giudicarla: alla fine, i Texani vennero rilasciati per mancanza di prove. Furono restituiti all’affetto dei loro cari giusto in tempo per il Thanksgiving Day, che poterono celebrare nella loro casa – non è dato sapere con quale grado di entusiasmo.

Chiaramente, era tutta una messinscena. I fatti che ho raccontato hanno realmente avuto luogo, ma si trattava di uno show organizzato a tavolino dalle autorità di Plymouth e di San Elizario, in una sorta di strano gemellaggio battagliero che ebbe un sequel l’anno successivo, quando una delegazione di “Padri Fondatori” raggiunse il Texas vestita di tutto punto, a protestare con indignazione per le vili accuse di furto che erano state rivolte loro dai conquistadores. I quali, animosamente, colsero l’occasione per ricambiare le gentilezze ricevute dodici mesi prima e provvidero a mettere al gabbio i puritani della Mayflower, facendoli penare un po’ prima di conceder loro la grazia.

Spettacolini organizzati ad arte, per l’appunto. E organizzati anche molto bene, vorrei aggiungere: con una giocosità che fece a divertire tutti, ma che al tempo stesso riuscì a coinvolgere il grande pubblico in un dibattito storiografico di tutto rispetto. Effettivamente, qual è la città che ha ospitato il primo Thanksgiving Day della Storia? La celebre Plymouth, nell’autunno 1621, o la semi-sconosciuta San Elizario, nella primavera 1598?

Da un punto di vista strettamente storico-documentario, gli orgogliosi Texani non avrebbero tutti torti nel rivendicare la primogenitura: che, fra l’altro, trasformerebbe il Thanksgiving Day in una festa cattolicissima, celebrata per la prima volta da un gruppo di frati francescani all’interno di una celebrazione eucaristica. Ve lo sareste mai immaginato?

***

Correva l’anno 1595 quando il re di spagna Felice II incaricò Juan de Oñate y Salazar di avviare una colonia sulla sponda nord del Rio Grande, nella zona dell’attuale Texas.

Se c’era un uomo capace di portare a casa il risultato, non v’era dubbio che costui fosse proprio Oñate: oriundo (era nato nelle colonie spagnole che sorgevano nell’attuale Messico), coniugava a un’impeccabile preparazione militare la matura consapevolezza degli uomini di mezza età. Tutte doti che gli sarebbero state preziose per la difficile missione che era stato incaricato di svolgere: non era la prima volta che gli spagnoli cercavano di spingersi a settentrione per piantare la loro bandiera sulla zona del Rio Grande, ma ogni tentativo era fallito miseramente a causa delle asperità del territorio, trasformandosi quasi sempre in una mattanza per gli sventurati coloni che avevano preso parte all’impresa.

Ma Oñate non era uomo da spaventarsi per così poco, e – grazie a concessioni economiche davvero vantaggiose per tutti i coloni che fossero riusciti a insediarsi in quella zona – ottenne in breve tempo di radunare attorno a sé un gruppetto di volenterosi, disposti ad assecondare quel sogno folle ma seducente. Erano circa quattrocento, gli avventurieri che nel gennaio 1598 partirono dalla città messicana di Santa Barbara pronti a marciare verso nord: tra di loro v’era un buon numero di soldati, che avevano ricevuto un severo addestramento per essere in grado di affrontare ogni tipo di minaccia, ma c’erano anche donne, bambini e semplici lavoratori, che speravano di poter concretizzare il loro american dream in quelle terre nuove e piene di promesse. V’erano coloni spagnoli arrivati da poco dal Vecchio Mondo, ma anche famiglie meticce che vivevano in zona da almeno un paio di generazioni; e poi, naturalmente, c’era un mucchio di frati. Quelli non mancavano mai, nelle colonie spagnole. E infatti, un nutrito numero di francescani aveva deciso di mettersi al fianco degli avventurieri per garantir loro sostegno spirituale nel corso di quest’impresa perigliosa.

