Quando nasce la tavoletta ouija?

C’erano una volta le tavolette ouija – o, per meglio dire, le loro bisnonne. Prima che Elijah Jefferson Bond brevettasse nel 1891 la famosa tavoletta, esistevano già decine di dispositivi che promettevano lo stesso risultato: la possibilità di scambiare quattro chiacchiere di cortesia coi fantasmi di passaggio, in una comoda seduta spiritica fai-da-te.

L’attrattiva risiedeva proprio nel fai-da-te: ché, nell’inquieta età vittoriana, con la sua fascinazione per le atmosfere gotiche, erano molti gli individui che, tra il serio e il faceto, carezzavano l’idea di trasformarsi nel protagonista di una ghost story stabilendo un contatto col primo fantasma di passaggio. Ma non tutti avevano il coraggio, la possibilità logistica e i mezzi economici per presenziare a una seduta spiritica vera e propria: e allora, ecco arrivare l’idea del fai-da-te, come soluzione agevole ed economica per passare una serata all’insegna del brivido assieme agli amici.

Simone Natale ha dedicato a questi Supernatural Entertainments un interessantissimo saggio edito dalla Pennsylvania State University Press: e fa molto bene a parlare di “entertainments”, perché (almeno all’inizio) proprio di questo si trattava. I dispositivi che promettevano di mettere in contatto con i fantasmi erano considerati alla stregua di un gioco da salotto: l’acquirente tipo erano le donne della medio-alta borghesia con il pallino delle storie di fantasmi, che spesso e volentieri si divertivano con questi giocattoli tra una chiacchiera e l’altra, una tazza di tè e una partita a carte con le amiche.

Come funzionavano questi balocchi per adulti? Una delle più antiche descrizioni ci viene fornita da The Planchette’s Diary, un romanzo pubblicato nel 1868 la cui protagonista è (per l’appunto) una ragazzina che ingenuamente si lancia nel gioco, scoprendo poi con sua gran sorpresa che i fantasmi le rispondono per davvero. Quella usata dalla giovinetta era «una piccola tavola di legno verniciato, a forma di cuore, lunga sette pollici e larga cinque, che si trasformava in una sorta di tavolino mobile grazie a due rotelle poste sotto ai due punti più larghi del cuore e a una matita che veniva infilata in un buco situato a poco più d’un pollice dalla punta». Dispositivi di questo tipo esistevano per davvero: l’idea era che, poggiando il cuore sopra un pezzo di carta e cominciando a trascinarlo qua e là con movimenti casuali, la matita avrebbe tracciato sul foglio dei segni grafici o dei disegnini. Al giocatore, l’onere e l’onore di interpretarli: celato in quelle forme incerte, c’era senza dubbio un prezioso messaggio dall’oltretomba! E diciamo pure che, tendenzialmente, i giocatori riuscivano per davvero a risalire a un qualche tipo di messaggio, grazie a quello stesso meccanismo mentale per cui i bambini giocano a trovare una forma alle nuvole. L’immaginazione fa miracoli.

Altri dispositivi avevano un funzionamento ancor più semplice, interamente basato sul caso (o sul meccanismo di progettazione del gioco stesso). Esistevano tavolette in cui una lucina si accendeva automaticamente in corrispondenza della lettera o della risposta che “lo spettro stava indicando”; ne esistevano altre in cui le lettere dell’alfabeto erano disposte a cerchio attorno a una specie di trottola: là dove essa avesse fermato la sua corsa si sarebbe dovuto guardare, per carpire il messaggio che “il fantasma stava tentando di trasmettere”.

Giochini da salotto, che come tali venivano considerati: il clero non si interessava un granché a questi dispositivi (anche se nel 1853 il vescovo di Viviers si sentì in dovere di proibirne l’uso agli ecclesiastici: evidentemente c’erano preti che ci si divertivano allegramente). Le critiche dei moralisti (comunque piuttosto isolate) riguardavano più che altro il discutibile gusto del macabro sotteso a questi passatempi di gran voga (“è mai possibile che le signore di buona famiglia debbano impiegare i loro pomeriggi a fingersi ghostbusters? Non hanno proprio niente di meglio da fare?”).

Ma (quasi) nessuno, giusto per capirci, riteneva che questi giochini funzionassero davvero. Di certo non lo credevano gli spiritisti, che avevano tutto l’interesse nel dire che solamente i veri medium potevano davvero riuscire nell’impresa di prendere contatto con le anime dei defunti, ed erano molto vocali nell’additare questi dispositivi come puri giochi da salotto: e così fu fino alla fine dell’Ottocento.

Poi, la tavoletta ouija arrivò sul mercato.

