Haligmonað: il mese dei riti sacri

Settembre era, in età anglosassone, un mese carico di significato.

Ce lo racconta Beda il Venerabile, il grande cronista dell’VIII secolo: parlando degli usi dei popoli pagani che avevano vissuto nella sua terra, lo storico riferisce che il mese di settembre era anticamente detto Haligmonað, offrendo per questo termine la traduzione di mensis sacrorum. “Mese dei riti sacri”, dunque: ma, come spesso fa per nostro grande scoramento, Beda non si sofferma oltre. Non descrive, non approfondisce, non dà dettagli, quasi a voler sadicamente alimentare la curiosità dei suoi colleghi del futuro: quali erano questi riti sacri? Di quali cerimonie si trattava? Erano sacrifici, ringraziamenti, banchetti? Riti fatti in pompa magna, comunitariamente e alla presenza della classe sacerdotale, o piccoli riti contadini di matrice decisamente più domestica?

Non lo sappiamo: probabilmente non lo sapremo mai e, plausibilmente, non lo sapeva neanche Beda, vissuto del resto in un’epoca in cui molti di questi riti dovevano già esser stati ampiamente abbandonati. Ne sopravviveva forse un’eco lontana, un ricordo che restava ancorato all’antico nome e poco altro; certo è che le parole di Beda lasciano in ogni caso ben pochi dubbi: non sappiamo come, ma il mese di settembre era considerato uno dei più sacri di tutto l’anno.

Certamente, possiamo però immaginare il perché. Se il mese di settembre è (come è oggettivamente) quello in cui il ciclo agrario giunge al termine e la natura inizia ad assopirsi nel suo lungo sonno… beh: è chiaro che per te quello sia un tempo sacro, se sei un uomo che vive in una società agraria e che proprio in questo periodo vede il suo lavoro giungere a compimento.

Sacro doveva essere il covone messo al sicuro, sacro il gesto di chi chiudeva le porte del granaio. Sacro doveva essere il lavoro di chi sistemava i porcili e le stalle e controllava i tetti di paglia – pure in fretta, «prima che il duro inverno arrivi alle porte della proprietà», come leggiamo nel Gerefa, un manuale “di economia domestica” d’età anglosassone. Vien da pensare (e, sarà bene ricordarlo: le nostre sono solo delle necessarie supposizioni) che Haligmonað fosse sacro perché, in qualche modo, rappresentava una sorta di giudizio finale: tutto ciò che non era stato fatto a tempo debito, e come si deve, era inesorabilmente destinato a perdersi sotto il gelo.
Da qui – probabilmente – il clima di sacralità e, presumiamo, i riti che dovevano sottolinearlo. Non sappiamo quali fossero, ma forse non andremo troppo lontani dal vero a immaginarli grossomodo simili a quelli che (molto più tardi, in età moderna) facevano fremere le campagne inglesi sul finire del raccolto: l’ultima spiga che veniva tagliata con grida di gioia; i carri che venivano decorati a festa per l’ultimo rincasare dai campi; le tavole imbandite di pane fresco e birra nuova, per onorare quello che doveva essere percepito come un capodanno.

Dev’essere stato pensando a questo clima che, nel IX secolo, un poeta rimasto anonimo dipinse nel suo Phoenix un’immagine memorabile di quei primi giorni d’autunno. Il poemetto, conservato in unica copia nell’Exeter Book, rielabora un testo di Lattanzio narrando della morte e della rinascita della fenice, che cristianamente viene accostata al Cristo che vince sulla morte. In quest’ottica, anche il susseguirsi delle stagioni, col suo ciclo di morte e rinascita della natura, è paragonato a ciò che prodigiosamente accade all’uccello mitologico: e, a tal proposito, il poeta offre al lettore un vivido ritratto di ciò che doveva essere, per un uomo del IX secolo, l’approssimarsi dell’autunno.

E la carne [della fenice] rinasce,
rinnovata interamente,
sciolta dai peccati, sì come accade
quando, finito il raccolto, la gente porta a casa
i doni della terra per il sostentamento,
– dolce nutrimento – prima che l’inverno venga,
perché le piogge non li distruggano sotto le nuvole.
Da ciò gli uomini trarranno la forza
e anche la gioia del banchetto,
quando gelo e neve, con la loro forza travolgente,
avvolgeranno la terra nei panni dell’inverno,
E da quei frutti rinascerà l’abbondanza,
– tale è la natura del grano, primo seme seminato –
quando la luce del sole, segno della vita
risveglierà, a primavera, la ricchezza del mondo.
E allora, i dolci frutti rinasceranno
– tale è la loro natura –
e saranno nuovamente gli ornamenti della terra.

Insomma, Haligmonað doveva essere il mese sacro perché racchiudeva in sé l’essenza stessa del ciclo della vita: l’abbondanza che si fa provvista, la luce che cede al buio, l’estate che muore e l’inverno che avanza inesorabile. E sotto sotto persino noi, nella nostra vita tecnologica e moderna di città, riusciamo ancora a cogliere qualche eco di quell’antica sensazione: la prima volta che, dopo l’estate, mettiamo una giacchetta perché al mattino ormai fa freddo; la prima volta che, dopo le notti boccheggianti dell’agosto, tiriamo fuori la copertina leggera e il pigiamino a maniche lunghe. Passano i secoli, ma la natura resta, e a ben vedere non siamo poi così diversi da un uomo medievale: quando arriva settembre, anche per noi l’estate è finita. Quando arriva settembre, anche per noi l’inverno è già in cammino.


Per approfondire: Eleanor Parker, Winters in the World. A Journey through the Anglo-Saxon Year (Reaktion Books, 2023), cui sono totalmente debitrice per questo articolo
Immagine di copertina: foto di Lukasz Szmigiel su Unsplash

3 risposte a "Haligmonað: il mese dei riti sacri"

  1. Avatar di ac-comandante

    ac-comandante

    Mi pare che in alcuni calendari ponevano lo stesso capodanno in questo periodo.
    Se ricordo bene, lo faceva anche il primitivo calendario della Chiesa Ortodossa russa (sostituito col giuliano da Pietro il Grande).

    Buon inizio autunno!

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