Diciamo che ce ne fu bisogno, a voler usare un eufemismo. Gli ardimentosi furono costretti a fronteggiare quello stesso implacabile nemico che aveva annientato, a una a una, tutte le spedizioni precedenti: il deserto di Chihuahua, che s’era giocoforza costretti ad attraversare se si ambiva a viaggiare verso nord. E sebbene Oñate fosse al corrente del pericolo, e avesse ovviamente avuto cura di portare con sé enormi scorte d’acqua cui attingere nel corso della traversata, sul finire del viaggio divenne tragicamente chiaro che il condottiero aveva sbagliato a fare i conti.

A fornici una vivida descrizione di quei momenti è Gaspar Pérez de Villagrá, un letterato che partecipava alla spedizione e che ne diede conto in una Historica de la Nueva México. Seppur con le consuete e prevedibili difficoltà di un viaggio che porta donne e bambini in un territorio ostile e sfidante, il cammino dei conquistadores aveva preso il via senza troppi ostacoli: certo, occasionalmente moriva qualcuno, facendo sprofondare il gruppo nel disfattismo, ma queste erano cose da mettere in conto e a cui non era il caso di dare troppo peso. Il vero problema si venne a creare quando i coloni si ritrovarono nel bel mezzo del deserto realizzando d’aver finito le loro scorte d’acqua: le mappe (tra l’altro, molto approssimative) indicavano che ci sarebbero voluti almeno altri cinque giorni di viaggio prima d’arrivare sulle rive del Rio Grande; e fu a quel punto che il viaggio si trasformò in un vero incubo in real life.  

Poiché la meta non sembrava essere poi così lontana, i poveri coloni tentarono il tutto per tutto imponendosi di accelerare nettamente il passo. Per quattro giorni e per quattro notti camminarono senza sosta in quel deserto arido, senza un goccio d’acqua e senza toccar cibo, immersi nell’afa di una primavera insolitamente calda. La situazione era così disperata che molti di loro iniziarono a invocare la morte, sostenendo che sarebbe stato meglio abbandonarsi sulla terra arsa e chiudere gli occhi: fu necessario ricorrere alla violenza per impedire ai più deboli d’abbandonarsi a questa follia suicida. E così la spedizione continuò la sua marcia, accompagnata dal pianto dei bambini che, di minuto in minuto, si faceva sempre più debole. Incessantemente, i frati levavano al cielo le loro preghiere salmodiando con bocca secca e labbra screpolate, e in effetti sembrò che il Iddio non fosse rimasto insensibile alle loro suppliche: quando già i coloni stavano perdendo le loro speranze, il gorgoglio lontano del Rio Grande suonò alle loro orecchie come la promessa di una letterale vita nuova.

Una promessa un tantino sadica: ché, se vogliamo dar retta alle parole di Villagrá, questa spedizione da incubo si concluse con scene che veramente sarebbero degne di un film horror. Resi folli dalla sete, i cavalli cominciarono a correre a perdifiato verso il fiume, trascinando con sé carri e cavalieri e finendo col travolgere i coloni che viaggiavano a piedi.  Alcuni dei destrieri si buttarono nel fiume ma, troppo deboli per resistere alla corrente, furono trascinati via dalle acque rischiando seriamente di condannare allo stesso destino anche i loro cavalieri; altri due cavalli bevvero così tanto che – stando a quanto dice Villagrá – il loro stomaco esplose di lì a poco, facendoli stramazzare a terra morti stecchiti. E stramazzati erano anche i coloni, che bevvero così tanto, e con così tanta verve, da accusare sintomi in tutto e per tutto compatibili con l’ubriachezza: c’era chi barcollava, chi cantava a squarcia gola; e poi c’erano quelli che se ne stettero per ore «distesi sulla sabbia umida: gonfi, idropici, ansimanti, simili a rospi che si crogiolano sotto il sole».