***

A crearla fu Elijah Bond, un avvocato di Baltimora col pallino per la tecnologia che già da tempo arrotondava lo stipendio inventando oggetti di vario tipo, per poi vendere il progetto a quelle industrie che si dichiaravano interessate alla produzione. Solitamente, Bond si dedicava alla creazione di oggetti d’uso comune, con un’applicazione più concreta: probabilmente, cominciò a interessarsi al mercato dell’occulto dopo aver scambiato quattro chiacchiere con sua cognata, che era una medium professionista. Ebbene: il 10 febbraio 1891, il nostro amico si recò all’ufficio brevetti per registrare l’invenzione di quella che chiamò Tavoletta Ouija, oppure Tavoletta Egiziana della Fortuna. Registrata in seno alla categoria “toy or games”, la tavoletta veniva descritta come un «giocattolo o balocco tramite il quale due o più giocatori possano divertirsi a porre domande di ogni tipo. Il dispositivo fornirà loro la risposta, operato dal tocco delle mani dei giocatori, in modo tale che il responso sarà indicato dalle lettere dell’alfabeto disposte su una tavola». Stando a quanto Elijah Bond dichiarò successivamente (e a chiaro scopo pubblicitario) la tavoletta era stata collaudata niente meno che da Helen Peters – sua cognata, per l’appunto, nonché medium di una certa fama. Era stata proprio lei, un giorno, ad avere l’intuizione di chiedere alla tavoletta stessa come la si sarebbe dovuta chiamare: apparentemente, la tavoletta aveva indicato il nome di OUIJA – e i Bond, diligentemente, avevano seguito l’indicazione.

Ognuno deciderà da sé quanto credito dare a questa storiella: certo che Elijah Bond (e i suoi partner in affari) adottarono fin da subito una strategia di marketing che li vide affermare a più riprese che la ouija era diversa rispetto a tutti i prodotti concorrenti: lei, infatti, funzionava per davvero! E, non a caso, la commercializzarono come il prodotto di una sapienza antica che s’era ormai quasi perduta e che miracolosamente riaffiorava al mondo proprio adesso: tra i più antichi estimatori della tavoletta ci sarebbe stato niente meno che Pitagora, che apparentemente ne faceva largo uso.

Non è vero; però, a suo modo, la tecnica pubblicitaria funzionò: nell’arco di pochi anni, la tavoletta ouija aveva scalzato tutti i suoi concorrenti sul mercato. Gli acquirenti stavano davvero cominciando a credere che la tavoletta avesse realmente il potere di stabilire un contatto con l’oltretomba? Meh: è difficile fare questo tipo di valutazioni; certo è che qualcosa di grosso era all’orizzonte. E il destino della tavoletta ouija sarebbe cambiato d’un tratto l’8 luglio 1913, nel salottino di una modesta abitazione di St. Louis.

Lì viveva la signora Pearl Curran, che già da qualche mese si divertiva a giocare con la tavoletta in compagnia della sua vicina di casa, Emily Grant. Se le loro sessioni di gioco si concludevano sempre con un nulla di fatto – così assicurò Pearl ai giornalisti – in quel fatale 8 luglio la tavoletta cominciò a muoversi con una forza tale da far immediatamente capire alle due amiche che qualcosa stava succedendo per davvero. Lettera dopo lettera, una presenza si manifestò: il suo nome era Patience Worth, una donna inglese vissuta nel Seicento e trasferitasi nel Nuovo Mondo per cominciare una vita nuova; sperava di trovar fortuna, e invece trovò la morte, per mano di alcuni nativi americano che l’avevano uccisa brutalmente. A Patience rimaneva il rimpianto di non essere mai riuscita a dare alle stampe le mille storie che aveva in testa: era infatti un’aspirante scrittrice, e aveva trascorso gli ultimi trecento anni nel tentativo di stabilire un contatto con qualcuno che potesse trascrivere per lei i suoi racconti.

O, quantomeno, questo è quanto raccontò Pearl Curran, un’altra che evidentemente di marketing se ne intendeva: non sorprendentemente, quando uscì sul mercato, il suo romanzo scritto sotto dettatura spiritica ebbe un successo travolgente. Nel 1917, The Sorry Tale inaugurò una sterminata serie di racconti, drammi teatrali e testi poetici che invasero le librerie nei vent’anni successivi, immancabilmente diventando istantanei best seller. Fu un vero e proprio caso editoriale: tra gli appassionati di quel tipo di letteratura, non si parlava d’altro (e direi anche comprensibilmente). Alcuni storici si interessarono al caso facendo indagini d’archivio alla ricerca di questa Patience Worth (ma non riuscirono a trovare alcuna traccia della sua esistenza); alcuni psicologi avanzarono il garbato sospetto che Pearl fosse vittima di un disturbo da personalità multiple (ma non ottennero mai di poterla visitare, nonostante le richieste ripetute).

