Nsaku ne Vunda, il “re magio” congolese ambasciatore a Roma

I tempi erano maturi perché prendessero ufficialmente il via le relazioni diplomatiche tra Roma e il Congo – all’epoca, una nazione indipendente posta sotto il protettorato del Regno Unito di Castiglia, Portogallo e Aragona (in soldoni: Spagna e Portogallo).

Le prime e timide interlocuzioni tra le due parti avevano portato a risultati più che soddisfacenti, pur restando confinate alla sfera religiosa: per Alvaro II re del Congo, era stato una vittoria non da poco vedersi accordare la richiesta di far nascere in territorio nazionale una diocesi al 100% congolese, che fu inaugurata nel 1596 permettendo ai congolesi di diventare indipendenti dal vescovo “straniero” di São Tomé, cui avevano fatto capo fino a quel momento. Un piccolo passo per l’uomo, verrebbe da chiosare, ma un grande passo per il governo congolese, che era riuscito ad accreditarsi presso la Santa Sede come un interlocutore degno di fiducia: i funzionari che avevano perorato la causa avevano fatto un’ottima impressione sui cardinali che si erano occupati della faccenda, e che in colloquio col papa avevano avuto modo di lodare la preparazione e il garbo di quei diplomatici provenienti dall’Africa lontana.

Parve dunque al pontefice che fosse giunta l’ora per dare al Congo qualche riconoscimento in più: e così, Alvaro II fu invitato a mandare a Roma un suo ambasciatore, “come fanno tutti i re cristiani”. E non era così scontato, per un piccolo staterello schiacciato dal peso delle potenze coloniali, vedersi riconoscere quelle stesse prerogative che la Santa Sede accordava ai grandi re delle monarchie europee.

Ed ecco entrare in scena Nsaku ne Vunda, un trentenne congolese proveniente dalla nobiltà locale (ma già istruito “all’occidentale” nelle scuole gestite dai missionari): pio e devoto, di impeccabili maniere, sicuro di sé e determinato, ma al tempo stesso cauto in diplomazia.

La sua missione? Oltre all’ovvio “farsi portavoce delle istanze del suo re”, Nsaku lasciava la sua madrepatria con un compito non da poco: ribadire con fermezza la sovranità del Congo (usando, se non altro, la retorica del regno cristiano sottomesso unicamente alla divina legge), in anni in cui la posizione del suo stato cominciava a non essere più così scontata. Filippo III, re di Portogallo e Spagna, non era molto dell’idea, e anzi riteneva che il suo protettorato dovesse rinunciare ad alcune autonomie per poter essere amministrato “con più efficacia” dal potere coloniale.

Insomma, un compito non da poco, per un politico con un pedigree che lo metteva senz’altro nelle condizioni di riuscire: ma a far passare alla Storia la triste storia Nsaku ne Vunda, non furono i suoi meriti (o demeriti) in diplomazia. Se oggi stiamo parlando di questo povero cristiano, è per concentrarci sull’anomala dose di jella che il derelitto si portava appresso.

Partito per Lisbona nell’estate 1604 con un seguito principesco e una buona dose di speranze, Nsaku fu costretto a fare un tratto del suo viaggio imbarcato su quella che, di fatto, era una nave di negrieri (non ce n’erano altre a disposizione, in quel momento, sulla rotta che gli interessava), e chissà se questo non bastò a far venire brividi di disagio al diplomatico o a qualcuno dei suoi accompagnatori (come a dire “mah, questa cosa non mi sembra di buon auspicio”). Tempeste marine di notevole portata rischiarono più volte di far affondare la nave, ma a infliggere i danni più gravi fu la ciurma di pirati che un bel dì prese d’assalto il veliero, rubando a Nsaku tutti i preziosi doni che l’ambasciatore aveva selezionato per il papa.