Insomma – con buona pace dei puritani della Mayflower, che tutto sommato avevano “solo” dovuto affrontare un inverno inclemente in un territorio ostile, i coloni guidati da Oñate avevano davvero ottimi motivi per voler rendere grazie a Dio: è molto probabile che, se le acque del Rio Grande fossero state distanti qualche altra decina di chilometri, la spedizione si sarebbe trasformata nell’ennesima mattanza collettiva.

Poiché lo stato di salute di molti viaggiatori sembrava esser stato seriamente compromesso, Oñate ordinò di costruire un accampamento provvisorio all’ombra dei pioppi che crescevano lungo il fiume. Lì, i viaggiatori sostarono per dieci giorni, riprendendo pian piano le forze e preparandosi per l’ultima fase del viaggio: nel frattempo, quel piccolo agglomerato di tende catturò l’attenzione di una popolazione nativa – che, compresa la situazione di emergenza, scelse spontaneamente d’offrire un po’ del suo cibo a quei poveri moribondi ridotti a pelle e ossa. I quali, del resto, sembravano tutto fuorché minacciosi (anzi, la presenza di meticci contribuì probabilmente a farglieli sentire vicini), e oltretutto non avevano neppure l’intenzione di stanziarsi in loco: in un modo o nell’altro, erano riusciti a far capire che il loro obiettivo era quello d’attraversare il Rio Grande e spostarsi a nord, perché quelli e solo quelli erano i territori che il re aveva promesso loro in concessione.

Quando il suo piccolo gregge cominciò a dar segno d’essersi ripreso dopo quei giorni di incubo, Oñate ordinò ai carpentieri di costruire un piccolo altare da campo in una radura in mezzo al pioppeto. Spiegò ai frati che aveva intenzione di far celebrare loro una messa votiva in ringraziamento, per rendere lode a Dio che li aveva protetti nella fase più dura e pericolosa della traversata: in tal senso, questo primo Thanksgiving Day, se vogliamo considerarlo tale, si concretizzò in una vera e propria liturgia cattolica, officiata da sacerdoti di Santa Romana Chiesa.

Oñate invitò a quella celebrazione anche i nativi americani che erano giunti in loro soccorso, e un buon numero di essi si unì effettivamente all’assemblea, intuendo come quel rito fosse di grande valenza simbolica per quei nuovi amici di passaggio. Al termine della messa, Oñate reclamò ufficialmente per sé tutti i territori a nord del Rio Grande; dopodiché, alcuni dei suoi accompagnatori offrirono ai nativi uno spettacolo di mimo, volto a sottolineare i mille modi in cui le popolazioni autoctone avrebbero beneficiato dall’arrivo della Chiesa Cattolica sulle loro terre. Era il 30 aprile 1598, nei campi che si sarebbero presto trasformati nella città di San Elizario in Texas: l’esibizione voluta da Oñate è oggi considerata il primo spettacolo teatrale ad aver mai avuto luogo sul territorio statunitense.

…ma allora, la messa votiva celebrata dai francescani potrebbe esser tecnicamente considerata il primo vero Thanksgiving Day della storia americana?

Naturalmente, tutte le comunità di coloni avevano l’abitudine di celebrare rituali di vario tipo per elevare a Dio preghiere di ringraziamento al termine di una spedizione pericolosa, o in occasione dei vari anniversari del loro sbarco nel Nuovo Mondo. Ma se col termine di Thanksgiving Day vogliamo indicare quella comunione gioiosa che vede coloni bianchi e nativi americani sedersi allo stesso tavolo in amicizia e condivisione: beh, effettivamente i fatti di San Elizario rispecchiano perfettamente il quadro di cui sopra. Villagrá ci descrive un sontuoso pranzo comunitario che (probabilmente nello stesso giorno in cui si tenne la messa votiva, anche se l’autore non lo esplicita con chiarezza) vide i coloni e i nativi sedersi fianco a fianco: coi loro fucili, gli spagnoli s’erano rivelati imbattibili nella caccia di oche, anatre e gru, suscitando l’incredula ammirazione dei locali di fronte a un bottino così vasto; i secondi, invece, erano risultati impareggiabili nella pesca, portando a riva interi cesti di pesce. Tutto questo ben di Dio era stato cucinato comunitariamente e poi consumato in un clima di fratellanza: era anche stato un modo per dirsi amichevolmente “addio” – ché, il giorno dopo la messa votiva, gli spagnoli cominciarono a smantellare l’accampamento per puntare a nord. E ancora una volta, i nativi vennero in soccorso indicando loro il punto migliore in cui guadare il fiume: e fu proprio quel passaggio sicuro – quel paso – a dare il nome alla prima cittadina che i coloni fondarono sull’altra sponda. El Paso, per l’appunto.  