Certo è che questa strana storia di dattilografia ultramondana accese i riflettori sulla tavoletta ouija, spingendo molti a guardarla con occhi diversi: era forse possibile che quel dispositivo fosse un po’ più di un normale gioco da salotto?
Insomma: funzionava per davvero?

Molti si convinsero di poter rispondere con un netto “sì”, che suonava peraltro anche molto consolatorio: erano, quelli, gli anni sconvolgenti della prima guerra mondiale e dell’influenza spagnola, e quasi tutti avevano un fratello, un figlio o un fidanzato a cui avrebbero tanto voluto poter parlare per l’ultima. Molti di quegli appassionati che, fino ad allora, si erano semplicemente limitati a giocherellare con l’idea, d’un tratto cominciarono ad affollare per davvero i salotti delle medium, nella speranza d’aver fortuna; e anche lo spiritismo (un movimento che all’epoca aveva i tratti di una religione vera e propria) fece boom, negli anni compresi tra le due guerre.

E fu a quel punto che la Chiesa Cattolica cominciò a guardare al fenomeno come a un problema molto serio, da affrontare con estrema urgenza.

***

In quegli anni, erano spesso le Chiese protestanti a denunciare i pericoli derivanti da un’eccessiva familiarità con l’occulto. Ma, curiosamente, la lotta alla tavoletta ouija fu appannaggio dei cattolici in via quasi esclusiva – non tanto per ragioni dottrinali, quanto più per la militanza attiva di uno specifico sacerdote: John Godfrey Ferdinand Raupert.

Ex sacerdote anglicano, allontanatosi dal cristianesimo per una crisi di fede che l’aveva portato a frequentare gli ambienti dello spiritismo, e infine approdato alla Chiesa di Roma, fin dai primi anni ’10 don Raupert era stato attivo nella campagna contro i medium. Nel 1919, allarmato per la crescente popolarità di cui stava godendo la tavoletta ouija, il religioso diede alle stampe un nuovo libro eloquentemente titolato The New Black Magic (and the Truth about the Ouija-Board). «Gli spiriti sono molto lesti nello stabilire un contatto con i vivi, ma molto meno rapidi nell’andarsene quando l’hanno ottenuto» era il leit motiv del volume, in cui il sacerdote sconsigliava nella maniera più assoluta di baloccarsi anche solo per scherzo con quello che – lo affermava con fermezza – non era solamente un gioco.

Le argomentazioni di Raupert non erano perfettamente sovrapponibili a quelle che normalmente si sentono oggi in ambiente confessionale (“se usi la tavoletta, può anche darsi che qualcuno ti risponda per davvero, ma stai pur certo che quel qualcuno è Satana”). Pur non rigettando a priori lo scenario di cui sopra (senz’altro possibile, a suo giudizio), il sacerdote si soffermava più che altro sulle gravi conseguenze psicofisiche che lui personalmente aveva osservato su molti degli spiritisti di cui era stato amico: «le persone che usano abitualmente e con regolarità la tavola ouija, la planchette, o altri dispositivi automatici per ottenere messaggi dagli spiriti sperimentano dopo un certo lasso di tempo una particolare condizione di spossatezza e affaticamento, in molti casi accompagnata da un dolore intenso nella parte superiore della colonna vertebrale che si diffonde gradualmente all’intero cervello. Questo stato di prostrazione è dovuto al fatto, ormai ben documentato, che per ottenere i movimenti della tavola l’energia vitale o nervosa viene sottratta all’organismo di chi sta ‘giocando’». E se poi si riusciva per davvero a stabilire un contatto con un’entità, quale che fosse, si configurava il rischio di una vera e propria possessione: «lo spirito invasore paralizza le normali facoltà di pensiero, domina la volontà e l’organismo sensoriale, fino a quando si annientano le capacità mentali e morali del soggetto e questi diventa un imbecille».

Obiezioni un po’ sui generis, rispetto a quelle che normalmente vengono fatte oggi. In ogni caso, l’idea che la tavoletta ouija non vada utilizzata perché rischia di spalancare le porte a entità men che benintenzionate compare di lì a poco in The Menace of Spiritualism, un testo di analogo tenore dato alle stampe nel 1920. Il suo autore, Elliott O’Donnell, era un personaggio a dir poco variopinto (era un ghostbuster professionista che sosteneva d’essere un discendente di re Artù, tanto per capirci), che a dirla tutta non aveva grosse basi culturali a partire dalle quali muovere le sue critiche allo spiritismo. Ad avere però una formazione teologica decisamente più curata era padre Bernard Vaughan, il sacerdote gesuita che aveva firmato la corposa introduzione al libro: e proprio in quelle pagine il sacerdote osservava senza mezzi termini: «permettetemi di ricordarvi che nessuno che partecipi a una seduta in cui gli spiriti dell’ignoto si rendono udibili o visibili può dimostrare che i suoi ospiti siano davvero ciò che affermano di essere. Come si può confutare che non siano presenze sataniche? Potete star certi che gli spiriti maligni sono in grado di impersonare i morti con la stessa abilità con cui gli attori interpretano i loro personaggi»: e grossomodo è ancora questo ciò che direbbe un sacerdote cattolico di fronte a un fedele che gli chiedesse un’opinione su questo passatempo.