Dopo un anno e mezzo (!) di peripezie per mare, l’ambasciata congolese sbarcò a Lisbona… scoprendo di dover affrontare un problema ancor peggiore dei precedenti: la valuta che Nsaku aveva portato con sé dall’Africa non aveva alcun valore sul mercato europeo. Alcune fonti parlano addirittura di conchiglie che il povero Nsaku aveva ingenuamente creduto di poter permutare in oro: le fonti d’epoca, a onor del vero, hanno la tendenza a enfatizzare un po’ troppo quella dimensione da “viaggiatore africano disavvezzo alle cose del mondo” che secondo me apparteneva ben poco a questo colto ambasciatore. Certo è che, in ogni caso, il colto ambasciatore doveva certamente aver commesso un drammatico errore di valutazione, visto che la valuta di Nsaku (quale che fosse) non fu accolta dai mercanti di cambio. Nel lasso di tempo intercorso dal suo sbarco a Lisbona al suo ingresso in terra spagnola, l’ambasciatore aveva accumulato così tanti debiti e antipatie da rendere la sua posizione difficilmente recuperabile. Le autorità madrilene lo accolsero con la calorosa proposta di fare dietrofront e non tornare, in uno sgarbo diplomatico che Roma non mancò di far pesare (e che, in ogni caso, la diceva lunga sull’insofferenza con cui re Filippo III guardava ai progressi di questa scomoda ambasciata). E il povero Nsaku si trovò a dover gestire una situazione che ben difficilmente aveva messo in conto di potersi trovare a dover vivere.

Bloccato a Madrid, pieno di debiti, senza soldi, e privo anche di quell’aiuto diplomatico che aveva sperato di poter ottenere dal re di Spagna, l’ambasciatore fu costretto a chiedere riparo nel locale convento dei Mercedari, un ordine religioso che si occupava di riscattare i cristiani che venivano fatti prigionieri dai pirati saraceni (e che, per questo motivo, aveva avuto più di un contatto con i cattolici africani). Viste le disavventure che lo stesso Nsaku aveva avuto coi corsari, il suo lungo soggiorno presso i Mercedari contribuì al far nascere la diceria che lui stesso fosse stato rapito e poi riscattato a peso d’oro da quei buoni religiosi. In realtà, l’ambasciatore aveva problemi di tutt’altra natura: stava lottando con dei calcoli biliari che lo tormentavano con dolori atroci. Gli ci vollero tre mesi prima che le terapie cui s’era sottoposto cominciassero a fare qualche effetto: nel frattempo, Nsaku visse fiano a fianco coi Mercedari, facendo mostra – a quanto dissero i suoi ospiti – di uno spirito non comune di cristiana sopportazione. Soffriva in silenzio, non si faceva scappare un lamento se non per comunicare ai medici l’aggravarsi delle sue condizioni, si mostrava sempre pronto ad aiutare nei limiti delle sue (ormai scarse) capacità, e nella rutilante Madrid s’allontanava dal convento solo per occasionali incontri di lavoro alla corte di Spagna, nella speranza che queste interlocuzioni potessero sbloccare la sua situazione.

Non la sbloccarono manco per niente.

Quando a Nsaku sembrò d’essere in grado di poter riprendere il viaggio (e, per inciso, gli sembrò male), fu necessario un intervento esterno per permettere all’ambasciatore di organizzare concretamente la partenza: mosso a pietà dalla storia disgraziata di questo volenteroso sfortunato, fra’ Diego de la Encarnacion, che nel 1584 aveva trascorso qualche tempo in Congo come missionario e dunque aveva a cuore le vicende di quella terra, supplicò i suoi superiori religiosi di fare qualcosa per permettergli di aiutare quella misera ambasciata.

E così, sul finire del 1607, i Carmelitani Scalzi presero sotto la loro ala protettrice (quel che restava de) l’ambasciata congolese. Sì, perché ai calcoli biliari s’erano aggiunti per Nsaku altri problemi di salute difficilmente diagnosticabili a posteriori, ma che avevano seriamente minato la sua tempra: pur determinato a raggiungere Roma a ogni costo, l’ambasciatore era più morto che vivo. Quanto al suo seguito, era morto per davvero: dei venti uomini che, tra funzionari e paggi, avrebbero dovuto scortare Nsaku alla città santa, sedici erano morti di fatica o di malattia nel corso di quella traversata da incubo. E quando il povero Nsaku sbarcò al porto di Civitavecchia, il 3 gennaio 1608, i funzionari pontifici che erano giunti per accoglierlo realizzarono, sgomenti, che l’ambasciatore si trovava in condizioni di letterale agonia.