E davvero vien da dire che, con tutto il rispetto per i padri fondatori del Massachusetts, obiettivamente anche questa è una storia toccante che parla di collaborazione tra i coloni bianchi e i popoli nativi.  

***

La Historica de la Nueva México di Villagrá fu data alle stampe nel 1610, ma per diverso tempo nessuno badò alle implicazioni dell’aneddoto raccontato dal cronista. Del resto, il Thanksgiving Day ha origini antiche, ma cominciò a diventare veramente popolare nelle case degli statunitensi solo a partire dal XIX secolo: un’epoca cioè in cui la cronaca di Villagrá era già caduta nel dimenticatoio. E infatti, fu un proverbiale topo di biblioteca quello che, sul finire degli anni ’80 del Novecento, si trovò a sfogliare il testo seicentesco per ragioni di studio e sgranò gli occhi quando arrivò alla pagina che ho appena riassunto. Il sindaco di San Elizario fu prontamente messo a parte della scoperta, e naturalmente colse al volo l’occasione per dare visibilità alla sua piccola cittadina. Fu organizzato un gemellaggio con la città di Plymouth, le cui autorità furono ben liete di collaborare: nacque così quella scherzosa competitività che ho già descritto, e che ebbe il merito di far finire la notizia sulle prime pagine dei quotidiani nazionali. Ne nacque un dibattito storico di tutto rispetto, nel corso del quale la comunità accademica ebbe modo di divulgare al grande pubblico la storia del Thanksgiving Day e la sua evoluzione attraverso i secoli: insomma, una scelta comunicativa ben riuscita, che per qualche anno illuminò San Elizario della luce dei riflettori.

Sembrò, a un certo punto, che le autorità texane avessero preso fin troppo sul serio l’idea di rivendicare per loro la primogenitura del Giorno del Ringraziamento: nel 1991, la governatrice Ann Richard attivò i canali diplomatici per invitare il suo collega del Massachusetts a riconoscere ufficialmente il primato texano (la cosa non ebbe seguito), e nel 2001 il suo successore Rick Perry fissò ufficialmente al 30 aprile un giorno di festa in onore del First Thanksgiving.

Oggigiorno, questa lotta per la primogenitura sembra aver perso d’intensità. I Texani, ovviamente, festeggiano il Thanksgiving Day a fine novembre, come tutti gli altri statunitensi: alla fine di aprile, però, si tiene ogni anno a San Elizario una rievocazione storica curata fin nei minimi dettagli che riesce effettivamente ad attirare grandi folle da tutta la regione. Ma nulla più: e i cattolici locali, che in teoria potrebbero mettersi in competizione coi puritani della Mayflower per aggiudicarsi il primato, si sono ben guardati (grazie al cielo) di trasformare il tutto in una guerra di religione.

Resta il fatto che la storia del “Thanksgiving Day” di San Elizario è oggettivamente assai graziosa, a modo suo. E c’è davvero da ringraziare l’orgoglio patrio dei texani per averla fatta riemergere dall’oblio dei secoli: in fin dei conti, anche questo è un grazioso aneddoto da raccontare.


Per approfondire: Melanie Kirkpatrick, Thanksgiving. The Holiday at the Heart of the American Experience (Encounter Books, 2016)

Lascia un commento