Curiosità? Nella sua lotta contro la tavoletta ouija, la Chiesa Cattolica poté vantare un insolito alleato: Aleister Crowley, il famoso esoterista che molti considerano il padre dell’occultismo contemporaneo.
Anche Crowley era dell’idea che la tavoletta ouija potesse effettivamente essere un tramite attraverso cui comunicare con spiriti non umani, e seguiva con molto interesse le sperimentazioni in tal senso che venivano portate avanti da Charles Stansfeld, uno dei suoi discepoli prediletti. Proprio perché l’evidenza lo portava a credere che la ouija funzionasse per davvero, anche Crowley era dell’idea che fosse sommamente irresponsabile vendere questi dispositivi nei negozi di giocattoli, lasciandoli alla mercé di signore annoiate e di ragazzini alla ricerca del brivido. Utilizzare una tavoletta ouija «non è un gioco per fanciulli», puntualizzò più volte l’occultista, che non aveva nulla in contrario a che i suoi discepoli utilizzassero questo dispositivo… ma appunto: i suoi pupilli erano “maghi professionisti”, non incompetenti allo sbaraglio che chissà in che guai si vanno a cacciare.

Buffo pensare che, se vivesse ai nostri giorni, Aleister Crowley sarebbe il primo a inorridire al pensiero di quelle festicciole di Halloween tra adolescenti in cui qualcuno tira fuori una tavoletta ouija e tutti gli altri iniziano a giocare. “È un pericolo insensato!”, direbbe senza mezzi termini: e chissà con quanta serietà verrebbe accolto il suo grido d’allarme.


Per approfondire:

Anche questa è una storia che ho accennato in poche pagine in Halloween, l’alba dell’eternità, il libro di cui ormai avete sentito parlare mille volte. Per chi volesse ulteriormente approfondire, appunto qui un po’ della bibliografia che viene citata a piè di pagina:

  • Edward Cornelius, J., Aleister Crowley and the Ouija Board (Feral House, 2005)
  • Morton, Lisa, Calling the Spirits. A History of Seances (Reaktion Books, 2020)
  • Natale, Simone, Supernatural Entertainments. Victorian Spiritualism and the Rise of Modern Media Culture (Penn State University Press, 2016)

5 risposte a "Quando nasce la tavoletta ouija?"

  1. Avatar di Sconosciuto

    Anonimo

    Quando avevo circa 9/10 anni, per Natale una conoscente mi regalò una specie di tavoletta Ouja.

    Quando provai ad usarla mi prese un coccolone, perché il pendolino si muoveva DAVVERO.

    Mio padre, uomo di pronte decisioni, buttó nella spazzatura il trabiccolo, poi perse mezza giornata a spiegarmi il concetto di « azione ideomotoria ».

    Annalisa Neviani

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    1. Avatar di Lucia Graziano

      Lucia Graziano

      Certo che regalare un gioco così (al di là di ogni altra possibile considerazione) a una bambina di nove anni, e forse anche senza chiedere prima il parere dei genitori… 😂
      Lo metto poco poco al di sotto dell’immortale “regalare al pupo un cagnolino senza prima chiedere ai genitori se per loro è ok”

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  2. Avatar di ac-comandante

    ac-comandante

    Fortunatamente non l’hanno usata in quella famosa seduta spiritica in cui “cercavano Moro”, lì hanno usato il tavolino. 😎
    Condanne da parte cattolica di queste pratiche sono note; almeno, io le conoscevo. Di mio non ho mai provato nulla di questi “artifici predittori” (il termine esiste? io so di un predictor ma era una specie di calcolatore meccanico per puntare la contraerea). E “la mia ragazza” mi ha raccontato che avevano fatto un non so quale esperimento col “pendolino” e sarebbe venuto fuori che avrebbe avuto tre figlie femmine… o_O Piccolo problema: lei è sterile dalla nascita (per me, poi, il Pendolino è solo un treno).
    No, sono troppo razionale, le uniche previsioni che seguo sono quelle meteorologiche 😛

    OK, ora devo andare: fra poco passano i miei soci, abbiamo un lavoro in un villetta nella Bassa Friulana…

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