Roma s’era preparata ad accoglierlo in pompa magna di lì a tre giorni, con un ingresso trionfale che avrebbe simbolicamente dovuto accostare Nsaku alla figura di Baldassarre, il re magio dalla pelle scura giunto da lontane terre. All’atto pratico, fu immediatamente chiaro a tutti che Nsaku era troppo debilitato per prendere parte alle celebrazioni previste in suo onore: al papa, cui tanto sarebbe piaciuto accogliere il diplomatico africano con un fraterno abbraccio, toccò ripiegare su un mesto piano B inviando a Civitavecchia una sua ambasciata, di cui facevano parte i suoi migliori medici. Ma c’era ormai ben poco da fare per il povero Nsaku, che rese l’anima a Dio nella notte tra il 5 e il 6 gennaio.

Morì nel Palazzo Vaticano, alloggiato con tutti i confort in quello stesso ricco appartamento che fino a poco tempo prima era stato occupato dal cardinal Bellarmino; il papa volle visitarlo sul letto di morte, esprimendo apprezzamento per quanto Nsaku aveva fatto o tentato, e il maggiordomo papale (nientemeno!) fu incaricato di organizzare per l’ambasciatore africano un sontuoso funerale a Santa Maria Maggiore.

All’epoca, il fatto che uno dei re magi fosse un nero non era ancora un dato acquisito, nell’iconografia: alcuni artisti avevano cominciato a rappresentare il trio nelle modalità che conosciamo oggi, ma la pelle scura di Baldassarre non era ancora diventata standard. Questo non impedì a Giovanni Paolo Mucanzio, maestro delle cerimonie pontificie, di sottolineare simbolicamente l’accostamento tra il santo re evangelico e il nobile cristiano congolese (complice, ovviamente, la data suggestiva in cui Nsaku avrebbe dovuto entrare a Roma e concluse invece il suo viaggio terreno): sia l’uno che l’altro – si disse – erano viaggiatori, destinati a passare alla Storia per le loro coraggiose esplorazioni.

E davvero il papa volle assicurarsi che la memoria di Nsaku fosse destinata ad attraversare i secoli: per esempio, commissionando la creazione di un busto che ancor oggi si trova a Santa Maria Maggiore, non lontano dalle reliquie della mangiatoia di Gesù Bambino che si dice siano conservate in quella chiesa e che, simbolicamente, quel “re magio ambasciatore” veglia e contempla adesso per l’eternità.

Ma non solo. Quando Paolo V commissionò un ciclo di affreschi per adornare i corridoi della Biblioteca Vaticana, ordinò che tra la commemorazione dei fatti notevoli del suo pontificato vi fosse (tra un affresco dedicato alla canonizzazione di santa Francesca Romana e un altro dedicato alla celebrazione di san Carlo Borromeo) anche un ricordo di quel pio ambasciatore nero.

Di cui sarei curiosa di conoscere la reazione, a fronte di tali e tanti onori: ben difficilmente Nsaku se li si sarebbe visto attribuire, se la sua fosse stata una missione diplomatica come tante e non un’odissea da film (in effetti, perché nessuno ci ha mai fatto un film?!). Col senno di poi, non sono così sicura che lo sfortunato ambasciatore avrebbe ritenuto fallita la sua missione. All’atto pratico, non poté nemmeno iniziarla… eppure, è evidente che a suo modo lasciò frutto.


Per approfondire:

Jessica Wärnberg, City of Echoes. A New History of Rome, its Popes and its People (Icon Books, 2023), un gioiellino che la casa editrice m’aveva omaggiato in cambio di una citazione (e ne arriverà più d’una: è davvero un libro interessante)

Ma per chi volesse leggere qualcosa di più specifico, segnalo anche

Richard Gray, “A Kongo Princess, the Kongo Ambassadors and the Papacy” in Journal of Religion in Africa 29/2 (1999)

Kate Lowe, “Representing Africa: Ambassadors and Princes from Christian Africa to Reinassance Italy and Portugal, 1402-1608”, in Transactions of the Royal Historical Society 17 (2007)

4 risposte a "Nsaku ne Vunda, il “re magio” congolese ambasciatore a Roma"

  1. Avatar di Sconosciuto

    Anonimo

    Come al solito articolo molto interessante, che approfondisce un episodio storico poco noto (come in genere è poco nota la storia dei paesi extra-europei in parte per la nostra cultura eurocentrica ma in buona parte anche per scarsi documenti scritti. Probabilmente questo fenomeno è dovuto al basso tasso di alfabetizzazione: si tratta di un argomento che sto cercando di approfondire per comprendere meglio la relazione fra tasso di alfabetizzazione e sviluppo economico.

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